domenica 2 agosto 2020

CARLO REGAZZI 2 - Fim (Falck Sesto San Giovanni) - Bergamo

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Impegno e passione. Gli anni caldi della Cisl in Lombardia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016

 

Sono cresciuto in una famiglia operaia, mio padre era operaio alla Italcementi di Calusco. Ho fatto l’avviamento industriale e ho iniziato a lavorare a 14 anni a Milano, nell’azienda di rubinetterie Frattini. Dopo un anno di apprendistato, passo alla Prot, una fabbrica di imbottigliamento.

Nel 1972 entro alla Falck di Sesto San Giovanni. Dopo neanche tre mesi che ero lì, mi chiama il delegato, chiedendomi di fare l’attivista. Ho “resistito” un po’. In famiglia non ho avuto nessuna “educazione” sindacale, anche se i miei zii erano impegnati nella Cgil. Prima di allora, avevo soltanto frequentato alcuni corsi della scuola sociale delle Acli. Per me, quindi, è sembrata la scelta naturale aderire alla Cisl, nel 1974 ho iniziato a fare l’attivista e dopo un anno e mezzo ero già un delegato della fabbrica, e l’ho fatto per 19 anni, fino a quando sono andato in cassa integrazione, e, da lì, in pensione. Dopo la mia adesione al sindacato, ho partecipato al corso lungo a Monza, con Walter Passerini.

La mia attività sindacale l’ho svolta soltanto all’interno della fabbrica, sono sempre stato “in produzione”, ma ho ricoperto incarichi politici in tutti gli organismi. Con il congresso del 1977 sono entrato nel direttivo provinciale, regionale e nazionale della Fim. Quando sono andato in cassa integrazione, mi hanno chiesto di collaborare con la Fim a Sesto fino alla pensione. Poi, la mia attività l’ho svolta nella Fnp.

 

Quando ho iniziato a lavorare, l’ho fatto in una media azienda. Facevo il meccanico di turno in acciaieria a ciclo continuato. Lavoravo su sette giorni. Non c’era una grande attività sindacale: gli unici momenti li vivevamo durante gli scioperi generali e nazionali, soprattutto per il contratto metalmeccanico. Le condizioni di lavoro, fortunatamente non erano disastrose, e i pagamenti erano corretti. Allora, in quella fabbrica, era quello che contava. Il sindacato aveva pochi iscritti e lavorava solo dall’esterno. In fabbrica, era molto sentito solo il Ccnl: era l’unico che contava. Nessuno voleva fare il delegato: avevano paura.

Del tutto diverso l’ambiente politico che ho trovato alla Falck. Sicuramente, l’attenzione nei confronti del sindacato era molto forte. D’altronde, solo il mio reparto contava 700 dipendenti, e lavorando a ciclo continuo, le condizioni non erano delle migliori. Poi sul piano normativo, la gente era più attenta alla contrattazione aziendale. Lo sciopero era sacro, il Ccnl importante, ma per la contrattazione aziendale alla Falck non si lasciava un’assemblea senza aver stabilito ogni punto.

L’attività era naturalmente molto diversa e molto sentita. Nei primi anni 70, poi, c’è stato un cambiamento radicale: l’inquadramento unico ha cambiato tutti i parametri.

Per questo accordo, ci furono trattative aziendali per la sua applicazione: fu il mio ingresso ufficiale nella schiera dei sindacalisti della fabbrica. Partecipai a tutti gli incontri, una lunghissima sequela di sedute fiume, durante i quali stabilimmo l’intesa che ha definito i livelli, i passaggi di categoria, altri aspetti determinanti, come i cambi di orario di lavoro: si passò, allora da 42 ore medie a 40, dalle 39 domeniche e 39 sabati di lavoro, alle 26 domeniche, stabilendo un cambiamento epocale. Interessante fu anche il lavoro preparatorio per il Ccnl  del 1978: ci fu uno scontro aspro tra noi e la Fiom sulla riduzione di orario per i lavori nocivi. A luglio del 1979 il contratto venne firmato, e la spuntammo noi.

Inoltre, in quegli anni, organizzammo scioperi duri per protestare contro le pessime condizioni degli  ambienti di lavoro.

Comunque, le relazioni sindacali tra noi e la direzione erano positive: riuscimmo a superare anche i mesi dello shock petrolifero senza cassa integrazione. Organizzammo un rallentamento del lavoro e della produzione, e utilizzammo la crisi economica per rivoluzionare gli impianti. L’azienda ha capito che continuare con la linea di cui era in possesso, sarebbe andata fuori mercato. Alla ripresa, invece, con impianti moderni, la Falck aumentò la propria competitività, grazie a un sostanzioso abbassamento dei costi e la miglioria delle condizioni di lavoro. E questo grazie a un sindacato attento e propositivo.

L’approvazione dello Statuto dei lavoratori è stato sicuramente un grande beneficio, anche se nella nostra azienda non ha apportato particolari innovazioni e miglioramenti. Con l’85% di iscritti, l’azienda sapeva che doveva fare i conti con il sindacato, e la preparazione dei delegati e attivisti, la loro serietà, era una garanzia anche per la Falck.

 

Erano anni veramente incredibili, irripetibili. Il dibattito sindacale era molto acceso, sia in Fim che in Cisl. La Fim, soprattutto quella milanese, aveva posizioni di estrema sinistra, con l’arrivo alla segreteria di Tiboni, per il quale i metalmeccanici dovevano essere sempre in contrapposizione.

Lo scontro era sulle scelte politiche della Cisl…la Fim voleva andare “contro” gli organismi nazionali. In questo ambito, però, Sesto era un po’ una repubblica a sé stante: puntavamo più sulla mediazione, si ragionava sui problemi, e questo portò al commissariamento di Sesto, perché Tiboni non accettava opposizione. Poi, il commissario si è spostato sulle nostre posizioni...Comunque, la vita sindacale comportava direttivi che duravano tutto il giorno, anche di notte, con quasi cinquanta interventi. I confronti con la Cisl di Milano erano abbastanza buoni, mentre con i livelli superiori lo scontro era molto più aspro.

Ai Congressi del 1973 e del 1977, noi siamo stati schierati con Carniti. E personalmente, con Scalia il rischio di scissione io l’ho temuto.

Con Carniti, eravamo sicuri di vincere. Lo scontro prevedeva più spazio al territorio e alle aziende e non alla centralizzazione. “La contrattazione aziendale è il futuro”, deve avere un’importanza fondamentale. Il progetto di Carniti si è realizzato nelle grosse e medie aziende, soprattutto al Nord.

 

Il sindacato di quegli anni, tutto il sindacato, aveva un buon quadro dirigente. Sul piano sindacale si parlava con merito e conoscenza, la gente capiva e apprezzava. C’era preparazione, perché tutti uscivano dalle aziende, il lavoro lo avevano provato, poi si “provavano” sul terreno sindacale. Erano pochi i dirigenti che erano arrivati lì dall’università, ma anche a questi facevano fare apprendistato nella fabbrica.

La militanza era altissima. La maggioranza dell’attività si faceva fuori dall’orario di lavoro. Lavorando su sette turni, avevo due giorni di riposo in settimana, questo mi permetteva di incontrare molte persone, anche nel cambio turno.

Non c’era consumo di permessi sindacali. Io non mi sono mai staccato, perché non ritenevo giusto lasciare i miei compagni di turno con una persona di meno, nonostante quasi da subito sia entrato anche nel consiglio nazionale.

La crisi del sindacato, secondo me, è partita nell’84, con la ristrutturazione delle grandi fabbriche. E con le scelte della Cee, soprattutto quando ha deciso di tagliare l’eccesso di produzione. Su ristrutturazioni  e prepensionamenti, il sindacato ha cominciato a perdere quadri senza averne un ricambio. Le crisi dei settori ha colpito il rinnovamento del sindacato. Poi è subentrata la scelta di prendere gli operatori non dalle fabbriche, ma da altri settori: un conto è avere a che fare con chi conosce la realtà…da allora, il quadro sindacale non è più stato all’altezza della situazione.

Anche gli anni di piombo hanno comportato situazioni negative per il sindacato, che è rimasto imballato per qualche anno, è rimasto fermo…

L’azione della Cisl negli anni 70 è sempre stata di alto livello. Con Carniti abbiamo avuto un salto di qualità; anche la Cgil ci copiava…aveva capito che sul piano pratico eravamo più avanti di loro. La scuola era stata fatta sul merito, non su quello ideologico. Con l’arrivo di Marini c’è stato un po’ di sbandamento…aveva in mente un’idea di Cisl diversa da quella della Fim, che ha sempre fatto da stimolo all’interno della Cisl, sempre con proposte di merito.

 

Di quegli anni è rimasto poco o niente… oggi anche i vecchi quadri sarebbero molto in difficoltà. La competizione è altissima ma non nel merito, sul piano ideologico.

Allora venivano imbastiti grandi scontri, ma alla fine la mediazione la trovavi sempre. È finita un’epoca. Non ci sono più le condizioni politiche e economiche per pensare che torni una stagione così. Oggi con la crisi ci sarebbero le condizioni per l’unità sindacale sul merito, ma non ci sono le volontà politiche. I condizionamenti politici all’interno del sindacato non permettono più di ragionare come in quel periodo.

Ricordo con grande soddisfazione quando abbiamo portato a casa la riduzione d’orario e abbiamo avuto l’applauso di tutti i lavoratori delle fabbriche dove presentavamo l’accordo. Avevamo cambiato orari e normativa. Quando ti sentivi riconosciuto dai lavoratori, venivi ripagato per tutti gli sforzi che dovevi fare.

 

Gli anni di piombo mi hanno segnato: quando vedevo i giovani che diventavano terroristi, mi cascavano le braccia. Nel mio gruppo ce n’erano tre…non l’ho mai detto neanche a mia moglie. Lo ha scoperto da un libro che hanno scritto sulle vicende delle grandi fabbriche di Sesto. L’azienda mi aveva segnalato che era entrato qualcuno che poteva essere infiltrato. Nella mia attività sindacale non ho avuto problemi, perché stavo sempre sul chi va la… ma uno di questi era iscritto alla Fim, e personalmente ne sono rimasto profondamente amareggiato.

 

I miei maestri sono stati Luigi Belotti di Gandosso, operatore degli agricoli, e Luigi Brusati, di Monza, un uomo eccezionale. Mi chiedeva di essere semplice, onesto. L’onestà era il suo metro. Imparavi dall’esempio che dava con la sua vita. Si muoveva solo in bicicletta e non ha mai chiesto niente…

C’erano anche “esempi da non seguire”, come Tiboni: per un periodo ero convinto che avesse ragione. All’interno del sindacato ce n’erano…rischi di andare fuori strada.

Sono contento di non essere mai uscito dalla fabbrica. Ho sempre pensato che l’attività sindacale non andasse impoverita: se i quadri migliori escono cosa rimane in fabbrica? Sono contento di non averlo fatto, anche oggi, che sono pensionato Falck, non Fim. Non è stata una scelta facile, ma ne sono orgoglioso.


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