lunedì 25 maggio 2020

CARLO REGAZZI 1 - Falck Unione – Sesto San Giovanni (Mi)

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Dall’oratorio alla fabbrica. Il sindacato bianco nella Stalingrado d’Italia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007

Sono nato il 16 gennaio 1944 a Calusco d’Adda, in provincia di Bergamo. Dopo le elementari ho frequentato in paese la scuola di avviamento professionale industriale.
Ho iniziato a lavorare come apprendista nel 1958 alle Rubinetterie Frattini, a Milano, grazie a un mio amico che era dipendente di quell’azienda,  dove sono rimasto per un anno. Poi mi sono ammalato a causa degli oli che si utilizzavano e quando sono rientrato mi hanno licenziato. Sono passato in un’azienda di Cinisello Balsamo, dove sono stato 11 anni e dove si fabbricavano macchine per l’imbottigliamento. Quindi ho cambiato ancora e per due anni ho lavorato in un laboratorio artigiano. Infine, nel luglio 1972, sono stato assunto in acciaieria alla Falck, come manutentore. Ho sempre fatto il pendolare.

In Falck la domanda d’assunzione l’ha presentata un mio zio che ci lavorava da una vita. Ho fatto solo i primi quindici giorni dalle 8 alle 17, poi ho sempre lavorato per tre turni, su sette giorni. Questo fino al 31 maggio del ‘92 quando, in occasione della chiusura di una sezione dell’acciaieria, sono stato messo in cassa integrazione per 19 mesi fino al 31 dicembre 1993, giorno in cui sono andato in pensione.

Mi sono iscritto per la prima volta al sindacato, alla Flm, mentre lavoravo nell’impresa artigiana, ma da esterno, senza che il mio padrone lo sapesse. Era una scelta convinta, perché ero impegnato socialmente in paese. Venivo dall’esperienza delle Acli e dal ‘69 al ‘72 ho fatto parte del direttivo provinciale di Bergamo. In Falck, due mesi dopo il mio ingresso in fabbrica, c’era in discussione l’accordo aziendale. Io sono intervenuto in assemblea e subito sono stato avvicinato da Luigi Belotti, che conosceva la mia esperienza di aclista, e mi ha chiesto se ero disponibile a fare l’attivista per la Fim. Durante i giorni di riposo venni invitato a partecipare ad alcune riunioni nella sede Cisl di via Fiorani. Due anni dopo, alla prima tornata di elezioni, sono stato eletto delegato. Era il 1974, da allora sono stato rieletto fino all’uscita. Lo sono stato per 18 anni, facendo parte di tutti gli organismi sindacali. Tre anni dopo l’elezione, nel 1977, sono entrato nel direttivo provinciale Fim di Milano e anche lì ci sono rimato fino alla fine. Per otto anni ho fatto parte anche del direttivo nazionale della Fim. Nel gruppo Falck, dal 1977 ho fatto parte del coordinamento e, tre anni dopo, dell’esecutivo nazionale. Ero una dei cinque che andava da Bolzano a Napoli a discutere quando c’erano vertenze o problemi che coinvolgevano i vari stabilimenti. Dal 1985, con l’uscita di Giuseppe Benaglia, sono diventato responsabile per la Fim del gruppo Falck. Non mi sono mai staccato dal reparto, perché avrebbe voluto dire mettere in difficoltà i miei compagni di lavoro non essendoci un mio sostituto. Lasciavo il reparto solo nei giorni in cui avevo degli impegni, ma ho sempre continuato a fare il mio lavoro.
L’attività sindacale l’ho svolta soprattutto fuori dall’orario di lavoro, perché lavorando a ciclo continuo avevo dei giorni liberi durante la settimana e quindi potevo partecipare alle riunioni senza bisogno di usare permessi sindacali. Oppure lavoravo di notte e poi andavo alle riunioni di giorno. Molte volte non tornavo neppure a casa, mi fermavo a dormire al “Palazzone”, come chiamavamo l’albergo Falck, oppure, quando facevo il secondo turno, venivo a Sesto il mattino per partecipare alla riunione e poi andavo a lavorare alle 14. O viceversa.

La prima vertenza importante che mi ha visto protagonista insieme agli altri è stata la conquista dell’inquadramento unico nel 1974. La Fiom non ci ha mai creduto, per cui la gestione in azienda è toccata tutta a noi della Fim. In acciaieria c’erano una miriade di paghe di posto, trasformarle in tre livelli non era facile. E’ stato un lavoro massacrante, durato mesi.
Nel 1975 c’è stato un primo cambio negli orari di lavoro. Io ero appena diventato delegato. Al quel tempo nel mio reparto si lavorava 39 sabati e 39 domeniche all’anno, per 42 ore settimanali. Il contratto nazionale le aveva ridotte a 40. In fase di applicazione c’è stato uno scontro tra noi e la Fiom. Qualcuno, addirittura, lo interpretava come una riduzione del salario. Invece si guadagnava in qualità della vita. Infatti, la nostra azione ha portato a lavorare solo per 26 domeniche. E si è compensato il salario inferiore attraverso un premio di risultato - in questo siamo stati dei precursori - che avevamo chiamato premio di turnazione. Questo andava bene anche all’azienda, perché aveva bisogno di fare una manutenzione settimanale per mantenere alta la produttività. Alla fine la gente ha capito, in particolare i giovani, ai quali 13 domeniche libere piacevano.  
Nel 1977 c’è stato un altro scontro con la Fiom sulla riduzione dell’orario di lavoro. Noi eravamo favorevoli, la Fiom spingeva sul salario siderurgico, che voleva dire monetizzare il disagio, mentre noi volevamo ridurre l’orario per ridurre il disagio, spiegando che andava pagato con meno presenza. Alla fine, quando la Fim ha prevalso, in acciaieria è caduta la testa del leader della Fiom, che se n’è andato perché non è stato sostenuto dai suoi.
Dal 1977 al ‘79 noi abbiamo caratterizzato l’azione sindacale sull’orario di lavoro
Nel 1982 sono iniziate le grandi ristrutturazioni della siderurgia europea. L’azienda ha deciso di cessare alcune produzioni, riducendo i campi in cui era presente. Per noi ci fu la scelta: ci opponiamo al cambiamento o lo governiamo? E’ stata una discussione difficile che ci ha visti impegnati per mesi. Poi c’è stata una riunione dell’esecutivo del coordinamento nazionale in cui Giorgio Falck, appena diventato vicepresidente insieme ad Alberto, si presentò con un televisore e un video e ci fece vedere come era finita la siderurgia inglese. Il titolo era “Sopravvissuti e vinti”, e ci spiegava che chi voleva resistere con certi modi di lavorare e certe tecnologie alla fine era vinto. Invece, se si innovava, si sarebbe ristretto il campo d’azione ma saremmo sopravvissuti. E ci ha fatto capire che l’azienda era intenzionata ad andare avanti, non ad abbandonare, ma cambiando. Dopo grandi discussioni con una parte della Fiom, abbiamo preso in mano la situazione e abbiamo cominciato ad affrontare le ristrutturazioni. Quella più pesante è stata nel 1985, con 2.100 esuberi su 10.500 addetti. Ne abbiamo discusso posto di lavoro per posto di lavoro. Siamo stati chiusi in Assolombarda per un mese, giorno e notte, alla fine abbiamo concordato ogni cosa. Nel 1982 avevano già chiuso alcuni reparti: all’Unione e al Concordia, ma in quei casi gli esuberi non erano molti. Nell’85 c’è stata la ristrutturazione vera, con la prima forte riduzione del personale. Poi, nel ’90, hanno deciso: via Dongo, Arcore, Napoli, Castellamare e hanno tenuto solo il core business fino al ’96, quando hanno chiuso definitivamente. Approfittando dei finanziamenti della Cee e della possibilità di fare soldi con le aree di Sesto, concentrandosi sulla produzione di energia e sui rifiuti.

In acciaieria l’80% dei lavoratori erano bergamaschi e questo mi aiutava molto. La maggioranza veniva dalla Val Brembana e c’erano dei pullman che facevano la linea Olmo Al Brembo-Sesto San Giovanni. Prima dell’82 dormivano a Sesto e andavano a casa una volta alla settimana. C’erano poi quelli che arrivavano dalla Val di Scalve dopo la chiusura delle miniere. Una parte era andata ad Arcore e una parte a Sesto. I problemi sorgevano con i delegati Fiom più politicizzati, perché molti lavoratori iscritti alla Cgil facevano più riferimento a me che a loro. Io ragionavo intorno ai problemi del reparto, loro li affrontavano in termini ideologici, si impuntavano sulle questioni di principio e i lavoratori non li capivano. Gli operai Falck, specialmente quelli che erano in produzione in acciaieria e al laminatoio, erano più sensibili ai problemi aziendali che a quelli generali. Gli scioperi li facevano tutti, ma la grossa partecipazione avveniva sulle piattaforme aziendali e non in occasione delle proteste nazionali.
Non ho mai avuto scontri personali aspri, perché ero visto come un uomo di mediazione tra la Fim e la Fiom e anche perché, lavorando  a ciclo continuo, sapevano che ero in grado di bloccare il flusso produttivo quando loro non c’erano.
C’era una consuetudine forte in azienda, nata prima che entrassi io: quando si dichiarava uno sciopero, a cascata quello sciopero veniva automaticamente ripetuto anche dalle squadre successive, senza bisogno di nessun intervento particolare. Così, quando per dimostrare la sua forza la Fiom decise di proporsi come interlocutore privilegiato con l’azienda, noi, in un paio di casi, prendendo a pretesto un piccolo problema, decidemmo di attuare questa forma di sciopero il sabato e la domenica. In questo modo dimostravamo di avere il controllo della situazione, costringendoli a concordare le iniziative con noi.
Va però sottolineato che, sulle questioni generali e sui contrasti che si verificavano tra organizzazioni, si discuteva all’interno del consiglio di fabbrica, ma non nel reparto.

In acciaieria era attiva una cellula del Pci, ma la cellula più dura era nel reparto manutenzione, tra i normalisti, l’aristocrazia operaia.  La presenza del partito era diffusa. Nel mio reparto ne facevano parte persone con cui si poteva dialogare, però quando il partito dava un ordine allora volantinavano per spiegare le loro posizioni e andavano avanti per la loro strada. In occasione della riorganizzazione del reparto dove lavoravo ci fu addirittura uno che venne a dirmi che non era d’accordo con l’impostazione del partito, ma che doveva sostenerla. Di solito il Pci faceva sentire la sua voce sulle questioni più generali, nelle occasioni in cui si definiva la linea sindacale e il partito voleva dare la propria impronta,  ma quella volta sono intervenuti su una questione di merito, strettamente aziendale.
Il Pci, soprattutto nell’ultima fase, quando ha capito che la Falck stava chiudendo, si è fatto più attento, perché interessato come amministrazione al futuro delle aree. Cercavano dei pretesti per entrare in campo. Così, nel ’90, quando ci furono i primi segnali di abbandono dell’acciaio, per una riduzione di personale che vedeva coinvolte sei persone si fecero 90 ore di sciopero, in 20 giorni, sostenendo uno scontro violento con la direzione. L’azienda in quei giorni ha perso 7 miliardi di lire. C’era un’intesa già concordata, ma dall’esterno arrivò il segnale che bisognava dar battaglia e si inasprì lo scontro. La direzione la fece pagare pesantemente alla Fiom. Quattro mesi dopo furono mandati in prepensionamento tutti i loro delegati tranne uno. Il Comune è diventato interlocutore, ma il quadro interno della Fiom è stato fatto fuori completamente. Anche per questo, la fase finale nel ‘95 e ‘96 è stata gestita dalla Fim.

Un momento particolare l’abbiamo vissuto con il referendum dell’85, in cui una parte della Cgil si era schierata a favore. Nell’84, con la fine della Flm, noi abbiamo pagato un prezzo iniziale perché molti dei nostri, la vecchia guardia, erano andati in pensione, e avevamo dei reparti scoperti. In quei casi il primo che passava faceva le deleghe. La Fiom aveva mantenuto la doppia tessera Flm e Fiom, mentre noi avevamo sciolto tutto. Abbiamo recuperato dopo. Col tempo siamo arrivati fino al 43%, il risultato migliore di tutti gli stabilimenti Falck, con la Fiom al 51%. Al Concordia la Fiom aveva quasi l’80%. Noi avevamo la maggioranza tra gli impiegati della direzione generale.
Al nostro interno c’è stato un po’ di subbuglio quando Tiboni tentò di prendere in mano la zona di Sesto mandandoci Francesco Peluselli, ma poi Peluselli si convertì alla nostra causa. Eravamo visti come una Fim a se stante, facevamo più riferimento al regionale e al nazionale che non alla Fim di Milano.
Nella Fim c’è sempre stata una forte presenza extraparlamentare e io avevo una predilezione per questa parte, anche se non ho mai avuto una tessera di partito in tasca. Ma per noi prima veniva la Fim, poi c’erano le simpatie politiche, e le appartenenze non hanno mai influito sulle scelte sindacali. Viceversa, per la Fiom, prima veniva la politica, il Pci, e poi il sindacato.

Un brutto capitolo inizia nel 1977 con Autonomia operaia, che era molto ramificata al Vittoria, ma aveva un gruppo anche da noi e si connotava per il fatto di non lavorare. La maggioranza era composta da operai, concentrati in manutenzione, sia all’Unione che al Vittoria. Entravano al mattino, leggevano i giornali e poi li commentavano. Il pomeriggio lo stesso e quindi andavano a casa. Intervenivano in tutte le assemblee contro il sindacato. Quell’anno c’è stato un primo segnale che stava cambiando qualcosa con il lancio dello slogan “né con le Br né con lo Stato” e qualche campanello d’allarme al nostro interno ha cominciato a suonare. “Questi da che parte stanno?”. Nel 1979 ci fu il licenziamento in tronco di 25 operai del Vittoria, ma furono tutti riassunti per un vizio di forma. Quindici giorni dopo furono nuovamente licenziati - era l’80 - con una buona uscita di 25 milioni a testa, ma dopo pochi giorni la maggioranza di questi era in galera perché implicati in azioni di appoggio alle Br.
Il 28 novembre dell’80 hanno ammazzato il direttore generale dell’Unione, Manfredo Mazzanti. Due giorni dopo abbiamo trovato la risoluzione strategica delle Br all’interno del consiglio di fabbrica. L’avevano fatta passare sotto la porta. In quella risoluzione prefiguravano già l’uscita della Falck dall’acciaio e delineavano il piano industriale dell’azienda. Si capì che erano all’interno e conoscevano delle cose che noi non sapevamo. Così abbiamo iniziato a dirci che dovevamo stare attenti.
A quel punto anche coloro che sostenevano che “erano compagni che sbagliavano” hanno cominciato a rivedere le loro posizioni. Un anno dopo, nell’81, fui chiamato in direzione generale dal capo del personale che mi disse che dalla Digos avevano avuto informazioni che c’erano uno o due elementi di spicco delle Br nel mio reparto, e uno nella mia squadra.
Io e Gigi Trezzi avevamo rapporti con la Digos, mentre la Fiom si era rifiutata di mantenere i contatti con loro. Dopo l’80 i poliziotti venivano frequentemente a chiedere alle nostre guardie e a noi se avevamo notato dei segnali, dei movimenti strani, per capire cosa stava succedendo all’interno dell’azienda.
Già nel ’79 avevo intuito che c’era qualcosa che non andava, ma non ero cosciente della situazione. Un anno e mezzo dopo ho saputo. La Digos mi consigliò di cambiare sempre orari e itinerari, specialmente quando uscivo di sera, e andare accompagnato, sia a Sesto che a casa. Io facevo a piedi dall’Unione alla stazione e dalla stazione a casa e ho cominciato a cambiare percorso ogni volta. Non ho mai detto niente a nessuno, men che meno alla mia famiglia perché mi ero appena sposato e avevo un figlio piccolo.
Il primo arresto avvenne nel 1982. Fu un fatto clamoroso, a conclusione di un incontro dei 350 delegati del gruppo con Pierre Carniti. All’uscita della riunione la Digos ha arrestato un delegato della Fiom del Concordia. Era venuto con me tante volte ai coordinamenti nazionali, senza mai intervenire. Durante le riunioni ne approfittava per andare negli uffici dei dirigenti in corso Trieste e portare via i documenti che trovava. Una volta mi ha accompagnato a casa in auto e mia moglie mi ha detto: “E’ simpatico questo ragazzo”. Il nostro operatore, Vito De Vecchi, al momento dell’arresto disse ai poliziotti: “Ma siete matti?”. Era il magazziniere delle armi di tutta la Walter Alasia, era diplomato ma faceva il manovale in acciaieria.
Il secondo arrestato è stato quello della mia squadra. Era l’armiere, colui che preparava le armi della Walter Alasia ed era nipote della Pasqua Aurora Betti, uno dei leader della colonna milanese. Arrivavano tutti e due da Frosinone. Lui aveva fatto il militare nei lagunari di Venezia e aveva imparato a maneggiare le armi. Proprio in quei giorni la Fiom volevano candidarlo come delegato. Io non volevo perché la Digos mi aveva già avvisato della presenza di un terrorista in squadra e avevo intuito che poteva essere lui. Ci fu uno scontro all’interno della squadra, in particolare con il capo della Fiom e il capo della cellula del Pci: “Se candidate lui – dissi, senza poter spiegare - io non mi candido”. Era intelligente, preparato. Quando si parlava di problemi aziendali o altro interveniva, ma quando si discuteva di terrorismo stava zitto o se ne andava. E le due o tre volte che è mancato dal lavoro ci sono stati degli attentati. Lui diceva sempre che andava a trovare i suoi a Frosinone.
Il terzo arresto mi ha sorpreso. Era un operaio della manutenzione che conoscevo bene, iscritto Fim. Era addetto al rapporto con coloro che erano espatriati in Francia. Quattro mesi dopo il fermo è fuggito all’estero.
Erano tutti della Walter Alasia e tutti avevano rapporti con me. Ma la mente, quello che aveva scritto la risoluzione strategica, non è nessuno di quei tre.

Il nostro rapporto con il mondo cattolico sestese era buono. Su richiesta nostra sono venuti parecchi preti a parlare in fabbrica, anche padre Turoldo, e più tardi don Raffaello Ciccone della pastorale del lavoro.
Personalmente, lavorando a turni, non ho avuto molti contatti. Questi erano delegati essenzialmente ai distaccati. Io avevo già il disagio che molti turni di riposo li occupavo per fare attività sindacale nello stabilimento.
Nel momento dell’ingresso di Alberto Falck, e iniziavano le prime ristrutturazioni, ho avuto la sensazione di un tentativo di influenzare la Fim o richiamarla a più miti consigli. Qualche abboccamento c’è stato, ma quando hanno capito che noi non volevamo fare guerre di bandiera, ma eravamo disponibili a fare un discorso serio per governare il cambiamento, la Chiesa è stata vicina a noi.
L’ala “riformista” della  Fiom considerò l’incontro con il Papa un evento importante a cui dare risalto e essere presenti. Non c’è stato bisogno di spingere la gente, perché erano convinti di partecipare. Nel mio reparto, zeppo di bergamaschi, cattolici, erano tutti ben consci dell’importanza dell’evento, non c’era bisogno di dirglielo. Gli altri sono venuti perché spinti a fare la presenza o per vedere, capire, curiosare.
Il Papa a Sesto era un segnale molto positivo per noi, che la gente ha vissuto profondamente. Era una persona che parlava anche dei nostri problemi, non solo delle grandi questioni mondiali. Bisognava marcare la presenza operaia e si andò in massa.

Un’esperienza molto significativa per me è stata quella del mio rapporto diretto con Giorgio Falck. L’ho conosciuto dopo quattro mesi che ero entrato in azienda, mentre lui stava terminando il suo tirocinio, perché tutti in famiglia, prima di assumere un posto di responsabilità, facevano due anni di esperienza nei diversi settori. Era il 1972. Lavorava su turni, per capire com’erano i processi produttivi. Veniva a bere il caffè con la grappa insieme a noi. Era giovane, appena sposato e non aveva mai soldi in tasca. Dopo varie vicende personali è rientrato in azienda nel 1982, quando ci ha presentato il film ricordato, e ha ripreso a venire in reparto. Quando capivo che con i dirigenti non risolvevo i problemi, io li scavalcavo e andavo a parlare direttamente con lui. Durante la pausa di mezzogiorno andava a giocare a biliardo, mangiava in mensa. Quando voleva qualcosa, o c’erano nuove produzioni, nuovi macchinari, veniva in reparto, magari alle 9, 10 di sera o il sabato pomeriggio, fingeva di guardare gli impianti ma l’obiettivo era fare una chiacchierata, capire cosa stavamo facendo come sindacato. In quelle occasioni c’era tra noi uno scambio di vedute. Un giorno ci fu un incidente grave, con un morto e cinque feriti e la Fiom prese di mira Giorgio Falck. Lo accusò di andare in giro per il mondo, spendere un sacco di soldi e fregarsene della salute dei lavoratori. Subito dopo l’incidente ebbe uno scontro con il responsabile della Fiom. Eravamo noi tre in mezzo al reparto, e lui rispose che quando andava in barca si muoveva grazie agli sponsor e questo non interferiva in alcun modo con la sua attività di imprenditore, che lui teneva molto alla salute dei lavoratori e la sua prima preoccupazione al mattino era di assicurarsi di poter pagare il salario a tutti i dipendenti.
Era un uomo con una sua sensibilità che io colsi in quell’occasione. Non era solo una persona cui piaceva la bella vita. Con la morte del figlio, nell’agosto del ’93, decise di lasciare il gruppo.
Sentirmi interlocutore privilegiato dell’azienda mi ha caricato di molte responsabilità. Dall’85 al ’94 sono stato un punto di riferimento. Quando c’era qualcosa che non andava, attraverso Giorgio Falck avevo le informazioni che mi permettevano di vedere più avanti. Sapendo dove voleva arrivare l’azienda, potevo costruire le mediazioni e proporre le iniziative necessarie. Questo spiazzava la Fiom. In risposta al mio contatto con Falck, la Fiom ha lavorato molto sui dirigenti, che si sentivano scavalcati, per isolarmi.
I miei rapporti, però, non mi hanno mai fatto cambiare idea. Ci sono stati ripetuti tentativi per farmi fare il capo reparto, mi chiedevano che cosa stavo a fare con il sindacato. Ho sempre risposto di no: io ho sposato una parte, lei ne ha sposata un’altra. La mia forza, e la forza della Fim, però, non è stato il rapporto con Falck ma il legame di fiducia con i lavoratori. Non ideologico, ma che partiva dai problemi.