Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Dall’oratorio alla fabbrica. Il sindacato bianco nella Stalingrado d’Italia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007
Sono nato il 16
gennaio 1944 a Calusco d’Adda, in provincia di Bergamo. Dopo le elementari ho
frequentato in paese la scuola di avviamento professionale industriale.
Ho iniziato a
lavorare come apprendista nel 1958 alle Rubinetterie Frattini, a Milano, grazie
a un mio amico che era dipendente di quell’azienda, dove sono rimasto per un anno. Poi mi sono
ammalato a causa degli oli che si utilizzavano e quando sono rientrato mi hanno
licenziato. Sono passato in un’azienda di Cinisello Balsamo, dove sono stato 11
anni e dove si fabbricavano macchine per l’imbottigliamento. Quindi ho cambiato
ancora e per due anni ho lavorato in un laboratorio artigiano. Infine, nel
luglio 1972, sono stato assunto in acciaieria alla Falck, come manutentore. Ho
sempre fatto il pendolare.
In Falck la
domanda d’assunzione l’ha presentata un mio zio che ci lavorava da una vita. Ho
fatto solo i primi quindici giorni dalle 8 alle 17, poi ho sempre lavorato per
tre turni, su sette giorni. Questo fino al 31 maggio del ‘92 quando, in
occasione della chiusura di una sezione dell’acciaieria, sono stato messo in
cassa integrazione per 19 mesi fino al 31 dicembre 1993, giorno in cui sono
andato in pensione.
Mi sono iscritto
per la prima volta al sindacato, alla Flm, mentre lavoravo nell’impresa
artigiana, ma da esterno, senza che il mio padrone lo sapesse. Era una scelta
convinta, perché ero impegnato socialmente in paese. Venivo dall’esperienza
delle Acli e dal ‘69 al ‘72 ho fatto parte del direttivo provinciale di
Bergamo. In Falck, due mesi dopo il mio ingresso in fabbrica, c’era in
discussione l’accordo aziendale. Io sono intervenuto in assemblea e subito sono
stato avvicinato da Luigi Belotti, che conosceva la mia esperienza di aclista,
e mi ha chiesto se ero disponibile a fare l’attivista per la Fim. Durante i
giorni di riposo venni invitato a partecipare ad alcune riunioni nella sede
Cisl di via Fiorani. Due anni dopo, alla prima tornata di elezioni, sono stato
eletto delegato. Era il 1974, da allora sono stato rieletto fino all’uscita. Lo
sono stato per 18 anni, facendo parte di tutti gli organismi sindacali. Tre
anni dopo l’elezione, nel 1977, sono entrato nel direttivo provinciale Fim di
Milano e anche lì ci sono rimato fino alla fine. Per otto anni ho fatto parte
anche del direttivo nazionale della Fim. Nel gruppo Falck, dal 1977 ho fatto
parte del coordinamento e, tre anni dopo, dell’esecutivo nazionale. Ero una dei
cinque che andava da Bolzano a Napoli a discutere quando c’erano vertenze o
problemi che coinvolgevano i vari stabilimenti. Dal 1985, con l’uscita di
Giuseppe Benaglia, sono diventato responsabile per la Fim del gruppo Falck. Non
mi sono mai staccato dal reparto, perché avrebbe voluto dire mettere in
difficoltà i miei compagni di lavoro non essendoci un mio sostituto. Lasciavo
il reparto solo nei giorni in cui avevo degli impegni, ma ho sempre continuato
a fare il mio lavoro.
L’attività
sindacale l’ho svolta soprattutto fuori dall’orario di lavoro, perché lavorando
a ciclo continuo avevo dei giorni liberi durante la settimana e quindi potevo
partecipare alle riunioni senza bisogno di usare permessi sindacali. Oppure
lavoravo di notte e poi andavo alle riunioni di giorno. Molte volte non tornavo
neppure a casa, mi fermavo a dormire al “Palazzone”, come chiamavamo l’albergo
Falck, oppure, quando facevo il secondo turno, venivo a Sesto il mattino per
partecipare alla riunione e poi andavo a lavorare alle 14. O viceversa.
La prima
vertenza importante che mi ha visto protagonista insieme agli altri è stata la
conquista dell’inquadramento unico nel 1974. La Fiom non ci ha mai creduto, per
cui la gestione in azienda è toccata tutta a noi della Fim. In acciaieria
c’erano una miriade di paghe di posto, trasformarle in tre livelli non era
facile. E’ stato un lavoro massacrante, durato mesi.
Nel 1975 c’è
stato un primo cambio negli orari di lavoro. Io ero appena diventato delegato.
Al quel tempo nel mio reparto si lavorava 39 sabati e 39 domeniche all’anno,
per 42 ore settimanali. Il contratto nazionale le aveva ridotte a 40. In fase
di applicazione c’è stato uno scontro tra noi e la Fiom. Qualcuno, addirittura,
lo interpretava come una riduzione del salario. Invece si guadagnava in qualità
della vita. Infatti, la nostra azione ha portato a lavorare solo per 26
domeniche. E si è compensato il salario inferiore attraverso un premio di
risultato - in questo siamo stati dei precursori - che avevamo chiamato premio
di turnazione. Questo andava bene anche all’azienda, perché aveva bisogno di
fare una manutenzione settimanale per mantenere alta la produttività. Alla fine
la gente ha capito, in particolare i giovani, ai quali 13 domeniche libere
piacevano.
Nel 1977 c’è
stato un altro scontro con la Fiom sulla riduzione dell’orario di lavoro. Noi
eravamo favorevoli, la Fiom spingeva sul salario siderurgico, che voleva dire
monetizzare il disagio, mentre noi volevamo ridurre l’orario per ridurre il
disagio, spiegando che andava pagato con meno presenza. Alla fine, quando la
Fim ha prevalso, in acciaieria è caduta la testa del leader della Fiom, che se
n’è andato perché non è stato sostenuto dai suoi.
Dal 1977 al ‘79
noi abbiamo caratterizzato l’azione sindacale sull’orario di lavoro
Nel 1982 sono
iniziate le grandi ristrutturazioni della siderurgia europea. L’azienda ha
deciso di cessare alcune produzioni, riducendo i campi in cui era presente. Per
noi ci fu la scelta: ci opponiamo al cambiamento o lo governiamo? E’ stata una
discussione difficile che ci ha visti impegnati per mesi. Poi c’è stata una
riunione dell’esecutivo del coordinamento nazionale in cui Giorgio Falck,
appena diventato vicepresidente insieme ad Alberto, si presentò con un
televisore e un video e ci fece vedere come era finita la siderurgia inglese.
Il titolo era “Sopravvissuti e vinti”, e ci spiegava che chi voleva resistere
con certi modi di lavorare e certe tecnologie alla fine era vinto. Invece, se
si innovava, si sarebbe ristretto il campo d’azione ma saremmo sopravvissuti. E
ci ha fatto capire che l’azienda era intenzionata ad andare avanti, non ad
abbandonare, ma cambiando. Dopo grandi discussioni con una parte della Fiom,
abbiamo preso in mano la situazione e abbiamo cominciato ad affrontare le
ristrutturazioni. Quella più pesante è stata nel 1985, con 2.100 esuberi su
10.500 addetti. Ne abbiamo discusso posto di lavoro per posto di lavoro. Siamo
stati chiusi in Assolombarda per un mese, giorno e notte, alla fine abbiamo
concordato ogni cosa. Nel 1982 avevano già chiuso alcuni reparti: all’Unione e
al Concordia, ma in quei casi gli esuberi non erano molti. Nell’85 c’è stata la
ristrutturazione vera, con la prima forte riduzione del personale. Poi, nel
’90, hanno deciso: via Dongo, Arcore, Napoli, Castellamare e hanno tenuto solo
il core business fino al ’96, quando hanno chiuso definitivamente.
Approfittando dei finanziamenti della Cee e della possibilità di fare soldi con
le aree di Sesto, concentrandosi sulla produzione di energia e sui rifiuti.
In acciaieria
l’80% dei lavoratori erano bergamaschi e questo mi aiutava molto. La
maggioranza veniva dalla Val Brembana e c’erano dei pullman che facevano la
linea Olmo Al Brembo-Sesto San Giovanni. Prima dell’82 dormivano a Sesto e
andavano a casa una volta alla settimana. C’erano poi quelli che arrivavano
dalla Val di Scalve dopo la chiusura delle miniere. Una parte era andata ad
Arcore e una parte a Sesto. I problemi sorgevano con i delegati Fiom più
politicizzati, perché molti lavoratori iscritti alla Cgil facevano più
riferimento a me che a loro. Io ragionavo intorno ai problemi del reparto, loro
li affrontavano in termini ideologici, si impuntavano sulle questioni di
principio e i lavoratori non li capivano. Gli operai Falck, specialmente quelli
che erano in produzione in acciaieria e al laminatoio, erano più sensibili ai
problemi aziendali che a quelli generali. Gli scioperi li facevano tutti, ma la
grossa partecipazione avveniva sulle piattaforme aziendali e non in occasione
delle proteste nazionali.
Non ho mai avuto
scontri personali aspri, perché ero visto come un uomo di mediazione tra la Fim
e la Fiom e anche perché, lavorando a
ciclo continuo, sapevano che ero in grado di bloccare il flusso produttivo
quando loro non c’erano.
C’era una
consuetudine forte in azienda, nata prima che entrassi io: quando si dichiarava
uno sciopero, a cascata quello sciopero veniva automaticamente ripetuto anche
dalle squadre successive, senza bisogno di nessun intervento particolare. Così,
quando per dimostrare la sua forza la Fiom decise di proporsi come
interlocutore privilegiato con l’azienda, noi, in un paio di casi, prendendo a
pretesto un piccolo problema, decidemmo di attuare questa forma di sciopero il
sabato e la domenica. In questo modo dimostravamo di avere il controllo della
situazione, costringendoli a concordare le iniziative con noi.
Va però
sottolineato che, sulle questioni generali e sui contrasti che si verificavano
tra organizzazioni, si discuteva all’interno del consiglio di fabbrica, ma non
nel reparto.
In acciaieria
era attiva una cellula del Pci, ma la cellula più dura era nel reparto
manutenzione, tra i normalisti, l’aristocrazia operaia. La presenza del partito era diffusa. Nel mio
reparto ne facevano parte persone con cui si poteva dialogare, però quando il
partito dava un ordine allora volantinavano per spiegare le loro posizioni e
andavano avanti per la loro strada. In occasione della riorganizzazione del
reparto dove lavoravo ci fu addirittura uno che venne a dirmi che non era
d’accordo con l’impostazione del partito, ma che doveva sostenerla. Di solito
il Pci faceva sentire la sua voce sulle questioni più generali, nelle occasioni
in cui si definiva la linea sindacale e il partito voleva dare la propria
impronta, ma quella volta sono
intervenuti su una questione di merito, strettamente aziendale.
Il Pci,
soprattutto nell’ultima fase, quando ha capito che la Falck stava chiudendo, si
è fatto più attento, perché interessato come amministrazione al futuro delle
aree. Cercavano dei pretesti per entrare in campo. Così, nel ’90, quando ci
furono i primi segnali di abbandono dell’acciaio, per una riduzione di
personale che vedeva coinvolte sei persone si fecero 90 ore di sciopero, in 20
giorni, sostenendo uno scontro violento con la direzione. L’azienda in quei
giorni ha perso 7 miliardi di lire. C’era un’intesa già concordata, ma
dall’esterno arrivò il segnale che bisognava dar battaglia e si inasprì lo
scontro. La direzione la fece pagare pesantemente alla Fiom. Quattro mesi dopo
furono mandati in prepensionamento tutti i loro delegati tranne uno. Il Comune
è diventato interlocutore, ma il quadro interno della Fiom è stato fatto fuori
completamente. Anche per questo, la fase finale nel ‘95 e ‘96 è stata gestita
dalla Fim.
Un momento
particolare l’abbiamo vissuto con il referendum dell’85, in cui una parte della
Cgil si era schierata a favore. Nell’84, con la fine della Flm, noi abbiamo
pagato un prezzo iniziale perché molti dei nostri, la vecchia guardia, erano
andati in pensione, e avevamo dei reparti scoperti. In quei casi il primo che
passava faceva le deleghe. La Fiom aveva mantenuto la doppia tessera Flm e
Fiom, mentre noi avevamo sciolto tutto. Abbiamo recuperato dopo. Col tempo
siamo arrivati fino al 43%, il risultato migliore di tutti gli stabilimenti
Falck, con la Fiom al 51%. Al Concordia la Fiom aveva quasi l’80%. Noi avevamo
la maggioranza tra gli impiegati della direzione generale.
Al nostro
interno c’è stato un po’ di subbuglio quando Tiboni tentò di prendere in mano
la zona di Sesto mandandoci Francesco Peluselli, ma poi Peluselli si convertì
alla nostra causa. Eravamo visti come una Fim a se stante, facevamo più
riferimento al regionale e al nazionale che non alla Fim di Milano.
Nella Fim c’è
sempre stata una forte presenza extraparlamentare e io avevo una predilezione
per questa parte, anche se non ho mai avuto una tessera di partito in tasca. Ma
per noi prima veniva la Fim, poi c’erano le simpatie politiche, e le
appartenenze non hanno mai influito sulle scelte sindacali. Viceversa, per la
Fiom, prima veniva la politica, il Pci, e poi il sindacato.
Un brutto
capitolo inizia nel 1977 con Autonomia operaia, che era molto ramificata al
Vittoria, ma aveva un gruppo anche da noi e si connotava per il fatto di non
lavorare. La maggioranza era composta da operai, concentrati in manutenzione,
sia all’Unione che al Vittoria. Entravano al mattino, leggevano i giornali e
poi li commentavano. Il pomeriggio lo stesso e quindi andavano a casa.
Intervenivano in tutte le assemblee contro il sindacato. Quell’anno c’è stato
un primo segnale che stava cambiando qualcosa con il lancio dello slogan “né
con le Br né con lo Stato” e qualche campanello d’allarme al nostro interno ha
cominciato a suonare. “Questi da che parte stanno?”. Nel 1979 ci fu il
licenziamento in tronco di 25 operai del Vittoria, ma furono tutti riassunti
per un vizio di forma. Quindici giorni dopo furono nuovamente licenziati - era
l’80 - con una buona uscita di 25 milioni a testa, ma dopo pochi giorni la
maggioranza di questi era in galera perché implicati in azioni di appoggio alle
Br.
Il 28 novembre
dell’80 hanno ammazzato il direttore generale dell’Unione, Manfredo Mazzanti.
Due giorni dopo abbiamo trovato la risoluzione strategica delle Br all’interno
del consiglio di fabbrica. L’avevano fatta passare sotto la porta. In quella
risoluzione prefiguravano già l’uscita della Falck dall’acciaio e delineavano
il piano industriale dell’azienda. Si capì che erano all’interno e conoscevano
delle cose che noi non sapevamo. Così abbiamo iniziato a dirci che dovevamo
stare attenti.
A quel punto
anche coloro che sostenevano che “erano compagni che sbagliavano” hanno
cominciato a rivedere le loro posizioni. Un anno dopo, nell’81, fui chiamato in
direzione generale dal capo del personale che mi disse che dalla Digos avevano
avuto informazioni che c’erano uno o due elementi di spicco delle Br nel mio
reparto, e uno nella mia squadra.
Io e Gigi Trezzi
avevamo rapporti con la Digos, mentre la Fiom si era rifiutata di mantenere i
contatti con loro. Dopo l’80 i poliziotti venivano frequentemente a chiedere
alle nostre guardie e a noi se avevamo notato dei segnali, dei movimenti
strani, per capire cosa stava succedendo all’interno dell’azienda.
Già nel ’79
avevo intuito che c’era qualcosa che non andava, ma non ero cosciente della
situazione. Un anno e mezzo dopo ho saputo. La Digos mi consigliò di cambiare
sempre orari e itinerari, specialmente quando uscivo di sera, e andare
accompagnato, sia a Sesto che a casa. Io facevo a piedi dall’Unione alla
stazione e dalla stazione a casa e ho cominciato a cambiare percorso ogni
volta. Non ho mai detto niente a nessuno, men che meno alla mia famiglia perché
mi ero appena sposato e avevo un figlio piccolo.
Il primo arresto
avvenne nel 1982. Fu un fatto clamoroso, a conclusione di un incontro dei 350
delegati del gruppo con Pierre Carniti. All’uscita della riunione la Digos ha
arrestato un delegato della Fiom del Concordia. Era venuto con me tante volte
ai coordinamenti nazionali, senza mai intervenire. Durante le riunioni ne
approfittava per andare negli uffici dei dirigenti in corso Trieste e portare
via i documenti che trovava. Una volta mi ha accompagnato a casa in auto e mia
moglie mi ha detto: “E’ simpatico questo ragazzo”. Il nostro operatore, Vito De
Vecchi, al momento dell’arresto disse ai poliziotti: “Ma siete matti?”. Era il
magazziniere delle armi di tutta la Walter Alasia, era diplomato ma faceva il
manovale in acciaieria.
Il secondo
arrestato è stato quello della mia squadra. Era l’armiere, colui che preparava
le armi della Walter Alasia ed era nipote della Pasqua Aurora Betti, uno dei
leader della colonna milanese. Arrivavano tutti e due da Frosinone. Lui aveva
fatto il militare nei lagunari di Venezia e aveva imparato a maneggiare le
armi. Proprio in quei giorni la Fiom volevano candidarlo come delegato. Io non
volevo perché la Digos mi aveva già avvisato della presenza di un terrorista in
squadra e avevo intuito che poteva essere lui. Ci fu uno scontro all’interno
della squadra, in particolare con il capo della Fiom e il capo della cellula
del Pci: “Se candidate lui – dissi, senza poter spiegare - io non mi candido”.
Era intelligente, preparato. Quando si parlava di problemi aziendali o altro
interveniva, ma quando si discuteva di terrorismo stava zitto o se ne andava. E
le due o tre volte che è mancato dal lavoro ci sono stati degli attentati. Lui
diceva sempre che andava a trovare i suoi a Frosinone.
Il terzo arresto
mi ha sorpreso. Era un operaio della manutenzione che conoscevo bene, iscritto
Fim. Era addetto al rapporto con coloro che erano espatriati in Francia.
Quattro mesi dopo il fermo è fuggito all’estero.
Erano tutti
della Walter Alasia e tutti avevano rapporti con me. Ma la mente, quello che
aveva scritto la risoluzione strategica, non è nessuno di quei tre.
Il nostro
rapporto con il mondo cattolico sestese era buono. Su richiesta nostra sono
venuti parecchi preti a parlare in fabbrica, anche padre Turoldo, e più tardi
don Raffaello Ciccone della pastorale del lavoro.
Personalmente,
lavorando a turni, non ho avuto molti contatti. Questi erano delegati
essenzialmente ai distaccati. Io avevo già il disagio che molti turni di riposo
li occupavo per fare attività sindacale nello stabilimento.
Nel momento
dell’ingresso di Alberto Falck, e iniziavano le prime ristrutturazioni, ho
avuto la sensazione di un tentativo di influenzare la Fim o richiamarla a più miti
consigli. Qualche abboccamento c’è stato, ma quando hanno capito che noi non
volevamo fare guerre di bandiera, ma eravamo disponibili a fare un discorso
serio per governare il cambiamento, la Chiesa è stata vicina a noi.
L’ala
“riformista” della Fiom considerò
l’incontro con il Papa un evento importante a cui dare risalto e essere
presenti. Non c’è stato bisogno di spingere la gente, perché erano convinti di
partecipare. Nel mio reparto, zeppo di bergamaschi, cattolici, erano tutti ben
consci dell’importanza dell’evento, non c’era bisogno di dirglielo. Gli altri
sono venuti perché spinti a fare la presenza o per vedere, capire, curiosare.
Il Papa a Sesto
era un segnale molto positivo per noi, che la gente ha vissuto profondamente.
Era una persona che parlava anche dei nostri problemi, non solo delle grandi
questioni mondiali. Bisognava marcare la presenza operaia e si andò in massa.
Un’esperienza
molto significativa per me è stata quella del mio rapporto diretto con Giorgio
Falck. L’ho conosciuto dopo quattro mesi che ero entrato in azienda, mentre lui
stava terminando il suo tirocinio, perché tutti in famiglia, prima di assumere
un posto di responsabilità, facevano due anni di esperienza nei diversi
settori. Era il 1972. Lavorava su turni, per capire com’erano i processi
produttivi. Veniva a bere il caffè con la grappa insieme a noi. Era giovane,
appena sposato e non aveva mai soldi in tasca. Dopo varie vicende personali è
rientrato in azienda nel 1982, quando ci ha presentato il film ricordato, e ha
ripreso a venire in reparto. Quando capivo che con i dirigenti non risolvevo i
problemi, io li scavalcavo e andavo a parlare direttamente con lui. Durante la
pausa di mezzogiorno andava a giocare a biliardo, mangiava in mensa. Quando
voleva qualcosa, o c’erano nuove produzioni, nuovi macchinari, veniva in
reparto, magari alle 9, 10 di sera o il sabato pomeriggio, fingeva di guardare
gli impianti ma l’obiettivo era fare una chiacchierata, capire cosa stavamo
facendo come sindacato. In quelle occasioni c’era tra noi uno scambio di
vedute. Un giorno ci fu un incidente grave, con un morto e cinque feriti e la
Fiom prese di mira Giorgio Falck. Lo accusò di andare in giro per il mondo,
spendere un sacco di soldi e fregarsene della salute dei lavoratori. Subito dopo
l’incidente ebbe uno scontro con il responsabile della Fiom. Eravamo noi tre in
mezzo al reparto, e lui rispose che quando andava in barca si muoveva grazie
agli sponsor e questo non interferiva in alcun modo con la sua attività di
imprenditore, che lui teneva molto alla salute dei lavoratori e la sua prima
preoccupazione al mattino era di assicurarsi di poter pagare il salario a tutti
i dipendenti.
Era un uomo con
una sua sensibilità che io colsi in quell’occasione. Non era solo una persona
cui piaceva la bella vita. Con la morte del figlio, nell’agosto del ’93, decise
di lasciare il gruppo.
Sentirmi
interlocutore privilegiato dell’azienda mi ha caricato di molte responsabilità.
Dall’85 al ’94 sono stato un punto di riferimento. Quando c’era qualcosa che non
andava, attraverso Giorgio Falck avevo le informazioni che mi permettevano di
vedere più avanti. Sapendo dove voleva arrivare l’azienda, potevo costruire le
mediazioni e proporre le iniziative necessarie. Questo spiazzava la Fiom. In
risposta al mio contatto con Falck, la Fiom ha lavorato molto sui dirigenti,
che si sentivano scavalcati, per isolarmi.
I miei rapporti,
però, non mi hanno mai fatto cambiare idea. Ci sono stati ripetuti tentativi
per farmi fare il capo reparto, mi chiedevano che cosa stavo a fare con il
sindacato. Ho sempre risposto di no: io ho sposato una parte, lei ne ha sposata
un’altra. La mia forza, e la forza della Fim, però, non è stato il rapporto con
Falck ma il legame di fiducia con i lavoratori. Non ideologico, ma che partiva dai
problemi.