lunedì 25 maggio 2020

GIORGIO GALBUSERA - Vismara - Casatenovo (Lc)

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Affettato misto. La storia di Giorgio, operaio e sindacalista alla Vismara”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2008

“Un’ape previdente e operosa solo al calar del sole si riposa”. Fu la prima cosa che vide al suo ingresso in fabbrica. Una grande scritta che troneggiava sul muro appena superato il portone d’ingresso. Cosa avesse a che fare un’ape con i salami non lo capiva, ma il motto “Labor non clamor” che circondava il marchio, seppure in latino, non aveva bisogno di essere tradotto: lì dentro si andava per lavorare, non per perdere tempo.
Era il 17 agosto 1964, un lunedì, primo giorno utile dopo ferragosto. La poca voglia di studiare, unita alle pressanti esigenze della famiglia, avevano creato le condizioni per essere spedito al più presto in fabbrica. Giorgio era nato nel ’48 e aveva 16 anni. Spesso i nuovi assunti erano più giovani di lui e qualche ragazzo i primi giorni portava ancora i calzoni corti. In quel momento i dipendenti erano quasi 1.800, destinati a crescere fino ad oltre duemila.

Il salumificio Vismara era la più grande azienda della zona, un marchio conosciuto e, soprattutto, un nome che voleva dire un lavoro sicuro. In quel periodo, nella zona, per chi cercava un’occupazione c’erano due opportunità: la Vismara o la nettezza urbana di Milano, che in Brianza ha sempre avuto un serbatoio di manodopera. Quello in Vismara era il posto per la vita, con buoni stipendi e il “pacchetto” che contribuiva non poco a sfamare le famiglie.
In azienda vigeva una regola per i nuovi entrati: fino a quando non avevano fatto il servizio militare, e spesso anche oltre, venivano impegnati in tutti i lavori più dequalificati e pesanti. Allo stesso tempo dovevano dimostrare di essere svegli e imparare il mestiere.
L’attività era organizzata per reparti. Ogni reparto era impegnato nella produzione di un prodotto. C’era quello dove si preparava la pancetta, quello del salame, il reparto mortadella, quello dei prosciutti cotti e crudi,  il macello, la sezionatura delle carni.
Giorgio inizialmente venne inserito nel reparto pancetta, ma per poco. Quasi subito, siccome era un bravo ragazzo che parlava poco, lo mandarono al reparto donne. Le donne avevano una sezione a sé, totalmente distinta dal resto della fabbrica, guidata con pugno di ferro dalla signora Elisa, detta “la madona”, dove i contatti con gli uomini erano ridotti all’essenziale. Questi erano limitati al rifornimento dei prodotti da lavorare e, una volta pronti, al trasporto alla destinazione successiva. C’erano lavoratori che portavano le ossa dal macello per l’ultima pulizia e quindi le smistavano alle fasi successive o chi portava le ceste vuote e le ritirava piene. Lui in quel reparto era il ragazzo di bottega, faceva parte di un gruppo di giovani operai che trasportavano i carrelli di salumi già stagionati da etichettare e, una volta pronti, li portavano al reparto spedizione. Lì si doveva essere proprio bravi, irreprensibili, perché “la madona” non permetteva che qualcuno disturbasse le sue donne e nessuno poteva entrare nel reparto senza il suo permesso. Fuori la situazione era diversa. In mensa uomini e donne mangiavano insieme, ma all’interno del reparto ogni contatto era impossibile. Giorgio a lavorare con le donne ci è rimasto un paio d’anni, libero di entrare ed uscire senza alcun problema.
A conclusione di quella prima esperienza venne assegnato al posto definitivo come addetto alla  produzione dei salami, dove è stato fino a quando ha lasciato la fabbrica per entrare nel sindacato a tempo pieno.
Ma la gavetta non era finita, perché nel nuovo reparto dovette passare attraverso tutta la trafila dei diversi lavori che si svolgevano in quella sezione. Imparò a preparare le budella e a scaldarle. Predisponeva le spolette di corda per legare i salami freschi, che dovevano essere sempre bagnate. Tra un gruppo di persone e l’altro c’era una vaschetta piena d’acqua calda ed era necessario cambiarla continuamente, perché la corda umida scorre più facilmente e quando si asciuga stringe di più. Si dovevano poi preparare i piombini di garanzia e le etichette, quindi appendere sui carrelli i salami già legati e avviarli all’asciugatura e stagionatura. Tutto questo era compito dei nuovi arrivati, che dovevano fare in fretta ad imparare il mestiere. Quelli più bravi, che si facevano notare, al loro ritorno dal servizio militare potevano aspirare a conquistare il posto fisso “al tavolo”.
Il reparto salame era diviso in due sezioni. Da una parte si tritava la carne, si aggiungevano le droghe, il grasso e si preparavano le partite. Nell’altra sezione c’erano le macchine che insaccavano e davanti a ognuna di queste c’era un nastro che scorreva tra due file di tavoli. Mentre i salami scendevano lungo il nastro, gli operai li prendevano per legarli, poi li appoggiavano nuovamente sul nastro che proseguiva la sua corsa fino al fondo, dove un ragazzo li catturava e li agganciava al carrello. Più tardi negli anni, i carrelli vennero sostituiti da una catena che portava direttamente i salami agli stanzoni di asciugatura e di stagionatura.
Per un certo periodo venne allestito un tavolo composto solo da giovani, dove l’allegria e l’esuberanza si facevano sentire provocando il rude intervento del caporeparto. E’ attorno a questo tavolo che Giorgio ha imparato a fare salami.
Nel reparto c’era anche un uomo addetto al trasporto del vino, un ingrediente utilizzato in molti prodotti. Quando le scorte finivano, questi andava in cantina a riempire i secchi. Solo che, dovendo attraversare mezzo stabilimento, non arrivava mai con i recipienti pieni. C’erano uomini che, vedendolo in andata, lo curavano al ritorno con il bicchiere in mano e si servivano. Il vino veniva consegnato in azienda con un camion carico di botti. Queste venivano scaricate e portate nel deposito, che stava proprio sotto gli appartamenti dei Vismara.
Racconta Giorgio che, prima del servizio militare, lavorava spesso anche il sabato. In quelle occasioni lo mandavano di rinforzo ai prosciutti cotti. Il suo compito, insieme ad un gruppo di altri giovani, era quello di toglierli dagli stampi. In occasione di una caldissima giornate d’estate il signor Vincenzo si trovò a passare dove i ragazzi erano in fila per prendere i prosciutti. “Ragazzi avete sete, volete da bere? Cosa vi mando: acqua e limone o vino?” chiese. Loro, ancora inesperti, quasi intimoriti, risposero: “acqua e limone”. Come si allontanò, “gli operai ci volevano mangiare vivi”.
In azienda, oltre a bere, si mangiava. Il dispendio di energia era tale che era necessario nutrirsi. Il reparto macello si fermava per venti minuti, tra le 9 e le 9 e mezza. Gli operai si portavano il pane, il resto era lì: un salame, una pancetta o la cervella e le animelle. La cervella si faceva cuocere sui tubi dove scorreva l’aria calda, appoggiandola su alcune parti che venivano mantenute pulite appositamente. Agli altri lavoratori non era formalmente permesso, ma una pausa per uno spuntino la si faceva in tutti i reparti. L’azienda per questo non sollevava problemi. Qualcuno aveva anche il localino adatto, ma la norma era che ciascuno si arrangiava nei propri reparti. Dovunque, si mangiava … e si beveva. Questi modi di fare durarono fino agli anni Settanta, quando furono dettate norme di comportamento più stringenti per tutti.

Di ritorno dalla caserma Giorgio ottenne il suo posto al tavolo. Nel periodo precedente, mentre era occupato nei vari lavoretti, aveva dovuto “rubare il mestiere con gli occhi”, come gli suggerivano gli uomini più anziani, cioè imparare come mettere una pezza nei salami rotti, quale numero di corda utilizzare per un determinato tipo di salame e così via. Quando si conquistava il posto al tavolo, nel reparto salame, si era arrivati, quello era il punto massimo della carriera. Allora ci si poteva mettere il giubbino sopra il grembiule e chi voleva non si sporcava neppure i pantaloni, mentre gli zoccolotti di legno coprivano bene le calze.

A produrre salami erano impegnate un centinaio di persone, forse di più. Il reparto, dopo il macello, che era il cuore dell’azienda, era quello più numeroso, importante e anche più combattivo sotto l’aspetto sindacale.
Nel reparto c’erano delegati storici, come Bruno Terzi, della Cgil, molto amico di Giorgio, che nel frattempo aveva iniziato ad occuparsi di sindacato. Compagno della prima ora, della stessa età, in un’azienda dove a tutti era stato dato un soprannome per distinguere i molti che avevano lo stesso cognome, Terzi era detto “ul ros” per il colore dei capelli e per l’appartenenza politica. Purtroppo ha avuto problemi di salute ed è morto appena andato in pensione.
I due erano considerati un po’ troppo rivoluzionari, forse semplicemente perché giovani. Suscitò clamore una loro iniziativa, che portò a una grande innovazione e che dovettero sperimentare di persona. Durante la macellazione c’era chi sgozzava, chi sventrava, chi sezionava e c’era anche chi doveva lavorare le interiora, che vuol dire budella e quanto contengono. Per quel lavoro disgustoso c’era un reparto apposito, situato proprio sotto il macello. Le interiora dei suini macellati arrivavano con uno scivolo nel reparto sottostante. Si doveva togliere la trippa, selezionare le budella e pulirle. Nel reparto c’era un organico fisso di dieci, dodici persone, operai che al mattino contribuivano alla pulitura e al pomeriggio le sistemavano e le salavano. Queste venivano poi trattate con l’aceto, perché il budello non si può insaccare subito e deve seguire un particolare trattamento, altrimenti è inutilizzabile. Nei giorni della macellazione era necessario un rinforzo. Complessivamente, per smaltire e pulire tutto quanto, servivano una quarantina di persone. Una trentina di operai veniva quindi staccata dai propri reparti per dare man forte agli addetti alle budella.
La macellazione, al tempo in cui Giorgio era in fabbrica, si faceva tre giorni alla settimana: lunedì, martedì e giovedì e si macellavano circa 1.200 suini. Si iniziava al mattino presto e si andava avanti fino a poco prima di mezzogiorno. Il pomeriggio si sezionavano le diverse parti, si toglievano i prosciutti cotti, si preparava il tutto per le lavorazioni.

C’erano dunque tre giorni in cui trenta operai dovevano andare di rinforzo nel reparto budella. Giorgio non era ancora nel consiglio di fabbrica, Terzi si. Proposero che gli uomini fossero impegnati a rotazione. L’azienda era un po’ perplessa, ma poi accettò. Coloro che l’avevano proposta, però, vennero immediatamente comandati al primo turno. Lavorare alle budella aveva un impatto micidiale. Bisognava coprirsi completamente con i grembiuli. Si dovevano pulire escrementi e l’odore rimaneva appiccicato addosso a lungo. Giorgio in quel periodo frequentava la scuola serale e le ragazze lo evitavano. Anche in questo caso la regola applicata era la stessa: quel lavoro lo fece fino alla partenza per il servizio di leva. Poi toccò ad altri.

Fu quella una delle prime battaglie sindacali condotte da Giorgio.
La Vismara era un’azienda altamente sindacalizzata. Oltre il 90 per cento delle persone erano iscritte. La Cisl aveva la gran parte dei tesserati, la Cgil arrivava a circa il 15%. Pochissimi non avevano una tessera in tasca e trovare spazio come attivista alla Vismara non era facile. Quando, però, si passò dalle commissioni interne, composte da un numero limitato di persone, ai consigli di fabbrica, gli ambiti di partecipazione si ampliarono notevolmente. Il numero delle persone impegnate è considerevolmente cresciuto. Il primo consiglio di fabbrica, nel quale in seguito venne eletto anche Giorgio, era composto da 52 delegati. Ogni area, compresi impiegati ed equiparati, era rappresentata da una o più persone. C’era il delegato degli ausiliari, quello dei muratori, degli elettricisti, delle officine. L’esecutivo del consiglio di fabbrica era composto di dodici, quattordici persone. Lui ne ha fatto parte, partecipando alle trattative più impegnative, ai momenti forti del confronto sindacale, ai rinnovi contrattuali, in Vismara e a Roma, fino a quando è uscito dalla fabbrica.
Giorgio è rimasto in Vismara fino al ‘79. Il suo impegno sindacale in azienda è durato circa dieci anni, da semplice delegato all’esecutivo del consiglio di fabbrica, quindi nel consiglio nazionale della Fulpia, la Federazione unitaria lavoratori prodotti industria alimentare, e infine nella Fat (Federazione alimentari e tabacco).
Il 1° aprile 1979 si è presentato all’ufficio amministrazione della Cisl di Lecco insieme ad altri due giovani nuovi sindacalisti. Nel frattempo, nel 1978 si era sposato. Ma quella è un’altra storia.