Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Dall’oratorio alla fabbrica. Il sindacato bianco nella Stalingrado d’Italia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007
Sono nato il
31.5.1938 a Sesto San Giovanni. Ho frequentato l’avviamento commerciale, poi
due anni di istituto tecnico serale.
Quindi, mentre lavoravo, ho studiato alla sera per cinque anni
all’istituto tecnico Hesemberger di Monza e mi sono diplomato perito
elettrotecnico.
Mio padre
lavorava alla Quinta Breda, quella sperimentale, dove costruivano gli aerei. Io
ho fatto il militare come ufficiale nelle trasmissioni e tornato a casa ho
frequentato per un anno il corso serale di economia all’Università Cattolica.
Ho fatto cinque esami poi ho abbandonato.
Ero fidanzato e
mi dovevo sposare, collaboravo con il giornale Luce sestese e seguivo
come corrispondente sindacale tutte le vertenze aziendali di Sesto, dovevo
lavorare e non ce l’ho fatta. Ma tutto sommato è stato positivo, altrimenti non
avrei potuto vivere l’esperienza di impegno e partecipazione di quegli anni.
Ormai adulto, ho perso l’udito e
sono caduto in un forte esaurimento. In quel momento ho deciso di mettermi di
nuovo a studiare e mi sono iscritto a Scienze religiose, al seminario di Corso
Venezia a Milano, e nel 1981 mi sono laureato con una tesi su: “La presenza dei
cristiani nel mondo del lavoro a Sesto San Giovanni dal dopoguerra ad oggi”.
Dopo aver fatto
un corso di analista chimico di 6, 7 mesi per disoccupati, che si svolgevano
all’oratorio e dove si prendeva una sorta di cassa integrazione finanziata
dallo Stato, a 15 anni sono andato a lavorare alla Elettromeccanica Lombarda di
Sesto. Sono entrato come avvolgitore, quindi sono salito in ufficio tecnico, ma
siccome dopo un paio di mesi avrebbero dovuto passarmi impiegato, per evitarlo
mi hanno rimesso in reparto. Poi l’azienda ha iniziato ad andare male e ha
chiuso.
Ho trovato posto
alla Magnaghi, nella zona di Turro, a Milano, un’azienda che produceva
apparecchiature per l’aeronautica e sono entrato come apprendista addetto al
controllo di apparecchiature oleodinamiche, mentre già facevo il quarto anno
dell’istituto tecnico. Sono stato assunto grazie a un cugino di mia moglie che
era capo officina. Era il 1958. Dopo poco sono iniziati i primi scioperi. Io,
nonostante il cugino, ho partecipato. Un giorno il titolare chiamò i
responsabili della commissione proponendo di dare a tutti cinquemila lire se
non avessero fatto sciopero: “Poi quando si firmerà il contratto vi darò
l’aumento concordato”. Gli operai non accettarono, allora lui fece esporre un
comunicato in cui annunciava che avrebbe abbandonato la fabbrica. A quel punto
si diffuse tra i lavoratori il timore per il futuro dell’azienda. Una
delegazione di operai, compresi i rappresentanti della Fiom, andarono a casa
del Magnaghi e lo pregarono di rientrare in fabbrica.
Qualche mattina
dopo lui è arrivato con il suo Mercedes accolto dagli applausi degli operai. Io
ero scioccato. Allo sciopero successivo parteciparono solo due persone, io e
uno della Cgil. Mio cugino era decisamente imbarazzato. Dopo qualche mese c’era
l’elezione della commissione interna e venni eletto con moltissimi voti. In
quel periodo ho cominciato a sperimentare le assemblee di fabbrica. Avevamo la
mensa interna, dove si mangiava con la “schiscetta”, ho esposto un comunicato
in cui si diceva che la commissione interna avrebbe fatto una comunicazione
all’ora di pranzo. Finito di mangiare mi sono alzato e ho iniziato a parlare:
la gente si domandava cosa stessi facendo, ma poi hanno accettato positivamente
l’iniziativa e da allora, ogni tanto, quando c’erano trattative o problemi, mi
alzavo e mettevo tutti al corrente della situazione.
Al ritorno dal servizio militare
ho cercato un nuovo posto di lavoro, mi ero diplomato, e sono stato assunto
alla Brown Boveri di Milano dove ho lavorato, prima in un laboratorio per sei
mesi, poi come caporeparto, con buone prospettive di diventare responsabile
dell’intera sezione. Ma cominciarono i primi scioperi e partecipai solo io,
insieme a un altro capo reparto che aveva 63 anni e stava andando in pensione.
Venni convocato dalla direzione per dirmi che così non poteva andare.
Nel frattempo
ero diventato responsabile della redazione sindacale del Luce sestese,
guidato da don Franco Fusetti. E don Fusetti mi disse che c’era un posto alla
Breda.
E così, da
perito elettrotecnico sono entrato in siderurgia, in ufficio tecnico. Era il
1963, mi fecero firmare una lettera d’assunzione scritta a matita dove mi
assegnarono la 2^ categoria, poi mi sono ritrovato con la 3^. Sono sempre stato
in quell’ufficio, impegnato nella progettazione e nel disegno delle
calibrazioni, cioè il profilo del laminato nei vari passaggi.
Ho tradotto
dall’inglese all’italiano una sorta di bibbia della laminazione. Ci ho messo
tre anni, lo facevo durante l’intervallo, in ferie, ci mancava poco che
divorziassi dalla moglie! Sono usciti 4
volumi che hanno usato in tutte le siderurgie. Ho lasciato a fine ’88 e il
reparto ha chiuso nell’89. Sono stato lasciato a casa all’età di 50 anni, con
35 anni di contributi.
Dopo un anno
dalla mia assunzione sono cominciati gli scioperi e io ho partecipato. Allo
sciopero del 18 gennaio 1966 ai soliti quattro impiegati se ne unirono altri
dell’ufficio tecnico. Nei giorni seguenti fummo chiamati uno per uno e invitati
a desistere dalla protesta se tenevamo alla nostra carriera. L’azienda in
quell’occasione comandò ben 170 operai al lavoro contro i normali 20 concordati
con la commissione interna. Nella stessa giornata gli operai in sciopero
ricevettero telefonate che li invitavano a recarsi al lavoro, mentre la
direzione inviava macchine aziendali a prelevare gli operai a casa. Io ero
fuori dai cancelli a fare il picchetto e i miei colleghi impiegati mi
guardavano male, però col tempo hanno imparato a conoscermi. Appena terminato
il lavoro, andavo in giro nel reparto a fare tessere e in poco tempo quasi
tutti gli impiegati del laminatoio si iscrissero alla Cisl. Avevano capito che
scioperando facevo il loro interesse e io chiudevo un occhio se loro facevano i
crumiri. Così, in occasione della prima elezione della commissione interna cui
ho partecipato, nel 1966, mi hanno eletto con un mare di voti. Sono poi stato
rieletto la volta successiva e quindi ancora nel primo consiglio di fabbrica.
La stragrande
maggioranza tra gli operai era della Fiom, ma nonostante questo, per due anni
siamo riusciti ad avere la maggioranza in commissione interna e io sono stato
eletto presidente. Questo perché avevamo una discreta presenza tra gli operai e
la maggioranza assoluta tra gli impiegati. C’era anche un rappresentante Uil
che ha votato per noi e, su 9, abbiamo vinto 5 a 4.
In quel periodo
divenni responsabile della sezione aziendale sindacale della Fim, sono stato
membro del consiglio provinciale, ho partecipato ai congressi nazionali fino a
quando, per ragioni di salute, sono stato costretto a lasciare tutti gli
incarichi.
Mentre lavoravo
seguivo anche il giornale. In Breda non c’era la mensa, a mezzogiorno andavo a
casa, pranzavo in venti minuti, il martedì e mercoledì correvo a controllare
gli articoli che si dovevano pubblicare, poi tornavo in fabbrica. La sera non
uscivo subito dallo stabilimento, andavo in giro a fare le tessere, poi andavo
al sindacato, scrivevo il giornale, mi preoccupavo della stampa, partecipavo
alle riunioni.
La situazione
che ho trovato in Breda dal punto di vista sindacale non mi ha sorpreso più di
tanto. L’atteggiamento, in particolare nella Cisl, ma anche nella Cgil e nella
Uil, era di condivisione del paternalismo aziendale. Quando sono entrato in
commissione interna sono rimasto un po’ scioccato. Bastava che il capo del
personale dicesse qualcosa che tutti erano lì pronti ad assecondarlo. Ogni anno
si facevano degli incontri organizzati dall’azienda con tutto il personale, si
festeggiava la befana dei dipendenti e in quelle occasioni anche un membro
della commissione interna faceva un discorsetto. Quando è toccato a me ho
preparato il mio intervento, ma siccome avevo già avuto delle discussioni con
il capo del personale mi ha chiesto che prima avrebbe voluto leggerlo.
Chiaramente io non ero d’accordo, ma la cosa che mi ha fatto più male è stato
scoprire che in commissione, a parte uno della Fiom, erano tutti d’accordo con
lui. Si arrivò così all’incontro. Erano tutti presenti, venne passata la parola
al rappresentante degli anziani, quindi al direttore ma quando toccava a me, il
dott. Galli portò via il microfono al conduttore e iniziò a distribuire i regali
e io non potei parlare.
Capitava anche
che, in occasione degli scioperi, io e pochi altri venissimo chiamati per dei
lavori urgenti in fabbrica. Io non ci andavo e allora venivo convocato in
direzione e minacciato di licenziamento. Ero continuamente soggetto a pressioni
di ogni genere. Così un giorno ne ho parlato con il prevosto, Teresio
Ferraroni: “Lavoro solo io, ho due figli, mi vogliono licenziare, cosa
faccio?”.
E lui mi disse:
“Se sei convinto di quello che fai tieni duro e poi sono convinto che non
arriveranno a tanto”. E infatti non venni licenziato, anche se la minaccia c’è
stata e ha pesato sulla mia carriera professionale. Solo negli ultimi due, tre
anni, quando ormai in Breda non c’era più nessuno, sono stati costretti a darmi
la responsabilità del reparto.
Poi la
situazione è cambiata. Ero filo carnitiano e mi sono impegnato per questo. Un
mio collega della Cisl, che era in commissione interna, mi disse che lui non
condivideva quella linea e si è fatto da parte. Anche in Cgil sono arrivate
persone nuove, che hanno dato una carica notevole, anche se con un
atteggiamento massimalista. Secondo costoro noi dovevamo essere la punta di
diamante dei metalmeccanici, fare piattaforme con un elenco lunghissimo di
richieste che rischiavano di non portare a niente. Le polemiche tra Dino
Longoni e Antonio Pizzinato (i sindacalisti di zona che ci seguivano) e tra me
e Giampiero Umidi (rappresentanti in fabbrica delle due organizzazioni) erano
all’ordine del giorno.
I rapporti con i
delegati Cgil, però, erano tutto sommato buoni, di rispetto, che c’è ancora
oggi.
Scontri aspri ci
sono stati in occasione di qualche assemblea, ma in azienda non ci sono mai
stati episodi di violenza. Ci furono momenti di tensione anche durante gli
scioperi, quando gli impiegati non volevano uscire e gli operai li
costringevano, e io cercavo di attenuare le tensioni. I contrasti erano solo
verbali, e c’era un certo rispetto. Tutte le volte che intervenivo in consiglio
di fabbrica e nelle assemblee ero ascoltato, spesso anche applaudito.
Gli operai in
siderurgia erano persone dure, ma non rozze, si scaldavano subito, ma sapevano
anche fermarsi in fretta. C’era una certa forza nel voler conquistare i
risultati. Qualche scontro c’è stato con il capo del personale, un ex
paracadutista, che ha rischiato di venire alle mani con alcuni lavoratori. Una
volta, durante uno sciopero, è intervenuta la polizia in reparto, ma non è mai
stato picchiato nessuno.
I lavoratori
inizialmente erano in gran parte brianzoli e bergamaschi, poi sono cominciati
ad arrivare i meridionali, sardi, calabresi. Questi ultimi si scaldavano più
facilmente, però si fermavano presto ed erano gli operai lombardi che tenevano
duro nel tempo durante le vertenze.
Tra il ‘66 e il
’70 abbiamo avuto 6, 7 morti per incidenti sul lavoro. Abbiamo fatto
un’inchiesta come Fim e abbiamo denunciato pubblicamente la gravità del
problema. Ho partecipato ad una trasmissione in Rai per parlarne, a una tavola
rotonda organizzata da Famiglia Cristiana, anche il giornale della Fiom ha pubblicato
una mia fotografia per presentare i risultati della nostra inchiesta.
Le vertenze più
importanti che abbiamo fatto sono state proprio quelle che riguardavano
l’ambiente di lavoro. La prima impostazione era sbagliata, si chiedevano più
soldi per le mansioni più pesanti e pericolose, poi abbiamo maturato una nuova
strategia e ci siamo battuti non poco per migliorare le condizioni di lavoro.
Sono sempre
stato un democristiano convinto. Ho iniziato a leggere il Popolo a 14 anni e ho
smesso quando ha cessato le pubblicazioni. Avevo come riferimento Donat Cattin,
Guido Bodrato, Vittorino Colombo. Appena entrato alla Elettromeccanica Lombarda
ho visto che c’era una bacheca per l’Avanti e una per l’Unità. Allora sono
andato in oratorio, nello scantinato, e insieme a un amico ho costruito
una bacheca, l’ho appesa in azienda e ho
iniziato a esporre il giornale che andavo all’edicola a comperare tutte le
mattine. Apriti cielo! “Qui è arrivata la sacrestia!”, poi nei due anni che
sono rimasto lì, nonostante fossi un ragazzino, mi hanno apprezzato tutti.
Andavo in giro a fare le tessere, ma giornali sindacali da esporre non ce
n’erano.
Momenti di forte
preoccupazione li ho vissuti nel periodo in cui sparavano nelle gambe ai
democristiani. C’è stato un anno, un anno e mezzo, che ogni giorno quando
andavo al lavoro avevo paura che mi sparassero perché il democristiano ero io,
anche se ero del sindacato. Io distribuivo volantini della Fim e della Cisl, ma
anche della Democrazia cristiana. Un giorno hanno colpito un caporeparto mentre
saliva sul pullman, fortunatamente dal basso verso l’alto e il proiettile non
ha leso organi vitali. Non mi risulta che fossi nel mirino e non ho mai avuto
minacce, ma ho avuto paura perché gli obiettivi erano quelli e tutti sapevano che
il democristiano della Breda era il Trezzi. Chi mi conosceva capiva che ero
tutt’altro che servo dei padroni, ma nonostante ciò quei momenti sono stati di
grande tensione.
In Breda c’era
la cellula del Partito comunista e io accusavo i delegati Fiom di non essere
autonomi. Noi avevamo una sezione aziendale sindacale e i problemi cercavamo di
studiarli e di fare delle proposte, poi coloro che erano in commissione
interna, e successivamente nel consiglio di fabbrica, portavano avanti la linea
che avevamo deciso. A un certo punto hanno abolito le sas della Cisl perché
ormai andava avanti il processo unitario e il confronto si doveva fare con
tutti. Ma i delegati Fiom continuavano a ritrovarsi nelle cellule del Pci e
arrivavano già preparati in consiglio di fabbrica. Le persone che intervenivano
in consiglio e in assemblea, infatti, erano le stesse che frequentavano la
cellula. Noi invece non avevamo più niente e non ci si trovava più nemmeno in
via Fiorani per parlare di questioni aziendali.
Spesso, durante
le nostre vertenze, si faceva viva l’amministrazione di Sesto San Giovanni. E
un contributo, per quello che potevano, lo davano, ma dentro l’azienda non
incidevano.
C’è stato un
momento più recente, però, in cui tutti sapevano che c’erano già i plastici di
come sarebbe cambiata la zona Bicocca e la zona Breda, e nonostante tutto
organizzavano assemblee nel palazzetto comunale e la sindachessa Fiorenza
Bassoli prometteva mari e monti sulla difesa dei posti di lavoro. Addirittura
si parlava di installare un altro forno elettrico, ma ben presto hanno
smantellato quello che c’era. Fino alla fine ci hanno illuso che l’azienda
sarebbe andata avanti, in verità sapevano già cosa sarebbe accaduto agli
impianti e alle aree.
Il mondo
cattolico sestese era presente sui problemi del lavoro. Grazie a persone come
mons. Paolo Marelli prima e mons. Teresio Ferraroni dopo, la gerarchia si è
sempre schierata con il movimento dei lavoratori. Abbiamo avuto anni durissimi
con un’azienda dopo l’altra che chiudeva o con vertenze pesanti. Luce
sestese aveva un’impronta molto vicina al mondo del lavoro. C’era don
Fusetti che interveniva con regolarità, oltre agli articoli che scrivevo io.
Ferraroni approvava in pieno lo scontro con gli industriali sestesi,
specialmente con i Falck, che passavano per essere dei buoni cattolici.
Grazie al Luce
sestese e al Centro culturale ricerca, abbiamo fatto una serie di
corsi di formazione sui temi del lavoro. Nell’ottobre del 1965 abbiamo
organizzato un incontro con padre Gauthier, leader del movimento dei preti
operai, e ci ha dato una grande carica. Io sono intervenuto e, dopo aver detto
che in sala con noi c’erano anche coloro che la mattina dopo avrebbero fatto i
crumiri sul lavoro, ho proposto che padre Gauthier celebrasse una messa insieme
ai lavoratori della Marelli che presidiavano con una tenda i cancelli della
fabbrica che aveva minacciato quasi 500 licenziamenti. La mattina dopo padre
Gauthier ha celebrato la messa e poi tutti insieme siamo andati alla tenda.
Il Luce
sestese è andato avanti per diversi anni, ma poi la Curia non condivideva
la nostra impostazione e ha interrotto la nostra esperienza. Io mi sono dimesso
e con altri della redazione abbiamo dato vita a un nuovo giornale che però ha
avuto vita breve.
Credo che la Chiesa sestese sia sempre stata abbastanza rispettata dalla sinistra perché ha avuto una personalità e una vicinanza con i problemi del lavoro e, eccetto forse i primi tempi di guerra fredda, c’è sempre stato reciproco rispetto.
L’arrivo del
Papa è stato vissuto con una certa indifferenza nel mondo cattolico sestese e
non ha prodotto un nuovo impegno verso il mondo del lavoro. Ormai in quel
periodo la comunità cattolica sestese non ci vedeva più di buon occhio, eravamo
quelli che facevano gli scioperi, che andavano con i comunisti. Lo stesso don
Luigi Oggioni ha avuto dei problemi e alla fine è stato di fatto mandato via.
Ho fatto parte
del consiglio pastorale diocesano e due volte abbiamo incontrato il card.
Giovanni Colombo. La seconda volta sono intervenuto e gli ho detto che va bene
parlare di speranza, ma servono anche fatti concreti.