martedì 26 maggio 2020

EUGENIO TREZZI - Breda Siderurgica – Sesto San Giovanni (Mi)

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Dall’oratorio alla fabbrica. Il sindacato bianco nella Stalingrado d’Italia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007

Sono nato il 31.5.1938 a Sesto San Giovanni. Ho frequentato l’avviamento commerciale, poi due anni di istituto tecnico serale.  Quindi, mentre lavoravo, ho studiato alla sera per cinque anni all’istituto tecnico Hesemberger di Monza e mi sono diplomato perito elettrotecnico.
Mio padre lavorava alla Quinta Breda, quella sperimentale, dove costruivano gli aerei. Io ho fatto il militare come ufficiale nelle trasmissioni e tornato a casa ho frequentato per un anno il corso serale di economia all’Università Cattolica. Ho fatto cinque esami poi ho abbandonato.

Ero fidanzato e mi dovevo sposare, collaboravo con il giornale Luce sestese e seguivo come corrispondente sindacale tutte le vertenze aziendali di Sesto, dovevo lavorare e non ce l’ho fatta. Ma tutto sommato è stato positivo, altrimenti non avrei potuto vivere l’esperienza di impegno e partecipazione di quegli anni.
Ormai adulto, ho perso l’udito e sono caduto in un forte esaurimento. In quel momento ho deciso di mettermi di nuovo a studiare e mi sono iscritto a Scienze religiose, al seminario di Corso Venezia a Milano, e nel 1981 mi sono laureato con una tesi su: “La presenza dei cristiani nel mondo del lavoro a Sesto San Giovanni dal dopoguerra ad oggi”.

Dopo aver fatto un corso di analista chimico di 6, 7 mesi per disoccupati, che si svolgevano all’oratorio e dove si prendeva una sorta di cassa integrazione finanziata dallo Stato, a 15 anni sono andato a lavorare alla Elettromeccanica Lombarda di Sesto. Sono entrato come avvolgitore, quindi sono salito in ufficio tecnico, ma siccome dopo un paio di mesi avrebbero dovuto passarmi impiegato, per evitarlo mi hanno rimesso in reparto. Poi l’azienda ha iniziato ad andare male e ha chiuso.
Ho trovato posto alla Magnaghi, nella zona di Turro, a Milano, un’azienda che produceva apparecchiature per l’aeronautica e sono entrato come apprendista addetto al controllo di apparecchiature oleodinamiche, mentre già facevo il quarto anno dell’istituto tecnico. Sono stato assunto grazie a un cugino di mia moglie che era capo officina. Era il 1958. Dopo poco sono iniziati i primi scioperi. Io, nonostante il cugino, ho partecipato. Un giorno il titolare chiamò i responsabili della commissione proponendo di dare a tutti cinquemila lire se non avessero fatto sciopero: “Poi quando si firmerà il contratto vi darò l’aumento concordato”. Gli operai non accettarono, allora lui fece esporre un comunicato in cui annunciava che avrebbe abbandonato la fabbrica. A quel punto si diffuse tra i lavoratori il timore per il futuro dell’azienda. Una delegazione di operai, compresi i rappresentanti della Fiom, andarono a casa del Magnaghi e lo pregarono di rientrare in fabbrica.
Qualche mattina dopo lui è arrivato con il suo Mercedes accolto dagli applausi degli operai. Io ero scioccato. Allo sciopero successivo parteciparono solo due persone, io e uno della Cgil. Mio cugino era decisamente imbarazzato. Dopo qualche mese c’era l’elezione della commissione interna e venni eletto con moltissimi voti. In quel periodo ho cominciato a sperimentare le assemblee di fabbrica. Avevamo la mensa interna, dove si mangiava con la “schiscetta”, ho esposto un comunicato in cui si diceva che la commissione interna avrebbe fatto una comunicazione all’ora di pranzo. Finito di mangiare mi sono alzato e ho iniziato a parlare: la gente si domandava cosa stessi facendo, ma poi hanno accettato positivamente l’iniziativa e da allora, ogni tanto, quando c’erano trattative o problemi, mi alzavo e mettevo tutti al corrente della situazione.
Al ritorno dal servizio militare ho cercato un nuovo posto di lavoro, mi ero diplomato, e sono stato assunto alla Brown Boveri di Milano dove ho lavorato, prima in un laboratorio per sei mesi, poi come caporeparto, con buone prospettive di diventare responsabile dell’intera sezione. Ma cominciarono i primi scioperi e partecipai solo io, insieme a un altro capo reparto che aveva 63 anni e stava andando in pensione. Venni convocato dalla direzione per dirmi che così non poteva andare.
Nel frattempo ero diventato responsabile della redazione sindacale del Luce sestese, guidato da don Franco Fusetti. E don Fusetti mi disse che c’era un posto alla Breda.
E così, da perito elettrotecnico sono entrato in siderurgia, in ufficio tecnico. Era il 1963, mi fecero firmare una lettera d’assunzione scritta a matita dove mi assegnarono la 2^ categoria, poi mi sono ritrovato con la 3^. Sono sempre stato in quell’ufficio, impegnato nella progettazione e nel disegno delle calibrazioni, cioè il profilo del laminato nei vari passaggi.
Ho tradotto dall’inglese all’italiano una sorta di bibbia della laminazione. Ci ho messo tre anni, lo facevo durante l’intervallo, in ferie, ci mancava poco che divorziassi dalla moglie!  Sono usciti 4 volumi che hanno usato in tutte le siderurgie. Ho lasciato a fine ’88 e il reparto ha chiuso nell’89. Sono stato lasciato a casa all’età di 50 anni, con 35 anni di contributi.

Dopo un anno dalla mia assunzione sono cominciati gli scioperi e io ho partecipato. Allo sciopero del 18 gennaio 1966 ai soliti quattro impiegati se ne unirono altri dell’ufficio tecnico. Nei giorni seguenti fummo chiamati uno per uno e invitati a desistere dalla protesta se tenevamo alla nostra carriera. L’azienda in quell’occasione comandò ben 170 operai al lavoro contro i normali 20 concordati con la commissione interna. Nella stessa giornata gli operai in sciopero ricevettero telefonate che li invitavano a recarsi al lavoro, mentre la direzione inviava macchine aziendali a prelevare gli operai a casa. Io ero fuori dai cancelli a fare il picchetto e i miei colleghi impiegati mi guardavano male, però col tempo hanno imparato a conoscermi. Appena terminato il lavoro, andavo in giro nel reparto a fare tessere e in poco tempo quasi tutti gli impiegati del laminatoio si iscrissero alla Cisl. Avevano capito che scioperando facevo il loro interesse e io chiudevo un occhio se loro facevano i crumiri. Così, in occasione della prima elezione della commissione interna cui ho partecipato, nel 1966, mi hanno eletto con un mare di voti. Sono poi stato rieletto la volta successiva e quindi ancora nel primo consiglio di fabbrica.
La stragrande maggioranza tra gli operai era della Fiom, ma nonostante questo, per due anni siamo riusciti ad avere la maggioranza in commissione interna e io sono stato eletto presidente. Questo perché avevamo una discreta presenza tra gli operai e la maggioranza assoluta tra gli impiegati. C’era anche un rappresentante Uil che ha votato per noi e, su 9, abbiamo vinto 5 a 4.
In quel periodo divenni responsabile della sezione aziendale sindacale della Fim, sono stato membro del consiglio provinciale, ho partecipato ai congressi nazionali fino a quando, per ragioni di salute, sono stato costretto a lasciare tutti gli incarichi.
Mentre lavoravo seguivo anche il giornale. In Breda non c’era la mensa, a mezzogiorno andavo a casa, pranzavo in venti minuti, il martedì e mercoledì correvo a controllare gli articoli che si dovevano pubblicare, poi tornavo in fabbrica. La sera non uscivo subito dallo stabilimento, andavo in giro a fare le tessere, poi andavo al sindacato, scrivevo il giornale, mi preoccupavo della stampa, partecipavo alle riunioni.

La situazione che ho trovato in Breda dal punto di vista sindacale non mi ha sorpreso più di tanto. L’atteggiamento, in particolare nella Cisl, ma anche nella Cgil e nella Uil, era di condivisione del paternalismo aziendale. Quando sono entrato in commissione interna sono rimasto un po’ scioccato. Bastava che il capo del personale dicesse qualcosa che tutti erano lì pronti ad assecondarlo. Ogni anno si facevano degli incontri organizzati dall’azienda con tutto il personale, si festeggiava la befana dei dipendenti e in quelle occasioni anche un membro della commissione interna faceva un discorsetto. Quando è toccato a me ho preparato il mio intervento, ma siccome avevo già avuto delle discussioni con il capo del personale mi ha chiesto che prima avrebbe voluto leggerlo. Chiaramente io non ero d’accordo, ma la cosa che mi ha fatto più male è stato scoprire che in commissione, a parte uno della Fiom, erano tutti d’accordo con lui. Si arrivò così all’incontro. Erano tutti presenti, venne passata la parola al rappresentante degli anziani, quindi al direttore ma quando toccava a me, il dott. Galli portò via il microfono al conduttore e iniziò a distribuire i regali e io non potei parlare.
Capitava anche che, in occasione degli scioperi, io e pochi altri venissimo chiamati per dei lavori urgenti in fabbrica. Io non ci andavo e allora venivo convocato in direzione e minacciato di licenziamento. Ero continuamente soggetto a pressioni di ogni genere. Così un giorno ne ho parlato con il prevosto, Teresio Ferraroni: “Lavoro solo io, ho due figli, mi vogliono licenziare, cosa faccio?”.
E lui mi disse: “Se sei convinto di quello che fai tieni duro e poi sono convinto che non arriveranno a tanto”. E infatti non venni licenziato, anche se la minaccia c’è stata e ha pesato sulla mia carriera professionale. Solo negli ultimi due, tre anni, quando ormai in Breda non c’era più nessuno, sono stati costretti a darmi la responsabilità del reparto.
Poi la situazione è cambiata. Ero filo carnitiano e mi sono impegnato per questo. Un mio collega della Cisl, che era in commissione interna, mi disse che lui non condivideva quella linea e si è fatto da parte. Anche in Cgil sono arrivate persone nuove, che hanno dato una carica notevole, anche se con un atteggiamento massimalista. Secondo costoro noi dovevamo essere la punta di diamante dei metalmeccanici, fare piattaforme con un elenco lunghissimo di richieste che rischiavano di non portare a niente. Le polemiche tra Dino Longoni e Antonio Pizzinato (i sindacalisti di zona che ci seguivano) e tra me e Giampiero Umidi (rappresentanti in fabbrica delle due organizzazioni) erano all’ordine del giorno.
I rapporti con i delegati Cgil, però, erano tutto sommato buoni, di rispetto, che c’è ancora oggi.
Scontri aspri ci sono stati in occasione di qualche assemblea, ma in azienda non ci sono mai stati episodi di violenza. Ci furono momenti di tensione anche durante gli scioperi, quando gli impiegati non volevano uscire e gli operai li costringevano, e io cercavo di attenuare le tensioni. I contrasti erano solo verbali, e c’era un certo rispetto. Tutte le volte che intervenivo in consiglio di fabbrica e nelle assemblee ero ascoltato, spesso anche applaudito.
Gli operai in siderurgia erano persone dure, ma non rozze, si scaldavano subito, ma sapevano anche fermarsi in fretta. C’era una certa forza nel voler conquistare i risultati. Qualche scontro c’è stato con il capo del personale, un ex paracadutista, che ha rischiato di venire alle mani con alcuni lavoratori. Una volta, durante uno sciopero, è intervenuta la polizia in reparto, ma non è mai stato picchiato nessuno.
I lavoratori inizialmente erano in gran parte brianzoli e bergamaschi, poi sono cominciati ad arrivare i meridionali, sardi, calabresi. Questi ultimi si scaldavano più facilmente, però si fermavano presto ed erano gli operai lombardi che tenevano duro nel tempo durante le vertenze.

Tra il ‘66 e il ’70 abbiamo avuto 6, 7 morti per incidenti sul lavoro. Abbiamo fatto un’inchiesta come Fim e abbiamo denunciato pubblicamente la gravità del problema. Ho partecipato ad una trasmissione in Rai per parlarne, a una tavola rotonda organizzata da Famiglia Cristiana, anche il giornale della Fiom ha pubblicato una mia fotografia per presentare i risultati della nostra inchiesta.
Le vertenze più importanti che abbiamo fatto sono state proprio quelle che riguardavano l’ambiente di lavoro. La prima impostazione era sbagliata, si chiedevano più soldi per le mansioni più pesanti e pericolose, poi abbiamo maturato una nuova strategia e ci siamo battuti non poco per migliorare le condizioni di lavoro.

Sono sempre stato un democristiano convinto. Ho iniziato a leggere il Popolo a 14 anni e ho smesso quando ha cessato le pubblicazioni. Avevo come riferimento Donat Cattin, Guido Bodrato, Vittorino Colombo. Appena entrato alla Elettromeccanica Lombarda ho visto che c’era una bacheca per l’Avanti e una per l’Unità. Allora sono andato in oratorio, nello scantinato, e insieme a un amico ho costruito una  bacheca, l’ho appesa in azienda e ho iniziato a esporre il giornale che andavo all’edicola a comperare tutte le mattine. Apriti cielo! “Qui è arrivata la sacrestia!”, poi nei due anni che sono rimasto lì, nonostante fossi un ragazzino, mi hanno apprezzato tutti. Andavo in giro a fare le tessere, ma giornali sindacali da esporre non ce n’erano.
Momenti di forte preoccupazione li ho vissuti nel periodo in cui sparavano nelle gambe ai democristiani. C’è stato un anno, un anno e mezzo, che ogni giorno quando andavo al lavoro avevo paura che mi sparassero perché il democristiano ero io, anche se ero del sindacato. Io distribuivo volantini della Fim e della Cisl, ma anche della Democrazia cristiana. Un giorno hanno colpito un caporeparto mentre saliva sul pullman, fortunatamente dal basso verso l’alto e il proiettile non ha leso organi vitali. Non mi risulta che fossi nel mirino e non ho mai avuto minacce, ma ho avuto paura perché gli obiettivi erano quelli e tutti sapevano che il democristiano della Breda era il Trezzi. Chi mi conosceva capiva che ero tutt’altro che servo dei padroni, ma nonostante ciò quei momenti sono stati di grande tensione.
In Breda c’era la cellula del Partito comunista e io accusavo i delegati Fiom di non essere autonomi. Noi avevamo una sezione aziendale sindacale e i problemi cercavamo di studiarli e di fare delle proposte, poi coloro che erano in commissione interna, e successivamente nel consiglio di fabbrica, portavano avanti la linea che avevamo deciso. A un certo punto hanno abolito le sas della Cisl perché ormai andava avanti il processo unitario e il confronto si doveva fare con tutti. Ma i delegati Fiom continuavano a ritrovarsi nelle cellule del Pci e arrivavano già preparati in consiglio di fabbrica. Le persone che intervenivano in consiglio e in assemblea, infatti, erano le stesse che frequentavano la cellula. Noi invece non avevamo più niente e non ci si trovava più nemmeno in via Fiorani per parlare di questioni aziendali.
Spesso, durante le nostre vertenze, si faceva viva l’amministrazione di Sesto San Giovanni. E un contributo, per quello che potevano, lo davano, ma dentro l’azienda non incidevano.
C’è stato un momento più recente, però, in cui tutti sapevano che c’erano già i plastici di come sarebbe cambiata la zona Bicocca e la zona Breda, e nonostante tutto organizzavano assemblee nel palazzetto comunale e la sindachessa Fiorenza Bassoli prometteva mari e monti sulla difesa dei posti di lavoro. Addirittura si parlava di installare un altro forno elettrico, ma ben presto hanno smantellato quello che c’era. Fino alla fine ci hanno illuso che l’azienda sarebbe andata avanti, in verità sapevano già cosa sarebbe accaduto agli impianti e alle aree.    

Il mondo cattolico sestese era presente sui problemi del lavoro. Grazie a persone come mons. Paolo Marelli prima e mons. Teresio Ferraroni dopo, la gerarchia si è sempre schierata con il movimento dei lavoratori. Abbiamo avuto anni durissimi con un’azienda dopo l’altra che chiudeva o con vertenze pesanti. Luce sestese aveva un’impronta molto vicina al mondo del lavoro. C’era don Fusetti che interveniva con regolarità, oltre agli articoli che scrivevo io. Ferraroni approvava in pieno lo scontro con gli industriali sestesi, specialmente con i Falck, che passavano per essere dei buoni cattolici.
Grazie al Luce sestese e al Centro culturale ricerca, abbiamo fatto una serie di corsi di formazione sui temi del lavoro. Nell’ottobre del 1965 abbiamo organizzato un incontro con padre Gauthier, leader del movimento dei preti operai, e ci ha dato una grande carica. Io sono intervenuto e, dopo aver detto che in sala con noi c’erano anche coloro che la mattina dopo avrebbero fatto i crumiri sul lavoro, ho proposto che padre Gauthier celebrasse una messa insieme ai lavoratori della Marelli che presidiavano con una tenda i cancelli della fabbrica che aveva minacciato quasi 500 licenziamenti. La mattina dopo padre Gauthier ha celebrato la messa e poi tutti insieme siamo andati alla tenda.
Il Luce sestese è andato avanti per diversi anni, ma poi la Curia non condivideva la nostra impostazione e ha interrotto la nostra esperienza. Io mi sono dimesso e con altri della redazione abbiamo dato vita a un nuovo giornale che però ha avuto vita breve.
Credo che la Chiesa sestese sia sempre stata abbastanza rispettata dalla sinistra perché ha avuto una personalità e una vicinanza con i problemi del lavoro e, eccetto forse i primi tempi di guerra fredda, c’è sempre stato reciproco rispetto.
L’arrivo del Papa è stato vissuto con una certa indifferenza nel mondo cattolico sestese e non ha prodotto un nuovo impegno verso il mondo del lavoro. Ormai in quel periodo la comunità cattolica sestese non ci vedeva più di buon occhio, eravamo quelli che facevano gli scioperi, che andavano con i comunisti. Lo stesso don Luigi Oggioni ha avuto dei problemi e alla fine è stato di fatto mandato via.
Ho fatto parte del consiglio pastorale diocesano e due volte abbiamo incontrato il card. Giovanni Colombo. La seconda volta sono intervenuto e gli ho detto che va bene parlare di speranza, ma servono anche fatti concreti.