domenica 24 maggio 2020

LUIGI CORBETTA 2 - Vismara - Casatenovo (Lc)

Testimonianza (bozza) raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Affettato misto. La storia di Giorgio, operaio e sindacalista alla Vismara”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2008

Sono stato assunto in Vismara nel 1953 come operaio.
Allora si andava fuori dalla fabbrica ad aspettare che passasse il principale e chiedere di venire assunto. Tutti i giorni c’era un gruppo di persone che si presentava davanti ai cancelli. Poi c’era anche la distribuzione di un pacchetto settimanale di frattaglie, lardo e altro e venivano persone da tutto il circondario a prenderlo e anche in quell’occasione si presentavano al principale per essere assunti.

Il principale poi aveva dei contatti in tutte le frazioni e si informava sulle persone. I referenti erano diversi e lui faceva riferimento a questi e si fidava di loro. Tante assunzioni avvenivano perché appartenevano a famiglie numerose o che avevano particolare bisogno. C’erano anche dei referenti interni all’azienda che raccomandavano delle persone che si rivolgevano a loro.
Mio cugino Corbetta era uno di questi, era della Cisl, e mia mamma si è rivolta a lui e così sono entrato in Vismara. Prima ero andato anch’io un paio di volte davanti al cancello con mia mamma a parlare con il signor Vincenzo.
Ho iniziato a lavorare nel reparto che produceva la mortadella. Avevo quindici anni e andavano verso i sedici. Il primo giorno sono entrato alle sei del mattino accompagnato da un altro mio cugino che lavorava in quel reparto. La mortadella di Bologna allora era fatta con la carne di manzo cui si aggiungeva il grasso di maiale. Si impastava tutto a mano. C’era una prima tritatura della carne che avveniva nelle celle, poi l’impasto veniva messo in vasche molto grandi, quindi con delle sorte di forche l’impasto veniva messo nelle macchine che facevano la tritatura finale facendone poltiglia, si mescolava all’impasto il lardello tagliato a quadretti e altre frattaglie. Poi l’impasto veniva tolto a mano e si metteva in recipienti bassi e con le mani si buttava nelle macchine per l’insacco. I lavoratori con un po’ di esperienza andavano all’insacco.
In quel periodo, nel 1954, si producevano cinquecento quintali di mortadella al giorno. Si producevano molti tipi di mortadella, da quella più economica, chiamata “bianca” nella quale entrava un po’ di tutto, comprese le frattaglie, la trippa, inizialmente anche la farina che amalgamava un po’. Si diceva che era quella dei muratori, perché costava meno. Poi hanno fatto, la verde, la rossa e la oro, che allora era la migliore.
Dopo il militare mi hanno spostato al reparto ricevimento merci e sono stato lì dal ’61 al ’72. Poi sono stato operato di ernia al disco e quindi, non potendo più fare quel lavoro, sono stato trasferito al disosso, nel reparto preparazione delle carni e sono rimasto fino a quando sono andato in pensione nel 1992.
Vismara commercializzava i formaggi, ma l’azienda era molto diversificata. Aveva la chimica, i mangimi, aveva iniziato anche a fare la colla con gli scarti del suino. L’unica cosa del maiale che non si lavorava in Vismara era il pelo.
La concezione di Vismara era che i lavoratori dovevano stare in fabbrica da mattino a sera. Inizialmente la sede della mensa era sotto una tettoia e potevano andarci sono coloro che abitavano ad almeno due chilometri di distanza, io ad esempio non ci sono mai andato. Poi hanno costruita quella nuova collegata con un tunnel. Venne realizzato sul finire degli anni Cinquanta. L’intenzione di Vismara era che sotto il tunnel fossero posizionati anche gli spogliatoi e infatti ad un certo punto ci sono delle rientranze dove vennero posizionati gli armadietti. C’era chi lo utilizzava, ma ben presto la cosa non funzionò. Il tunnel c’è ancora. Io non ci sono mai passato.
In azienda il clima era abbastanza familiare, dove si poteva scherzare. Però molto dipendeva dai capireparto. Non c’era un grosso controllo. Si facevano molti straordinari. Il mio primo giorno ho iniziato alle sei e mi sono fermato alle 12,30. Poi si riprendeva alle 13,30 e si andava avanti fino a sera, ma c’era gente che si fermava fino alle 20,30. Le giornate erano infinite, anche se non c’era una grossa pressione. Chi entrava alle sette era considerato un lazzarone. Mi ricordo un lavoratore che una mattina si è sentito male ed è arrivato in fabbrica alle 7,30 ma venne rimandato a casa, non perché non stava bene, ma perché si era presentato in ritardo. L’orario normale era di dodici ore e tante volte si lavorava anche il sabato.
Gli straordinari generalmente erano pagati fuori busta.
In un’epoca in cui si recuperavano anche le corde usate perché costavano, la manodopera era il costo minore.
Il signor Vincenzo girava in continuazione nei reparti. Non si è mai chiuso in ufficio.
La Vismara aveva anche un’impresa edile, si chiamava “Vincenzo e Luigi Vismara”, con una gestione separata,  ed è arrivata ad avere 180 dipendenti. Quando questa è stata sciolta tutti i dipendenti sono stati assorbiti nel salumificio. Questa faceva tutti i lavori di ristrutturazione interna, ha costruito l’intero villaggio Vismara.
L’ambiente di lavoro era nocivo. Nel mio reparto si lavorava a mani nude nella pasta gelata che arrivava dalle celle frigorifere. Si tagliava l’impasto con le mani per cui lì accanto c’era una bacinella con l’acqua calda per evitare che le dita congelassero eppoi con le mani calde era più facile tagliare l’impasto. In tutto il salumificio c’era umidità. Nel settore dei salami, in macelleria si stava sempre in un ambiente umido e con le mani sempre impastate di grasso. Il lavoro più asciutto era quello delle spedizioni, anche se a volte anche loro dovevano preparare i pezzi di carne usando le mani. C’erano poi le celle frigorifere di congelazione dove si conservava la carne che arrivava da diverse parti. Molta arrivava dall’Argentina. I camion venivano scaricati a mano e la carne trasportata sulle spalle. Era quarti di carne già congelati contenuti in sacchi di iuta che una volta scaricati dai camion venivano messi in cella. Da lì venivano tolti  e lavorati nell’anti cella, dove la carne veniva tritata prima di uscire nel reparto di lavorazione, e dove si mantenevano i due, tre gradi e delle persone ci stavano tutto il giorno.
Infortuni ne accadevano per il grande uso di coltelli, poi c’era il rischio di scivolare per la grande umidità, si usava la segatura sui pavimenti, ma si bagnava quasi subito e non era mai asciutta. C’è stato anche un morto per un coltello che è scappato nel disossare la carne e si è tagliato l’aorta. Parecchi si sono bucati la pancia. Ci sono persone che hanno perso un braccio, la mano nelle impastatrici.
L’attenzione alla sicurezza e l’introduzione delle protezioni, l’uso di guanti, è arrivato molto dopo. E’ stato a partire dal ’66 che si è cominciato a sistemare un po’ le cose.

Reparto donne. L’idea era che le donne non dovessero lavorare con gli uomini. Allora lo consideravamo come un fatto naturale. Qualche perplessità sorgeva quando si vedevano delle cose inconcepibili. Ad esempio, quando si dovevano portare delle merci in quel reparto bisogna lasciarla fuori, aspettare che arrivasse la capo reparto o una persona che mandava lei. Era una cosa fuori dal mondo, ancora negli anni ’70.
Si sapeva che esisteva un reparto di questo tipo, ancora prima di entrare in azienda. Era una consuetudine che tutti conoscevano e quindi sembrava un fatto normale.
Le donne avevano un ingresso riservato in fabbrica. Loro non passavano dal portone principale ma da una porta laterale con alcuni gradini riservata a loro, sulla curva della strada.
In mensa venivano insieme, ma erano poche.

Ho fatto un ritiro spirituale, una sola volta. Tutti gli anni chi voleva andava per tre giorni a Triuggio a fare un ritiro spirituale, erano fatti in quaresima. Era anche il periodo in cui si lavorava meno, per il naturale calo della produzione di salumi in quel periodo. Uno degli organizzatori era Corbetta. L’azienda si preoccupava dal trasporto. Si mangiava e dormiva là e l’azienda pagava le giornate come si fosse al lavoro. Partecipavano quasi tutti, ma non c’era un obbligo, ma in fondo si riposava per tre giorni, retribuiti, e quindi erano in molti coloro che ci andavano. E molti ci andavano tutti gli anni.
Tutte le sere alle cinque, in tutti i reparti si diceva il rosario. C’era una persona che lo diceva in ogni reparto e c’era anche uno che girava nei vari reparti a farlo recitare.

In paese c’era una buona opinione di Vismara, forse perché dava da lavorare a tutti. Solo molto più avanti sono sorte opinioni diverse. Con alcune frazioni, i cui contadini fornivano il bestiame, i vitelli, alla Vismara, aveva un rapporto particolarmente stretto e aveva assunto proprio tutte le persone che ci abitavano. In altre il legame era meno stretto.
Teneva conto delle famiglie numerose di cui assumeva i figli appena in grado di lavorare.
In azienda lavoravano molti più invalidi di quanto non prevedesse la legge.

Chi entrava prima delle sette aveva un pezzo di salame o di bologna da mangiare nei reparti verso le nove. Nei reparti si mangiava. Vismara era solito dire che gli operai gli mangiavano due suini al giorno. C’era anche da bere. Si beveva il marsala che si metteva nella prosciuttella, una mortadella con dentro pezzetti di cotto. L’impasto era fatto in una madia lunga e tutto era impastato a mano e mentre si girava l’impasto veniva versato il marsala. Per evitare che gli operai lo bevessero per questa operazione arrivava il caporeparto. Ma siccome tutti quei contenitori avevano un becco di scarico, loro mettevano un recipiente sotto per recuperarlo e berlo.
Dalla cantina salivano dei secchi di vino e c’era anche gente che si ubriacava. A coloro che lavoravano nelle celle veniva dato il vino per vincere il freddo. 
Per i capi reparto e i responsabili venivano preparati dei pacchetti, delle buste di affettati, che gli autisti consegnavano direttamente a casa loro. Contemporaneamente li portavano alle suore e ad altri in paese.
In certi momenti per invogliare le persone a fare gli straordinari venivano distribuiti dei pacchetti come incentivo a rimanere oltre l’orario. C’erano anche altri pacchetti che premiavano un particolare impegno sul lavoro. Quando ho dovuto sostituire il responsabile del ricevimento merci che era assente è venuto da me il signor Vincenzo e mi ha detto di andare dal “corona” (Mario) a prendere un pacchetto la stessa sera. (Lo chiamavano così perché andava in giro tutti i giorni a far recitare il rosario)
Più avanti, nel periodo degli scioperi, veniva dato un premio di 500 lire a chi non li faceva. Si metteva davanti al cancello e la sera stessa glieli consegnava personalmente. Per un certo periodo coloro che non scioperavano ricevevano un chilo di burro.
Le 500 lire venivano anche distribuite nei reparti, il signor Vincenzo si riempiva le tasche di monete e girava nei reparti regalandole a chi riteneva se li meritava.

Nel contratto del 68, coloro che non scioperavano andavano in mensa utilizzando il tunnel che per l’occasione era tornato in auge. Noi l’abbiamo saputo e li abbiamo aspettati davanti alla mensa e abbiamo spaccato tutti i vetri con le pietre.
Durante il rinnovo contrattuale del ‘72 lo scontro fu molto duro perché Vismara era il presidente degli industriali e quindi nella sua azienda si concentrava lo scontro e lui non voleva cedere. Anche perché nel rinnovo precedente, quando presidente era il concorrente Negroni, lui lo aveva criticato per avere concesso troppo. Si facevano scioperi articolati a singhiozzo, il blocco delle merci, si stava di notte con i falò accesi sul cancello, si facevano i picchetti.
Qualche volta abbiamo fatto degli scioperi improvvisi e alcuni maiali sono rimasti in caldaia e si è dovuto buttarli.
Nello scalo ferroviario di Besana arrivava molta merce, anche la carne dall’Argentina. Normalmente quando c’erano vagoni da scaricare un camion portava gli operai alla stazione e poi andava a riprenderli quando avevano finito. Una volta, in occasione di uno sciopero degli straordinari, questi hanno interrotto lo scarico all’orario previsto per lo sciopero. Allora è andato alla stazione il signor Vincenzo per dire di finire il lavoro, ma gli operai hanno detto che loro erano in sciopero e sono scesi dal vagone, allora il signor Vincenzo li ha lasciati a piedi e hanno fatto i tre chilometri per tornare in fabbrica a piedi. Quando sono arrivati in paese sono stati accolti come “eroi” con grida e applausi.
Un giorno sul piazzale c’era un rimorchio e la gente esagitata ha cominciato a spingerlo. Questo, siccome la strada è in discesa, ha iniziato a muoversi e rischiava di travolgere automobili e case. Fortunatamente alcuni sono riusciti a farlo sterzare e evitare che scendesse lungo la discesa e succedesse un disastro.
Lo spaccio è nato nel ’73 sulla base di una rivendicazione sindacale. Nel luogo dove c’è lo spaccio allora nel piano inferiore c’era un magazzino vuoto che Vismara non utilizzava più, mentre in origine conteneva i formaggi, e sopra c’era la mensa.

Quatela è arrivato dopo il contratto del ‘72. Ha rimesso ordine in azienda facendola diventare un’azienda più moderna.

Quando hanno ceduto la Vister, si è parlato anche di vendere l’azienda ad una società inglese.