domenica 24 maggio 2020

CLAUDIO POLETTI - Breda T. – Sesto San Giovanni (Mi)

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Dall’oratorio alla fabbrica. Il sindacato bianco nella Stalingrado d’Italia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007

Sono nato a Osio Sotto, in provincia di Bergamo, il 27 gennaio 1948. Mi sono trasferito a Cinisello Balsamo nel 1959 dove vivo tuttora.
Ho frequentato la terza media da ragazzo e mi sono diplomato come perito elettrotecnico, a più di quarant’anni nel 1990.

La prima esperienza di lavoro l’ho fatta nel 1963, in un’azienda metalmeccanica di Cinisello, dove sono rimasto per un anno. Poi sono andato alla Tonolli di Paderno Dugnano, quindi in un’azienda di impianti elettrici di Milano e, infine, in Breda, all’inizio del 1971.
Ho cominciato come fresatore, ma in Tonolli sono stato assunto come elettricista manutentore e quello è sempre stato il mio lavoro. Sono rimasto in Breda fino al 1989. Quando si è trasferita a Legnano, mi sono dimesso e ho cambiato diverse aziende fino a quando sono stato assunto al Cesi, società dell’Enel, e ci sono rimasto fino alla pensione nel 2001.

Il sindacato l’ho incontrato in Breda. Era il periodo delle grandi lotte operaie, con una forte tensione alla partecipazione. Ho cominciato a respirare quel clima, ascoltavo i miei compagni, leggevo.
Io avevo una coscienza religiosa formata in oratorio e venivo da due anni di esperienza di comunità, nel gruppo dei Piccoli fratelli di Gesù di Charles de Foucault. Era un gruppo parrocchiale che sperimentava un’adesione più radicale al vangelo, di condivisione e vicinanza con i poveri, gli emarginati. Mentre cominciavo ad avvicinarmi al sociale, partecipavo a un percorso di contestazione ecclesiale, dall’interno della Chiesa. Ho incontrato don Cesare Sommariva, prete operaio, e ho imparato a conoscere la voglia di emancipazione della classe operaia.
In Breda c’erano altri lavoratori che vivevano con me questo momento di grande sensibilità sociale. Un giorno uno di questi mi propose di fare il delegato. La figura storica della Fim Cisl in azienda, Angelo Locatelli, era un cinisellese, mi conosceva e anche lui mi spingeva a impegnarmi. Così ho accettato.
Non conoscevo praticamente nulla di sindacato e sapevo poco delle differenze tra Fim, Fiom e Uilm. Mi sono iscritto alla Fim, ma ho subito sostenuto l’idea dell’unità e ho sempre lavorato per quella. 
Sono stato delegato fino a quando ho lasciato la Breda. Ho partecipato a diversi corsi di formazione. Io stesso mi sono impegnato nella formazione, organizzando i corsi per le 150 ore e, nel gruppo dei formatori della Fim, i corsi per nuovi delegati insieme a Walter Passerini. Sono stato nell’esecutivo del cdf e nel direttivo provinciale della Fim.

In occasione della rottura della Flm, ho continuato ad avere uno spirito unitario, perché l’ho considerata una divisione per cause politiche, utile al Pci e non dovuta a questioni sindacali né a quanto accadeva in fabbrica. Non ci era permesso affrontare le questioni aziendali divisi. Facevano male i cartelli, i manifesti, i volantini firmati separatamente e la gente che non ci capiva, perché era una battaglia tra sigle. Col tempo mi sono sempre più legato alla Fim perché la vedevo più libera rispetto alle scelte politico-partitiche o ideologiche.
Anche in fabbrica ci sono stati momenti di divisione, c’erano persone della Fiom che interpretavano quelle vicende come me, con cui avevo una certa affinità, ma c’erano altri che non capivano il rischio della deriva verso il partito.
Il Pci era organizzato in fabbrica, ma la sua azione era molto sommersa. Si riunivano nella cellula dopo il lavoro e non intervenivano direttamente su questioni aziendali, anche perché gli uomini della Fiom erano gli stessi del Pci.
Nella Fim, solo Locatelli faceva riferimento in termini organici alla Dc, era anche segretario di una sezione a Cinisello, era un uomo che veniva dalla Resistenza combattuta tra i partigiani cattolici e certo non si tirava indietro se c’era da contrastare il Pci anche in fabbrica. Ma non c’era una presenza organizzata democristiana. Ho avuto dei contrasti con lui, ma senza mai rompere.
Quando siamo diventati Ansaldo non abbiamo capito il perché di certe scelte, la valorizzazione di alcuni impianti rispetto ad altri. Emergevano i campanilismi, ma non era solo un fatto territoriale, alla fine si capiva che le decisioni erano romane, determinate dalla politica. Allora ci dicevamo che era inutile fare delle battaglie tra di noi, quando in realtà le decisione erano già state prese altrove.
Più volte, però, è successo che dopo aver raggiunto in consiglio di fabbrica delle conclusioni condivise, più tardi le posizioni cambiavano perché c’erano degli interventi esterni che portavano alcuni della Fiom o della Uilm a differenziarsi. Erano persone schierate politicamente e venivano a dirci che era meglio cambiare, non fare alcune battaglie, fare altro. Si capiva che la decisione veniva da fuori e la cosa che mi dava molto fastidio.
I rapporti tra Fim e Fiom sono sempre stati dialetticamente forti, soprattutto con la vecchia generazione, ma senza mai scontri. Qualche tensione più aspra c’è stata con alcuni giovani, credo essenzialmente per ignoranza, perché non si rendevano conto della complessità delle situazioni, che coinvolgevano non solo il sindacato ma le forze politiche, il governo, il clima generale del paese. Ma era un fatto di poche persone.
Scontri duri, invece, ci sono stati con alcuni lavoratori che facevano parte dei gruppi extraparlamentari. In fabbrica c’era una presenza abbastanza significativa di Lotta continua, Autonomia operaia e altri. Nelle assemblee si facevano sentire e il conflitto era aperto, ma non ci sono mai stati episodi di violenza esplicita. Regolarmente esponevano tazebao pieni di ingiurie. Il mio nome non è finito sui cartelloni, ma in assemblea mi hanno accusato più volte di essere venduto.

Eravamo quattro consigli di fabbrica diversi, con tre aziende: Termo, Italtrafo e Fucine che facevano capo alla Finmeccanica, e la Breda Siderurgica che apparteneva al gruppo Finsider. In Viale Sarca i 4 cdf si coordinavano tra di loro e gli esecutivi si riunivano periodicamente. Si agiva sempre insieme e le iniziative contrattuali e politiche erano comuni.     
In occasione dei rinnovi contrattuali nazionali andavo nelle piccole fabbriche a fare le assemblee e spiegare la piattaforma. Durante alcune vertenze non riuscivo a dormire di notte per la preoccupazione. Il blocco delle merci, ad esempio, era un momento di tensione molto alto con gli autisti, che non facevamo passare. Anche con gli impiegati si creavano spesso tensioni. In Breda Termomeccanica eravamo quasi 2.000 persone, circa 600/700 delle quali impiegati e non c’era moto feeling con loro.

All’inizio degli anni ’80 ho cominciato a percepire l’attenzione sulle aree della Breda e l’azione dell’amministrazione comunale interessata al loro destino. Ma a determinare il futuro del territorio erano le scelte aziendali che poi ricadevano su Sesto. Quando emersero le prime difficoltà e iniziarono le chiusure e i trasferimenti, la solidarietà dell’amministrazione ci fu, ma si capì ben presto che non si sarebbe andati oltre. “Bisogna salvaguardare il Sud. Ci sono gli impianti di Napoli. Non facciamo la guerra tra poveri” ci dicevano, e noi assistevamo alla chiusura e al trasferimento di interi reparti, perché Milano poteva fare a meno di un’azienda come la Breda, mentre a Bari o a Napoli un’eventuale chiusura sarebbe stata drammatica.
Nello stesso periodo era iniziata la cassa integrazione e questo aveva scaldato il clima anche tra di noi. Vennero estromessi i più anziani ma anche le persone più attive, tra cui anch’io. L’obiettivo era la riduzione del personale, il decentramento dei lavori più dequalificati e lo svuotamento di alcuni reparti, con il trasferimento delle macchine e la liberazione di alcune aree. La riorganizzazione prevedeva l’arrivo di altre aziende collegate, come l’Italtrafo, ma contemporaneamente si riduceva la base produttiva.

Negli spogliatoi della Breda Termo, sopra i mobiletti, abbiamo trovato dei volantini delle Brigate rosse. Gli spogliatoi erano accessibili a tutti, anche da fuori. Era facile confondersi con gli operai che entravano. Ne abbiamo trovati anche sul ponte della Breda, tra il metrò e l’ingresso, oppure all’esterno dei cancelli. L’obiettivo della loro azione era quello di impedire la mediazione, il confronto tra lavoratori e azienda e di andare a uno scontro duro. Una cellula si era formata alla Breda Fucine e tra di loro c’era Raffaele Fiore, uno dei rapitori di Moro. Avversavano l’azione sindacale perché considerata troppo remissiva rispetto all’organizzazione del lavoro, la nocività, i turni. Volevano un’azione più dura.
In occasione del rapimento di Moro è toccato a me fare il giro dei reparti con il megafono per bloccare la produzione e scendere in sciopero. Noi avevamo una persona sempre presente nella saletta del cdf per rispondere a ogni necessità e quella mattina il coordinatore dell’esecutivo ero io. Ho ricevuto la telefonata dal sindacato provinciale che mi avvisava di quel che era successo, dicendomi che si doveva fermare la fabbrica. Si è bloccato tutto subito e la gente è uscita immediatamente sui cancelli.

Agli inizi degli anni ’70, mentre avevamo una vertenza aperta, si è presentato davanti ai cancelli don Luigi Oggioni. Mi ricordo che ha detto: “Ho sentito suonare le vostre campane e sono venuto a vedere, e ora sono qui con voi”. Indossava un maglioncino bianco. Con lui si stava volentieri a parlare. Abbiamo fatto qualche celebrazione eucaristica, alcuni incontri per essere supportati dalla dimensione cristiana sul lavoro. Poi è stato trasferito.