Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Dall’oratorio alla fabbrica. Il sindacato bianco nella Stalingrado d’Italia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007
Sono nato a Osio
Sotto, in provincia di Bergamo, il 27 gennaio 1948. Mi sono trasferito a
Cinisello Balsamo nel 1959 dove vivo tuttora.
Ho frequentato
la terza media da ragazzo e mi sono diplomato come perito elettrotecnico, a più
di quarant’anni nel 1990.
La prima
esperienza di lavoro l’ho fatta nel 1963, in un’azienda metalmeccanica di
Cinisello, dove sono rimasto per un anno. Poi sono andato alla Tonolli di
Paderno Dugnano, quindi in un’azienda di impianti elettrici di Milano e, infine,
in Breda, all’inizio del 1971.
Ho cominciato
come fresatore, ma in Tonolli sono stato assunto come elettricista manutentore
e quello è sempre stato il mio lavoro. Sono rimasto in Breda fino al 1989.
Quando si è trasferita a Legnano, mi sono dimesso e ho cambiato diverse aziende
fino a quando sono stato assunto al Cesi, società dell’Enel, e ci sono rimasto
fino alla pensione nel 2001.
Il sindacato
l’ho incontrato in Breda. Era il periodo delle grandi lotte operaie, con una
forte tensione alla partecipazione. Ho cominciato a respirare quel clima,
ascoltavo i miei compagni, leggevo.
Io avevo una
coscienza religiosa formata in oratorio e venivo da due anni di esperienza di
comunità, nel gruppo dei Piccoli fratelli di Gesù di Charles de Foucault. Era
un gruppo parrocchiale che sperimentava un’adesione più radicale al vangelo, di
condivisione e vicinanza con i poveri, gli emarginati. Mentre cominciavo ad
avvicinarmi al sociale, partecipavo a un percorso di contestazione ecclesiale,
dall’interno della Chiesa. Ho incontrato don Cesare Sommariva, prete operaio, e
ho imparato a conoscere la voglia di emancipazione della classe operaia.
In Breda c’erano
altri lavoratori che vivevano con me questo momento di grande sensibilità
sociale. Un giorno uno di questi mi propose di fare il delegato. La figura
storica della Fim Cisl in azienda, Angelo Locatelli, era un cinisellese, mi
conosceva e anche lui mi spingeva a impegnarmi. Così ho accettato.
Non conoscevo
praticamente nulla di sindacato e sapevo poco delle differenze tra Fim, Fiom e
Uilm. Mi sono iscritto alla Fim, ma ho subito sostenuto l’idea dell’unità e ho
sempre lavorato per quella.
Sono stato
delegato fino a quando ho lasciato la Breda. Ho partecipato a diversi corsi di
formazione. Io stesso mi sono impegnato nella formazione, organizzando i corsi
per le 150 ore e, nel gruppo dei formatori della Fim, i corsi per nuovi
delegati insieme a Walter Passerini. Sono stato nell’esecutivo del cdf e nel
direttivo provinciale della Fim.
In occasione
della rottura della Flm, ho continuato ad avere uno spirito unitario, perché
l’ho considerata una divisione per cause politiche, utile al Pci e non dovuta a
questioni sindacali né a quanto accadeva in fabbrica. Non ci era permesso
affrontare le questioni aziendali divisi. Facevano male i cartelli, i
manifesti, i volantini firmati separatamente e la gente che non ci capiva,
perché era una battaglia tra sigle. Col tempo mi sono sempre più legato alla
Fim perché la vedevo più libera rispetto alle scelte politico-partitiche o ideologiche.
Anche in
fabbrica ci sono stati momenti di divisione, c’erano persone della Fiom che
interpretavano quelle vicende come me, con cui avevo una certa affinità, ma
c’erano altri che non capivano il rischio della deriva verso il partito.
Il Pci era organizzato
in fabbrica, ma la sua azione era molto sommersa. Si riunivano nella cellula
dopo il lavoro e non intervenivano direttamente su questioni aziendali, anche
perché gli uomini della Fiom erano gli stessi del Pci.
Nella Fim, solo
Locatelli faceva riferimento in termini organici alla Dc, era anche segretario
di una sezione a Cinisello, era un uomo che veniva dalla Resistenza combattuta
tra i partigiani cattolici e certo non si tirava indietro se c’era da
contrastare il Pci anche in fabbrica. Ma non c’era una presenza organizzata
democristiana. Ho avuto dei contrasti con lui, ma senza mai rompere.
Quando siamo
diventati Ansaldo non abbiamo capito il perché di certe scelte, la
valorizzazione di alcuni impianti rispetto ad altri. Emergevano i campanilismi,
ma non era solo un fatto territoriale, alla fine si capiva che le decisioni
erano romane, determinate dalla politica. Allora ci dicevamo che era inutile
fare delle battaglie tra di noi, quando in realtà le decisione erano già state
prese altrove.
Più volte, però,
è successo che dopo aver raggiunto in consiglio di fabbrica delle conclusioni
condivise, più tardi le posizioni cambiavano perché c’erano degli interventi
esterni che portavano alcuni della Fiom o della Uilm a differenziarsi. Erano
persone schierate politicamente e venivano a dirci che era meglio cambiare, non
fare alcune battaglie, fare altro. Si capiva che la decisione veniva da fuori e
la cosa che mi dava molto fastidio.
I rapporti tra
Fim e Fiom sono sempre stati dialetticamente forti, soprattutto con la vecchia
generazione, ma senza mai scontri. Qualche tensione più aspra c’è stata con
alcuni giovani, credo essenzialmente per ignoranza, perché non si rendevano
conto della complessità delle situazioni, che coinvolgevano non solo il
sindacato ma le forze politiche, il governo, il clima generale del paese. Ma
era un fatto di poche persone.
Scontri duri,
invece, ci sono stati con alcuni lavoratori che facevano parte dei gruppi
extraparlamentari. In fabbrica c’era una presenza abbastanza significativa di
Lotta continua, Autonomia operaia e altri. Nelle assemblee si facevano sentire
e il conflitto era aperto, ma non ci sono mai stati episodi di violenza
esplicita. Regolarmente esponevano tazebao pieni di ingiurie. Il mio nome non è
finito sui cartelloni, ma in assemblea mi hanno accusato più volte di essere
venduto.
Eravamo quattro
consigli di fabbrica diversi, con tre aziende: Termo, Italtrafo e Fucine che
facevano capo alla Finmeccanica, e la Breda Siderurgica che apparteneva al
gruppo Finsider. In Viale Sarca i 4 cdf si coordinavano tra di loro e gli
esecutivi si riunivano periodicamente. Si agiva sempre insieme e le iniziative
contrattuali e politiche erano comuni.
In occasione dei
rinnovi contrattuali nazionali andavo nelle piccole fabbriche a fare le
assemblee e spiegare la piattaforma. Durante alcune vertenze non riuscivo a
dormire di notte per la preoccupazione. Il blocco delle merci, ad esempio, era
un momento di tensione molto alto con gli autisti, che non facevamo passare.
Anche con gli impiegati si creavano spesso tensioni. In Breda Termomeccanica
eravamo quasi 2.000 persone, circa 600/700 delle quali impiegati e non c’era
moto feeling con loro.
All’inizio degli
anni ’80 ho cominciato a percepire l’attenzione sulle aree della Breda e
l’azione dell’amministrazione comunale interessata al loro destino. Ma a
determinare il futuro del territorio erano le scelte aziendali che poi
ricadevano su Sesto. Quando emersero le prime difficoltà e iniziarono le
chiusure e i trasferimenti, la solidarietà dell’amministrazione ci fu, ma si
capì ben presto che non si sarebbe andati oltre. “Bisogna salvaguardare il Sud.
Ci sono gli impianti di Napoli. Non facciamo la guerra tra poveri” ci dicevano,
e noi assistevamo alla chiusura e al trasferimento di interi reparti, perché
Milano poteva fare a meno di un’azienda come la Breda, mentre a Bari o a Napoli
un’eventuale chiusura sarebbe stata drammatica.
Nello stesso
periodo era iniziata la cassa integrazione e questo aveva scaldato il clima
anche tra di noi. Vennero estromessi i più anziani ma anche le persone più
attive, tra cui anch’io. L’obiettivo era la riduzione del personale, il
decentramento dei lavori più dequalificati e lo svuotamento di alcuni reparti,
con il trasferimento delle macchine e la liberazione di alcune aree. La
riorganizzazione prevedeva l’arrivo di altre aziende collegate, come
l’Italtrafo, ma contemporaneamente si riduceva la base produttiva.
Negli spogliatoi
della Breda Termo, sopra i mobiletti, abbiamo trovato dei volantini delle Brigate
rosse. Gli spogliatoi erano accessibili a tutti, anche da fuori. Era facile
confondersi con gli operai che entravano. Ne abbiamo trovati anche sul ponte
della Breda, tra il metrò e l’ingresso, oppure all’esterno dei cancelli.
L’obiettivo della loro azione era quello di impedire la mediazione, il
confronto tra lavoratori e azienda e di andare a uno scontro duro. Una cellula
si era formata alla Breda Fucine e tra di loro c’era Raffaele Fiore, uno dei
rapitori di Moro. Avversavano l’azione sindacale perché considerata troppo
remissiva rispetto all’organizzazione del lavoro, la nocività, i turni.
Volevano un’azione più dura.
In occasione del
rapimento di Moro è toccato a me fare il giro dei reparti con il megafono per
bloccare la produzione e scendere in sciopero. Noi avevamo una persona sempre
presente nella saletta del cdf per rispondere a ogni necessità e quella mattina
il coordinatore dell’esecutivo ero io. Ho ricevuto la telefonata dal sindacato
provinciale che mi avvisava di quel che era successo, dicendomi che si doveva
fermare la fabbrica. Si è bloccato tutto subito e la gente è uscita
immediatamente sui cancelli.
Agli inizi degli
anni ’70, mentre avevamo una vertenza aperta, si è presentato davanti ai
cancelli don Luigi Oggioni. Mi ricordo che ha detto: “Ho sentito suonare le
vostre campane e sono venuto a vedere, e ora sono qui con voi”. Indossava un
maglioncino bianco. Con lui si stava volentieri a parlare. Abbiamo fatto
qualche celebrazione eucaristica, alcuni incontri per essere supportati dalla
dimensione cristiana sul lavoro. Poi è stato trasferito.