Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Lavoro e cristianesimo. Un problema aperto”, di Sandro Antoniazzi e Costantino Corbari, Jaca Book, Milano, 2019
Provengo da una famiglia religiosa, più praticante mia madre che mio papà. Il mio percorso di formazione è avvenuto in oratorio e in Azione cattolica. L'oratorio l’ho frequentato per parecchi anni, partecipavo ai gruppi di Azione cattolica e sono stata impegnata a livello decanale. C'era un sacerdote che mi spingeva all’impegno sociale e mi ha fatto uscire dalla logica dell'azione solo pastorale. Poi, avendo iniziato a lavorare in fabbrica a quattordici anni e toccato con mano i problemi all'interno dell'azienda, le due cose si sono sposate.
Ho fatto l'operaia in una fabbrica tessile per dieci
anni lavorando in magazzino, ma venivo spesso utilizzata per mansioni diverse.
Avevo diciassette anni e, spostandomi tra i reparti, sono diventata un po' un
punto di riferimento, così quando c'è stata l'elezione del consiglio di
fabbrica sono stata eletta. Sono stata sollecitata ad assumermi un impegno in
azienda grazie ai valori di riferimento che avevo e anche per il clima generale
che si respirava in fabbrica. Ad un certo punto l'azienda mi ha proposto di
passare all'ufficio acquisti, ma mi chiedevano di lasciare il consiglio di
fabbrica e ho rifiutato.
Mentre lavoravo ho mantenuto un contatto diretto con
il sacerdote che mi era vicino. Nel frattempo è cresciuto il rapporto con la
Cisl e il sindacato. Ho iniziato a lavorare nel ‘70, sono entrata nel direttivo
tessili nel 1974. In quegli anni molti della Cisl militavano anche in partiti
extra parlamentari e la mia provenienza a volte mi ha causato qualche disagio.
Problemi superati grazie alla reciproca conoscenza. La stima è cresciuta nel
rapporto personale e anche le competenze professionali mi hanno aiutata ad
andare oltre le incomprensioni.
La scelta della Cisl in fabbrica è dovuta
soprattutto alla stima verso l'operatore che ci seguiva anche se sicuramente
l'ambiente della mia formazione ha fatto la sua parte. In fabbrica era presente
una cellula del Partito comunista e in alcuni reparti era maggioritaria la
Cgil, con loro non ho mai avuto difficoltà e ci misuravamo sul consenso. Le
diverse provenienze emergevano sulle questioni più ideologiche.
Mentre ero impegnata in azienda ho continuato a
frequentare l'oratorio, fare catechismo e partecipare alle attività dell'Azione
cattolica. I temi del lavoro però non erano quasi mai al centro dell'attenzione
e venivo considerata un po’ lontana, staccata rispetto al loro mondo.
Il crescere degli impegni sindacali mi portava ad
allontanarmi sempre più da quelli di carattere pastorale. In parrocchia ho
cominciato ad essere criticata. Quando nel 1979 abbiamo attuato una lotta molto
dura, con un picchetto forte, c’è stato un giudizio del preposto di Rovellasca
molto pesante nei miei confronti e questa cosa mi ha fatto molto soffrire. Una
fatica che dentro il mio mondo ho spesso vissuto, dovendomi quasi giustificare
per ciò che facevo.
Mentre nel mondo del lavoro ero impegnata a
sostenere il punto di vista di una credente rispetto al modo di agire, dentro
la comunità cristiana qualcuno mi criticava. Nella comunità parrocchiale spaventava
la mia militanza. Davano fastidio il sindacato, gli scioperi, i comunisti.
C'erano già alcune esperienze di pastorale del
lavoro, si pregava in fabbrica, io ho provato anche ad avvicinarmi alla
pastorale. Leggendo i documenti ufficiali della dottrina sociale della Chiesa
però io mi ritrovavo molto, anche se l’idea della terza via, misurata con la
concretezza della realtà, mi sembra sempre molto teorica. Però in generale quel
pensiero mi faceva dire che era giusto quello che stavo facendo.
Ho letto i libri di don Milani o di figure come la
Giorgio Pira, anche Simone Weil, Delbrel, Mazzolari. In queste letture trovavo
una consolazione, una ragione al mio impegno. Nel sindacato ho conosciuto dei
preti operai e ho partecipato a dei momenti di formazione con alcuni di loro.
Tra gli operatori dei tessili, inoltre, c'erano alcuni dei ragazzi di Barbiana.
L'idea che dentro la Cisl si potesse organizzare una componente caratterizzata
dall’essere cristiani l’ho sempre considerata non possibile.
Ho sempre pensato che nella comunità cristiana ci
dovessero essere spazi di riflessione sui temi attinenti il mondo del lavoro
dove si potesse trovare il modo di crescere per poter poi confrontarsi sulle
questioni di fondo con tutti. La mancanza di spazi di riflessione per potere poi
dialogare con gli altri è una carenza che è tuttora presente nella comunità
cristiana. Perché se hai delle idee dialoghi, se non ne hai ti chiudi.
Ho vissuto direttamente il problema del contrasto
con la Chiesa sul tema del lavoro domenicale e del lavoro notturno delle donne.
Ho fatto anche diversi accordi sindacali che contemplavano queste modalità di
lavoro. Ricordo un accordo sindacale, che secondo me ha ottenuto dei risultati
positivi, che prevedeva il lavoro domenicale e un orario settimanale di
trentadue ore con quaranta assunzioni alla Saati di Appiano Gentile. Un
accordo, presentato con undici assemblee di reparto fatte nello stesso giorno,
che le donne hanno molto apprezzato e che prevedeva quattro giorni di lavoro e
tre di riposo. Un’ottima intesa che ha trovato l'opposizione dei parroci e del
mondo cattolico della zona. In quel momento non avevo più impegni di carattere
pastorale e quindi non ho avuto modo di confrontarmi direttamente nella mia
parrocchia su questa questione. Difficilmente comunque sarei stata chiamata a
un confronto su questo tema. Con di mezzo le aziende non volevano schierarsi.
In un'altra situazione, quando in un'azienda si è
posto il problema del lavoro domenicale, mentre noi stavamo facendo la
trattativa, una dirigente dell'azienda, espressione del mondo cattolico,
passava tra i lavoratori dicendo di rifiutare l'intesa. Il tema del lavoro
domenicale si è poi generalizzato e tra le voci più critiche si è alzata quella
di monsignor Ersilio Tonini, poi cardinale. Con lui ci siamo confrontati anche
in un convegno.
Nel 1978 ho fatto un primo distacco sindacale e nel
1980 ho lasciato definitivamente la fabbrica per il sindacato. Il mio è stato
un percorso lineare e sempre più convinto. Man mano che l'esperienza cresceva e
mi accostavo ai problemi delle persone mi rendevo conto che il sindacato era
fondamentale, che non era vero che se non c'era qualcuno che tutelava i tuoi
interessi andavi avanti lo stesso. Questo aspetto faceva crescere in me la
convinzione della bontà di un impegno.
Dopo i sei anni nel consiglio di fabbrica, sono
entrata nella segreteria dei tessili di Como, poi nella segreteria regionale
dei tessili, infine ho lasciato il sindacato e per quattro anni dal ‘94 al ‘98
sono stata il direttore della Fondazione San Carlo.
È stata un po' una sfida con me stessa e qualche
volta mi sono chiesta se ero lì perché ci credevo davvero oppure perché non
sapevo che cos’altro fare. Questa esperienza mi ha aiutato a prendere
consapevolezza che il sindacato è una grande scuola.
Lasciando il sindacato mantenevo comunque un mio
impegno a favore degli altri, dei più bisognosi, dei poveri e alla Fondazione
San Carlo ho incrociato una realtà di immigrati senza tutele e con infiniti
problemi.
Abbiamo realizzato molti interventi come il
pensionato Belloni per dare un tetto a chi aveva il lavoro ma non una casa,
passavo intere giornate in cantiere in via Fulvio Testi. Abbiamo sperimentato
la scuola bottega, fatto esperienze di micro credito.
Questa operatività cozzava però con la mancanza di
un collegamento con le ragioni del proprio agire, era come se lo facessi per
me, c'era don Virginio che ogni tanto ricordava le motivazioni della nostra
attività, ma erano più che altro degli spot, non c'era continuità. Il contesto
era quello della diocesi guidata dal cardinale Martini, tuttavia le motivazioni
di quell'impegno arrivavano in gran parte dalle esperienze e dalla formazione
personale, non c'erano momenti organici di arricchimento.
Dopo quattro anni sono tornata a Busto Arsizio, ho
fatto il segretario generale dei tessili della zona e poi dei tessili chimici,
quindi nel 2004 sono entrata in segreteria della Cisl di Varese e quindi sono
stata eletta segretario generale dal 2006 al 2014.
Quando ho lasciato definitivamente il sindacato, e
non è stata una passeggiata, mi sono trovata dalla sera alla mattina senza
un’attività precisa. Avevo però l'esigenza di continuare a impegnarmi in un
ambito che mi portasse vicino ai bisogni delle persone. Le Acli mi hanno subito
catturata e siccome la loro proposta era in continuità con quello che avevo
sempre fatto ho accettato e ho iniziato a collaborare come volontaria nel
patronato Acli a Saronno.
Ora sono nella presidenza provinciale delle Acli di
Varese e presidente di zona e per quattro anni sono stata impegnata nella
pastorale del lavoro diocesana. Mi sono anche candidata a sindaco ma avendo
perso le elezioni guido l'opposizione.
Mentre ero in Cisl a Varese tutte le settimane
praticamente ero invitata in qualche parrocchia, eravamo in piena crisi, il
lavoro mancava ed era tornata un po’ di attenzione dei parroci, ma col
superamento dei momenti più difficili e l'avvio alla ripresa l'attenzione è
andata via via scemando.
Dal punto di vista più strettamente ecclesiale il
cambiamento che si nota nei ragionamenti credo sia dovuto essenzialmente al
Papa, perché sulla dignità del lavoro Papa Francesco torna più volte, anche se
più in chiave planetaria. Non perde occasione per riaffermare il tema del
lavoro e della giustizia. Il problema vero è che queste riflessioni rimangono
lì e non si trasferiscono a livello della Chiesa locale. Una diocesi come la
nostra dovrebbe avere ben altro impegno sul tema del lavoro, mentre oggi
abbiamo una serie di momenti separati. E’ la politica del prezzemolo. Manca una
lettura della pastorale del lavoro di cosa sia oggi il mondo del lavoro anche
in Lombardia, siamo rimasti alla giornata della solidarietà, alla veglia.
Le motivazioni dal punto di vista cristiano sono
quelle che danno fondamento e che alimentano il pensiero. I cattolici presenti
nella realtà sociale oggi che pensiero esprimono? Credo ci sia bisogno di
tornare a riflettere sulla centralità della persona in un mondo del lavoro come
quello attuale, però questo non si può fare a slogan o con reazioni di pancia.
Chi lo può fare oggi?