sabato 1 agosto 2020

GIANNI QUOLIBETTI - Flaei – Milano, Lombardia

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Impegno e passione. Gli anni caldi della Cisl in Lombardia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016

 

Sono nato il 28 aprile del 1944 a Premia, allora in provincia di Novara, oggi nella provincia di Verbania Cusio Ossola. Sono diplomato geometra frequentando la scuola serale.

La nostra era una famiglia religiosa, mia mamma moltissimo, mio papà pure anche se in un suo modo molto riservato. Io ho avuto una educazione religiosa. Mio papà ha fatto il servizio militare durante la seconda guerra mondiale, ma per una disavventura accaduta subito all'inizio in uno scontro con i francesi è finito in ospedale e ha evitato tutte le peggiori vicende successive. Alla fine della guerra ha ripreso il suo lavoro, faceva i turni in una centrale idroelettrica. 

Era un attivista della Cgil ed era fiduciario sul posto di lavoro e mi ricordo che venivano in casa dei lavoratori a prendere le tessere e i bollini e lo ha fatto fino al 1956 quando, in seguito alle vicende dell'Ungheria, ha lasciato. Era un socialista convinto e durante la campagna elettorale del 1953 gli attivisti della Dc affiggevano dei manifesti sotto casa nostra perché, pur essendo una persona che non si metteva in mostra, tutti conoscevano le sue idee che lui professava chiaramente.

Dopo le elementari ho frequentato una scuola professionale di quattro anni a Voghera, che si chiamava “Monumento ai caduti”, un centro Inapli finanziato dalle società del gruppo Edison che contribuiva con i materiali e le attrezzature, dove ogni anno l'azienda inviava diciotto ragazzi figli di dipendenti del gruppo. Mio papà lavorava alla Edison Volta che aveva sede a Milano e aveva le centrali in Val d'Ossola, Valchiavenna, Val Camonica e Trentino. Facevano una selezione a Milano di trentasei ragazzi che avevano concluso la quinta elementare con test attitudinali fatti all'Università Cattolica e diciotto selezionati venivano inviati a Voghera e altri diciotto in una scuola simile, la “Necchi” di Pavia. Il corso durava quattro anni e c'erano classi per falegnami, elettricisti e meccanici. Io ho frequentato il corso per elettricisti, i primi due anni di formazione generale e i successivi due di specializzazione. A conclusione del corso i ragazzi venivano inseriti in azienda. Ho fatto dei nuovi test attitudinali e mi hanno proposto l'assunzione a Milano anziché in una centrale elettrica vicino a casa. Il 1° ottobre del 1959 sono stato assunto come apprendista con una borsa di studio di trentamila lire al mese, oltre a quattrocento lire al giorno perché ero fuori casa. Chi rientrava in famiglia invece ne riceveva duecento.

Sono arrivato a Milano il 30 settembre e il pomeriggio alle cinque ancora non sapevo dove sarei andato a dormire perché era il centro addestramento Edison che si preoccupava di trovare il luogo dove alloggiare. Per me avevano trovato una sistemazione agli Artigianelli dei Pavoniani che però sarebbe stata pronta solo il mese successivo e quindi sono stato costretto a trovarmi una soluzione provvisoria e ho dormito per un mese da una vecchia signora in via Messina. Avevo quindici anni e mezzo e doversi trasferire a Milano per lavorare è stato difficile e ricordo di aver pianto a lungo. A Milano avevo un appuntamento già fissato per una visita di controllo dal cardiologo e poi sono finito in via Carducci, in un ufficio disegnatori dove si facevano gli schemi elettrici a supporto delle centrali. Dopo l'anno di apprendistato, il 1° settembre del 1960 sono stato assunto definitivamente.

Poco dopo c'è stata la nazionalizzazione dell'energia elettrica e nel 1963 Edison è diventata gestione per conto Enel. L'attività per me è sempre stata la stessa ed è cambiata solamente quando sono andato avanti a studiare, ho fatto prima le medie e poi ho preso il diploma di geometra alla scuola serale e quindi ho cambiato un po' il tipo di lavoro, dedicandomi meno alla parte elettrica e più alla parte strutturale.

Sono rimasto in quell'ufficio a fare quel lavoro fino al 1970, ‘71 quando si è intensificato l'impegno sindacale.

 

Sono sempre stato interessato alle vicende politiche e sindacali, probabilmente quello che avevo sentito in casa aveva lasciato dei segni dentro di me. Mio padre aveva un grosso senso di giustizia. Mi ricordo le sue grandi arrabbiature quando vedeva le cose che non andavano, quando assumevano nelle centrali con i contratti stagionali le persone da marzo a novembre e poi l'anno successivo riassumevano quelle che portavano le forme di formaggio. Mi sono iscritto al sindacato l’1 gennaio del 1961 nell'ufficio di quello che era il segretario nazionale degli elettrici della Cisl, che era responsabile della biblioteca della Edison Volta che aveva sede a Milano. Fu un avvenimento perché non capitava frequentemente che si iscrivessero ragazzi così giovani al sindacato e ho scelto la Cisl nonostante mio padre fosse un attivista della Cgil. La scelta della Cisl non è stata per ragioni culturali o ideologiche, la ragione è perché lavoravo accanto a una persona con cui mi sono trovato in sintonia e che era iscritto alla Cisl anche se la maggioranza in ufficio era della Cgil, ma alla fine sono riuscito a ribaltare la situazione. Oggi ho in tasca la 55ª tessera della Cisl.

 

Nel primo periodo di iscrizione, andando a scuola la sera non ho avuto nessun incarico particolare. Il primo impegno è stato fare lo scrutatore nelle elezioni del 1965 per il consiglio del dopo lavoro e per la cassa mutua interna, in pratica appena diplomato.

Una sera del febbraio 1967 c'era una riunione sindacale, mio papà era ricoverato all'ospedale San Carlo dove era stato operato di ulcera, e non ho potuto andare. Già altre volte avevo partecipato perché ero stato invitato e il giorno dopo ho scoperto che mi avevano nominato responsabile della sezione sindacale aziendale. La zona si chiamava Enel centro e comprendeva sei o sette palazzi di uffici con 1.500 lavoratori dove la Cisl aveva circa 360 iscritti. È stata una sorpresa, ma mi hanno detto che siccome ero giovane era importante avere un incarico. La prima prova del fuoco è stata verso la fine dello stesso anno con l'elezione della commissione interna. È stata l'ultima elezione perché poi sono nati i consigli dei delegati. Per l'occasione per gestire tutta l'operazione sono stato affiancato dentro la commissione elettorale ad una persona più anziana ed esperta di me, perché serviva attenzione dato che il confronto con la Cgil era abbastanza forte. E in quell'occasione ho subito la prima fregatura. Noi ci siamo mossi subito e abbiamo presentato la lista per primi, ma non so bene per quale cavillo la Cgil è riuscita a ribaltare la situazione e quindi alle elezioni il primo nome sulla scheda è stato quello della Cgil. Il risultato però non è stato negativo perché su nove membri, otto impiegati e un operaio, noi abbiamo preso quattro impiegati e l'operaio, che era espressione di una grossa squadra di manutenzione ereditata dalla Edison Volta. Il delegato l’abbiamo strappato alla Cgil e questa è stata una soddisfazione enorme.

Pian piano ho iniziato ad essere coinvolto in tutte le iniziative interne ma anche esterne all'Enel e nei direttivi, anche se non capivo ancora bene tutte le dinamiche dell'organizzazione sindacale. Ci si trovava la sera al quarto piano di via Tadino. In occasione del congresso del 1969 sono stato eletto nella segreteria territoriale, che allora comprendeva le province di Milano, Pavia, Cremona e anche Piacenza. La Lombardia era infatti suddivisa in tre territori sulla base dei tre distretti sui quali era organizzata l'Enel. Con me in segreteria c'era Giuseppe Sala e forse anche Carlo Stelluti. Segretario generale era Brancatelli e c'erano anche Elios Goldoni, Poli e Fasani. Nel 1978 abbiamo costituito una struttura regionale con la sede in via Torino, in centro a Milano. Sono entrato a far parte della segreteria regionale con segretario generale Fiorindo Fumagalli e quando Fumagalli è stato eletto nella segreteria della Cisl regionale ho preso il suo posto a fine 1981.

La mia esperienza sindacale si è conclusa il 31 dicembre 1994. Con un'ultima fase molto difficile, con un commissariamento per le dispute che abbiamo avuto con Fumagalli. È stato un periodo difficile e per questi aspetti non credo che avessi le caratteristiche più adatte. Io ero portato a cercare di tenere insieme le persone, di unirle, ma forse non ero molto politico.

 

Nei primi anni del mio impegno sindacale in azienda avevamo il problema dell'orario, che era stranissimo: si lavorava dalle 8,30 alle 12,45, poi si riprendeva alle 14,45 fino alle 18,45. Si lavorava tutti i sabati, poi con la prima riduzione di orario lavoravamo un sabato sì e uno no. Legato al tema dell'orario c'era quello della mensa. Avevamo due ore di intervallo e si andava da via Carducci col tram 14 in via Procaccini dove c'era la mensa. Al suono della campana c'era l'assalto al tram che però non riusciva ad accoglierci tutti e quindi alcuni viaggiavano appesi fuori. Data la situazione insostenibile siamo riusciti a convincere l'azienda a fare delle convenzioni con alcuni ristoranti e self-service che c'erano intorno alla sede.

 

Sul finire degli anni Sessanta la voglia di partecipare tra i miei colleghi di lavoro è cresciuta e siamo riusciti anche ad incrementare gli iscritti alla Cisl. Abbiamo avuto anche contrasti abbastanza forti con gruppi di lavoratori interni all'azienda che si opponevano alla presenza del sindacato, persone molto moderate che non concepivano l'idea che si potessero contestare delle decisioni della direzione oppure fare richieste nuove. Per il rinnovo del contratto del 1968, per il quale tra l'altro stavamo litigando con la Cgil, abbiamo fatto qualche picchetto e con la mia macchina facevo il giro dei palazzi degli uffici a portare volantini e poi mi fermavo in via Carducci davanti all'ingresso. Molti aspettavano questo pretesto per non entrare, ma c'era chi voleva entrare a tutti i costi e ci sono stati anche dei momenti di tensione. Eravamo una realtà piuttosto vivace pur nel nostro piccolo e pur non avendo grossi problemi.

Nel 1969, però, abbiamo fatto l'occupazione della sede per ben nove giorni, dal 7 al 17 giugno. Alla fine abbiamo dovuto sgomberare perché il prefetto ha minacciato l'intervento della polizia. Durante una difficile trattativa un gruppo di Lotta comunista, presente nelle squadre operaie, aveva piazzato una tenda sullo spartitraffico e aveva iniziato lo sciopero che chiamava dei cacciaviti. Gli operai rivendicavano l'innalzamento di categoria perché facevano lo stesso lavoro dei caposquadra ed erano inquadrati come manovali. Il riferimento ai cacciaviti era a quei cacciaviti che servono per cercare la fase negli impianti elettrici. La vertenza si stava inasprendo con accuse anche nei confronti del sindacato. Noi abbiamo cercato di prendere in mano la situazione ed eravamo riusciti a mettere in piedi una trattativa, anche in questo caso non molto in sintonia con la Cgil, perché non si capiva se voleva cavalcare quella protesta oppure cercare di trovare una soluzione. A quel punto la direzione ha commesso un errore gravissimo. Eravamo al tavolo del confronto e hanno chiesto una sospensione per avviare un chiarimento al loro interno, sono usciti e non sono più tornati. L'idea dell'occupazione l'avevamo già nel caso non avessimo ottenuto risposta, ma ritrovarsi lì da soli, con questi che non si sono più fatti vedere, abbiamo deciso di non uscire. Per un certo periodo abbiamo avuto anche il sindacato nazionale che era contro perché questa cosa era estranea agli schemi tradizionali dell'azione sindacale dell'azienda, ma alla fine abbiamo ottenuto dei grandi risultati perché se inizialmente la vicenda riguardava solo Milano, siamo riusciti a coinvolgere anche gli altri distretti lombardi e infatti i lavoratori delle altre sedi e delle centrali venivano con i pullman a Milano a sostenere la nostra lotta. Una forma di protesta prevedeva di camminare avanti e indietro sulle strisce pedonali per bloccare il traffico senza un blocco formale.

 

La possibilità di fare le assemblee in azienda, la partecipazione dei sindacalisti sono state vissute come una fase di maggiore partecipazione dei lavoratori e non lo ricordo come un periodo particolarmente faticoso. Nei nuovi consigli abbiamo saputo inserire persone abbastanza equilibrate anche grazie al lavoro che abbiamo fatto in precedenza e siamo riusciti a far valere le nostre posizioni anche nei confronti della Cgil che puntava sempre ad egemonizzare l'iniziativa sindacale. Nonostante questo, era forte lo spirito unitario e quando è iniziato il percorso della costruzione dell'unità sindacale noi abbiamo pagato anche uno scotto per questa scelta, perché la nostra organizzazione nazionale era contraria e a Milano siamo stati commissariati, così come a Brescia. La posizione del nazionale non era solo competitiva nei confronti della Cgil, ma conflittuale a priori. Il nostro segretario nazionale Luigi Sironi era un monzese e, insieme a Sartori, era il grande supporter di Vito Scalia. Questi, però, erano dibattiti che nel luogo di lavoro non arrivavano. Non credo che ci fosse piena coscienza su quale fosse il livello dello scontro che era in corso nella Cisl fra Storti, Scalia, Sartori, Carniti. Forse tra di noi quelli più sensibili alle questioni politiche avevano qualche timore, ma bisogna ammettere che i nostri colleghi della Cgil erano molto bravi nel rappresentare l'esigenza di un rapporto unitario, molto più abili e scafati di noi.

Quando siamo stati commissariati siamo stati messi nell'angolo perché la controparte non voleva più neppure riceverci, perché il nostro nazionale era intervenuto e noi eravamo distaccati ma senza permessi e senza stipendio. Nonostante questo, pur con la difficoltà a svolgere la nostra attività, non abbiamo perso consenso perché avevamo costruito una rete di relazioni che in quel momento abbiamo verificato essere forte tra i lavoratori.

Tra noi di Milano e la segreteria nazionale la divaricazione sul percorso dell'unità sindacale era molto netta, mentre tra i lavoratori l'idea del percorso unitario era credibile. Credo che abbiamo commesso un errore sul piano delle regole interne, perché abbiamo assunto una delibera sul fatto di costituire il patto federativo che contrastava con una delibera nazionale e questo è stato il pretesto formale che ha messo in moto il commissariamento. Ma ciò che avevamo costruito in termini di rapporto con i lavoratori ci ha premiato e in occasione del congresso del 1973 abbiamo imposto la costituzione di commissioni paritetiche e i risultati congressuali ci hanno dato ragione e nelle aree commissariate abbiamo vinto i congressi. Anche in Lombardia c'erano aree che remavano contro e il nazionale aveva mandato a Milano il responsabile del Veneto, ma questo non è bastato e hanno perso alla grande. Per me è stata una grande soddisfazione. Anche se a livello nazionale in categoria abbiamo perso due a zero.

Credo che abbiamo sottovalutato che l'idea di sindacato che aveva la Cisl era un elemento importante e invece è partito un discorso movimentista. Un sindacato degli elettrici, non dei metalmeccanici, non può scrivere in un documento a Milano: “La lotta di classe è un fatto permanente”. Non l'ho scritto io, ma ero in segreteria e la nostra segreteria l'aveva scritto nei documenti.

Forse questo è potuto accadere anche a causa di qualche carenza nella conoscenza della storia della Cisl. Se avessimo avuto più attenzione a quegli elementi che già allora erano a disposizione dei gruppi dirigenti, invece di fare le battute sui romani quando venivano alle riunioni dei nostri direttivi, forse non si sarebbe arrivati a tanto. Secondo me abbiamo sottovalutato questi elementi anche se, presi dall'entusiasmo di quel momento, era facile dimenticarsene. E questo non a causa dell'arrivo di persone nuove, perché in quel periodo non ci sono stati molti ingressi. In Lombardia, salvo Como, Mantova e un pezzo di Cremona, con cui avevamo un confronto abbastanza aspro, era una posizione condivisa.

 

Avevamo una cassa mutua interna organizzata anche questa su tre ambiti territoriali. Io sono stato eletto nella commissione paritetica che gestiva la cassa di Milano e lì si parlava di riforma sanitaria che era uno degli elementi su cui si andavano sviluppando le lotte per le riforme. La nostra gente in azienda era preoccupata perché avevamo un servizio che funzionava con un poliambulatorio in corso Vercelli dove si andava per appuntamento, dove tra l'altro c'erano dentisti i cui costi non avevano confronto con quello che si pagava fuori. Per i lavoratori erano vantaggi significativi e l'idea che si potesse cambiare li preoccupava molto. Come rappresentanti sindacali siamo andati a fare le assemblee nei vari luoghi di lavoro per spiegare perché era importante fare la riforma sanitaria, ma non eravamo in grado di indicare con precisione che fine avrebbero fatto le nostre strutture, come si sarebbero integrate nel nuovo sistema sanitario. I lavoratori capivano, si rendevano conto che era importante costruire un sistema che garantisse un'assistenza sanitaria di base per tutti, ma poi si chiedevano perché si dovesse togliere ciò che già avevano. C'era attenzione e partecipazione, così come sul tema delle pensioni.

Anche sulle pensioni avevamo una situazione particolare, perché c'era una gestione autonoma del fondo degli elettrici e su questo c'è stata molta più opposizione perché c'era la sensazione di fare un salto nel buio. Si temeva che il superamento della gestione autonoma avrebbe comportato un abbassamento delle prestazioni. Certo non era facile convincere i lavoratori a partecipare agli scioperi generali sul tema delle riforme partendo dalla nostra condizione. Per noi è stata una difficoltà grossa, siamo andati in tutte le sedi a fare assemblee per spiegare le ragioni dell'importanza di quelle riforme, ma intanto la gente ha visto sparire i servizi di cui concretamente disponeva senza avere immediatamente a disposizione un'alternativa che pure negli anni successivi è arrivata.

 

La vertenza del cacciavite era nata sull'esigenza di un maggior egualitarismo che voleva dire che a uguale mansione doveva esserci uguale categoria. Infatti l'accordo sulla base del quale si è chiusa la vertenza era costruito proprio partendo da questa esigenza e l'intesa siamo riusciti ad applicarla in modo abbastanza diffuso nelle realtà operaie dove il problema era sicuramente più grosso. Su questo tema c'era grande attenzione perché era vissuto come un'opportunità di avanzamento, oltre che di riconoscimento della professionalità, perché c'erano elettricisti di grande capacità inquadrati come manovali semplicemente perché l'organigramma prevedeva un caposquadra e sotto di lui una serie di manovali. Il dibattito e l'iniziativa sui temi dell'egualitarismo hanno portato a una revisione dei criteri di inquadramento, arrivata però verso la fine degli anni Settanta. Un dibattito che non voleva dire tutti uguali, ma che ad uguale lavoro doveva corrispondere uguale inquadramento, tema che è stato inserito anche nel contratto nazionale e che ha lasciato spazi al confronto locale.

Avevamo un sistema di relazioni industriali molto bello sul piano dell'impostazione generale, aveva solo il difetto di essere in un'azienda centralizzata nei livelli decisionali. La nostra contrattazione aziendale era una contrattazione solo applicativa, con il risultato che essendo noi seri nella nostra azione arrivavamo ad avere delle differenze tra Nord e Sud che erano assurde, perché molto dipendeva dalla controparte che non aveva una capacità decisionale adeguata. Contestavamo il fatto che tutte le decisioni dovessero essere prese a livello nazionale, ma ci adeguavamo e quando avevamo dei problemi ci rivolgevamo al nazionale perché in qualche modo non avevamo fiducia in noi stessi, nella nostra capacità di affrontarli e risolverli. Era una contraddizione, perché ricorrendo al nazionale ci indebolivamo da soli, riconoscendo di fatto che quello era il tavolo dove si decideva.

 

L'ingerenza della politica si sentiva in particolare nella realtà delle aziende municipalizzate, un po' meno all'Enel, però si sentiva, perché se pensiamo come veniva costituito il consiglio d'amministrazione è chiaro che c'erano delle precise appartenenze politiche. Certo, nelle aziende municipalizzate questa influenza della politica si sentiva molto di più anche nelle faccende quotidiane, con preoccupanti forme di consociativismo. La presenza della politica condizionava molto l'azione sindacale e la mortificava perché le scelte erano in funzione di un rapporto clientelare. Questo portava a una grande confusione di ruoli, anche sul piano delle relazioni formali, con una clientela molto diffusa e neanche tanto mascherata. Con la conseguenza che le poche volte che il sindacato regionale o territoriale veniva chiamato in azienda, per i nostri eravamo il sindacato esterno.

A Milano avevamo una presenza significativa di Lotta comunista alla Aem e successivamente sono nati i Cub. Tra l'altro uno dei nostri, Carmelo Calabrese, un istrione bravissimo, un grande affabulatore, è diventato responsabile nazionale. Penso che il nostro gruppo dirigente nella realtà milanese, pur essendo caratterizzato politicamente, sia sempre riuscito a difendere il proprio ruolo. Personalmente non sono mai stato chiamato da nessun politico. Siamo andati nella sede della Democrazia cristiana in via Nirone ad incontrare un nuovo consigliere di amministrazione appena nominato che aveva chiesto questo incontro. Non ricordo esattamente quale fosse la questione che gli interessava, la materia riguardava il tema dell'energia e delle centrali.

Qualche volta abbiamo cercato noi il supporto delle forze politiche, come quando siamo stati commissariati e siamo stati a parlare con il Pci, la Dc e il Psi. Ripensandoci dopo forse una scelta non proprio appropriata, anche se, nel momento in cui la spinta verso l'unità sindacale era al massimo, c'era la nostra struttura che veniva messa sotto accusa all'interno della Cisl e come segreteria abbiamo pensato quantomeno di informare le forze politiche.

Con l'avvento del compromesso storico tra la nostra gente emerse un atteggiamento abbastanza critico, così come è stato abbastanza faticoso andare nei luoghi di lavoro a fare le assemblee in occasione dell'accordo dell'Eur. In quel periodo abbiamo avuto anche un infortunio. Forattini aveva fatto una vignetta in cui Luciano Lama era seduto in poltrona in un salotto mentre sotto nella strada passava il corteo dei lavoratori. Noi avevamo un giornale regionale unitario gestito da Bruno Temporiti e Carlo Veronesi e abbiamo pubblicato quella vignetta. È nato un incidente diplomatico con la Cgil e abbiamo dovuto fare un incontro con la segreteria regionale per cercare di chiarire e di medicare il guaio che era stato fatto.

 

Il rapporto con le altre categorie della Cisl non è mai stato particolarmente approfondito. A parte il tema dell'energia che ci ha portato ad un confronto con la Fim, per il resto i rapporti erano quelli normali dentro l'organizzazione. Decisamente più intensi sono stati i rapporti durante la fase del commissariamento, con una condivisione dei nostri problemi e delle nostre impostazioni da parte delle altre categorie. Mi ricordo che era venuto a portarci la sua solidarietà il grande capo della Fisba, Renzo Cattaneo, nonostante lui fosse decisamente schierato dall'altra parte. Sostanzialmente si riconosceva a questa categoria di lavoratori un po' privilegiati di essere comunque parte del movimento sindacale. Per il resto abbiamo sempre cercato di mantenere i rapporti, ma non abbiamo mai avuto grandi collegamenti.

Abbiamo fatto un tentativo di accorpamento nell'ambito delle scelte della Cisl con l'obiettivo di metterci insieme ai chimici. Era stato fatto un bel lavoro, era il 1978, '79, in vista della celebrazione dell'assemblea organizzativa avevamo costruito un percorso unitario con Federenergia per un possibile accorpamento. Un rapporto che è continuato anche se non ha portato all’unificazione. L’dea era nata perché avevamo in condominio la gestione sindacale dell'azienda di Milano, avendo Enel assorbito Edison gas, e all'interno dell'azienda avevamo il contratto degli elettrici e quello dei chimici con due rappresentanze Cisl, per cui abbiamo cercato di lavorare insieme e devo dire che abbiamo lavorato abbastanza bene.

A metà degli anni Settanta abbiamo fatto un'iniziativa comune con i metalmeccanici dopo la crisi petrolifera sul tema delle nuove centrali.

Abbiamo avuto rapporti anche con altre categorie quando a livello regionale ha lasciato Melino Pillitteri e si è aperta una fase abbastanza travagliata.

 

Abbiamo avuto alcune donne abbastanza vivaci in quegli anni, ma tre o quattro, non di più. Avevo delle perplessità quando si è trattato di stabilire una presenza femminile sulla base delle quote o quando si è dato vita al coordinamento donne, che vedevo più come elemento di isolamento che non di integrazione o coinvolgimento. Quello della partecipazione femminile era un tema presente, ma abbastanza poco sentito. All'Enel le donne erano occupate negli uffici amministrativi e nelle segreterie, nell'ufficio personale. Nel periodo in cui ero responsabile della sezione sindacale aziendale è emersa un’attivista, Leontina Revelli, che poi ha sposato Arturo Brancatelli. Era grintosa e insieme abbiamo gestito la fase congressuale del 1969 facendo un buon lavoro, puntando molto sul coinvolgimento del maggior numero di persone dei vari reparti e anche delle donne e abbiamo ottenuto degli ottimi risultati. Questo ha contribuito ad aumentare la credibilità del sindacato.

 

Mi considero fortunato per questa mia esperienza di sindacalista, perché ho fatto un lavoro che mi piaceva senza averlo scelto. Mi sono trovato ad essere coinvolto perché mi interessavano i temi sociali e sindacali, qualche volta ad essere scelto un po' di sorpresa. Mi sono trovato via via ad assumere responsabilità, ma era un lavoro che mi gratificava. E’ stato un impegno faticosissimo, un'esperienza molto intensa anche sul piano delle relazioni personali e sono quelle che spesso vengono pregiudicate quando ci sono delle dispute politiche. Però è molto ricca da questo punto di vista e penso che sia l'essenza di questo mestiere. Molti del nostro ambiente quando finiscono la loro carriera affermano che hanno avuto tanto dal sindacato, ma hanno anche dato tanto. Io non credo che sia proprio così. Sono convinto che se uno fa seriamente il lavoro del sindacalista dà tanto ma non è detto che riceva più di quello che ha dato. Quando ho lasciato ho detto che chiudevo, sono contento di aver fatto questa esperienza, ricordo con piacere tante cose, ho tanta amarezza per tanti rapporti personali finiti non bene in alcuni momenti difficilissimi e a volte un po' con cattiveria, ma poi recuperati successivamente. Ho messo tanto, ho ricevuto, ma non credo che abbia senso fare un bilancio tra il dare e avere.

Il mio gruppo di segreteria è sempre stato molto affiatato, abbiamo lavorato bene con le persone che si sono succedute negli anni, però quando ci sono dei problemi sul piano personale si pagano dei prezzi molto forti. Chi non ha ruolo dirigente questi aspetti li vive meno, è più distaccato. Mi ricordo, nei momenti più difficili, di essere a Roma da lombardo e trovarmi isolato. Ero invaso da un sentimento di malinconia, era una sensazione bruttissima.

 

Forse un po' presuntuosamente abbiamo cercato a livello milanese di sviluppare una riflessione e delle proposte sul piano dell’energia, del risparmio energetico, delle centrali. Abbiamo cioè cercato di sviluppare un ruolo che andava un pochino oltre quello che era il compito centrale della categoria. Un'altra cosa che abbiamo fatto, anche se pure quella non è che abbia poi fruttato molto, in occasione della crisi petrolifera a metà degli anni Settanta, è stata quella di sviluppare una riflessione sulle tariffe elettriche e sulla distribuzione con la creazione di una commissione tecnica nazionale con il sindacato e un rappresentante dell'azienda. L'Enel aveva anche dei centri di ricerca e ne avevamo uno che lavorava sulle energie alternative, ma nel sindacato non c'era ancora una riflessione di questo genere, anche se nell'area dei movimenti qualcosa già andava sviluppandosi e noi non gli davamo molto credito.

 

Sul ruolo del sindacato e il suo modo d'essere oggi si è affermato ciò che diceva Mario Romani negli anni Cinquanta. Io Romani ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente quando ho fatto il delegato Sas, era in Cattolica e aveva uno studio in via Vincenzo Monti. Sono stato a trovarlo e ho avuto modo di parlare con lui e non sapevo neppure chi fosse. Negli anni successivi mi è capitato di leggere qualcosa di suo e poi è stato Aldo Carera a farmi conoscere il suo pensiero. Ma sul finire degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, sull'onda movimentista e di un'idea irrinunciabile che era quella dell'unità sindacale, si è persa di vista la necessità di affermare l'idea originaria della Cisl. Da adattare alle esigenze nuove e sulla base di strumenti diversi, ma la concezione di sindacato che oggi si è affermata è quella lì. La scelta conflittuale in una fase movimentista e il progetto di egemonia culturale della Cgil, che hanno saputo gestire molto bene, ha messo in ombra le nostre idee. Non so se si può dire che siamo andati al carro della Cgil, certo avevo messo in ombra concezioni che oggi si sono mostrate vincenti. Mi ricordo quand'ero giovane responsabile della sezione sindacale, verso la fine degli anni Sessanta, che mensilmente raccoglievo tra gli iscritti la quota del fondo di solidarietà che doveva servire in caso di sciopero a sostenere chi scioperava. Una cosa durata due, tre anni poi non se n'è fatto più niente. Era un aspetto che nella cultura della Cisl, così come il tema della partecipazione e della democrazia economica, erano presenti, ma noi li abbiamo lasciati un po' in ombra. Però alla fine si è visto che l'esigenza di un sindacato responsabile, non perché accondiscende alla controparte padronale, è fondamentale. La ragione della mia azione non è il conflitto. Più volte in quegli anni si discuteva per costruire una piattaforma unitaria, ma con l'apertura della vertenza sembrava che l'obiettivo della Cgil non fosse quello di raggiungere gli obiettivi che ci eravamo proposti, ma di tenere la vertenza aperta più a lungo possibile perché ci si realizzava nel conflitto.