Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Impegno e passione. Gli anni caldi della Cisl in Lombardia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016
Sono nato il 28 aprile del 1944 a Premia, allora in provincia di Novara, oggi nella provincia di Verbania Cusio Ossola. Sono diplomato geometra frequentando la scuola serale.
La nostra era una famiglia religiosa, mia mamma moltissimo, mio papà pure anche se in un suo modo molto riservato. Io ho avuto una educazione religiosa. Mio papà ha fatto il servizio militare durante la seconda guerra mondiale, ma per una disavventura accaduta subito all'inizio in uno scontro con i francesi è finito in ospedale e ha evitato tutte le peggiori vicende successive. Alla fine della guerra ha ripreso il suo lavoro, faceva i turni in una centrale idroelettrica.
Era un attivista della Cgil ed era fiduciario sul posto di lavoro e mi ricordo che venivano in casa dei lavoratori a prendere le tessere e i bollini e lo ha fatto fino al 1956 quando, in seguito alle vicende dell'Ungheria, ha lasciato. Era un socialista convinto e durante la campagna elettorale del 1953 gli attivisti della Dc affiggevano dei manifesti sotto casa nostra perché, pur essendo una persona che non si metteva in mostra, tutti conoscevano le sue idee che lui professava chiaramente.
Dopo
le elementari ho frequentato una scuola professionale di quattro anni a Voghera,
che si chiamava “Monumento ai caduti”, un centro Inapli finanziato dalle
società del gruppo Edison che contribuiva con i materiali e le attrezzature,
dove ogni anno l'azienda inviava diciotto ragazzi figli di dipendenti del
gruppo. Mio papà lavorava alla Edison Volta che aveva sede a Milano e aveva le
centrali in Val d'Ossola, Valchiavenna, Val Camonica e Trentino. Facevano una
selezione a Milano di trentasei ragazzi che avevano concluso la quinta
elementare con test attitudinali fatti all'Università Cattolica e diciotto
selezionati venivano inviati a Voghera e altri diciotto in una scuola simile,
la “Necchi” di Pavia. Il corso durava quattro anni e c'erano classi per
falegnami, elettricisti e meccanici. Io ho frequentato il corso per
elettricisti, i primi due anni di formazione generale e i successivi due di
specializzazione. A conclusione del corso i ragazzi venivano inseriti in azienda.
Ho fatto dei nuovi test attitudinali e mi hanno proposto l'assunzione a Milano
anziché in una centrale elettrica vicino a casa. Il 1° ottobre del 1959 sono
stato assunto come apprendista con una borsa di studio di trentamila lire al
mese, oltre a quattrocento lire al giorno perché ero fuori casa. Chi rientrava
in famiglia invece ne riceveva duecento.
Sono
arrivato a Milano il 30 settembre e il pomeriggio alle cinque ancora non sapevo
dove sarei andato a dormire perché era il centro addestramento Edison che si
preoccupava di trovare il luogo dove alloggiare. Per me avevano trovato una
sistemazione agli Artigianelli dei Pavoniani che però sarebbe stata pronta solo
il mese successivo e quindi sono stato costretto a trovarmi una soluzione
provvisoria e ho dormito per un mese da una vecchia signora in via Messina. Avevo
quindici anni e mezzo e doversi trasferire a Milano per lavorare è stato
difficile e ricordo di aver pianto a lungo. A Milano avevo un appuntamento già
fissato per una visita di controllo dal cardiologo e poi sono finito in via
Carducci, in un ufficio disegnatori dove si facevano gli schemi elettrici a
supporto delle centrali. Dopo l'anno di apprendistato, il 1° settembre del 1960
sono stato assunto definitivamente.
Poco
dopo c'è stata la nazionalizzazione dell'energia elettrica e nel 1963 Edison è
diventata gestione per conto Enel. L'attività per me è sempre stata la stessa
ed è cambiata solamente quando sono andato avanti a studiare, ho fatto prima le
medie e poi ho preso il diploma di geometra alla scuola serale e quindi ho cambiato
un po' il tipo di lavoro, dedicandomi meno alla parte elettrica e più alla
parte strutturale.
Sono
rimasto in quell'ufficio a fare quel lavoro fino al 1970, ‘71 quando si è intensificato
l'impegno sindacale.
Sono
sempre stato interessato alle vicende politiche e sindacali, probabilmente
quello che avevo sentito in casa aveva lasciato dei segni dentro di me. Mio
padre aveva un grosso senso di giustizia. Mi ricordo le sue grandi arrabbiature
quando vedeva le cose che non andavano, quando assumevano nelle centrali con i
contratti stagionali le persone da marzo a novembre e poi l'anno successivo
riassumevano quelle che portavano le forme di formaggio. Mi sono iscritto al
sindacato l’1 gennaio del 1961 nell'ufficio di quello che era il segretario
nazionale degli elettrici della Cisl, che era responsabile della biblioteca della
Edison Volta che aveva sede a Milano. Fu un avvenimento perché non capitava
frequentemente che si iscrivessero ragazzi così giovani al sindacato e ho
scelto la Cisl nonostante mio padre fosse un attivista della Cgil. La scelta
della Cisl non è stata per ragioni culturali o ideologiche, la ragione è perché
lavoravo accanto a una persona con cui mi sono trovato in sintonia e che era
iscritto alla Cisl anche se la maggioranza in ufficio era della Cgil, ma alla
fine sono riuscito a ribaltare la situazione. Oggi ho in tasca la 55ª tessera
della Cisl.
Nel
primo periodo di iscrizione, andando a scuola la sera non ho avuto nessun incarico
particolare. Il primo impegno è stato fare lo scrutatore nelle elezioni del
1965 per il consiglio del dopo lavoro e per la cassa mutua interna, in pratica
appena diplomato.
Una
sera del febbraio 1967 c'era una riunione sindacale, mio papà era ricoverato
all'ospedale San Carlo dove era stato operato di ulcera, e non ho potuto
andare. Già altre volte avevo partecipato perché ero stato invitato e il giorno
dopo ho scoperto che mi avevano nominato responsabile della sezione sindacale aziendale.
La zona si chiamava Enel centro e comprendeva sei o sette palazzi di uffici con
1.500 lavoratori dove la Cisl aveva circa 360 iscritti. È stata una sorpresa,
ma mi hanno detto che siccome ero giovane era importante avere un incarico. La
prima prova del fuoco è stata verso la fine dello stesso anno con l'elezione
della commissione interna. È stata l'ultima elezione perché poi sono nati i consigli
dei delegati. Per l'occasione per gestire tutta l'operazione sono stato
affiancato dentro la commissione elettorale ad una persona più anziana ed esperta
di me, perché serviva attenzione dato che il confronto con la Cgil era
abbastanza forte. E in quell'occasione ho subito la prima fregatura. Noi ci
siamo mossi subito e abbiamo presentato la lista per primi, ma non so bene per
quale cavillo la Cgil è riuscita a ribaltare la situazione e quindi alle
elezioni il primo nome sulla scheda è stato quello della Cgil. Il risultato
però non è stato negativo perché su nove membri, otto impiegati e un operaio,
noi abbiamo preso quattro impiegati e l'operaio, che era espressione di una
grossa squadra di manutenzione ereditata dalla Edison Volta. Il delegato l’abbiamo
strappato alla Cgil e questa è stata una soddisfazione enorme.
Pian
piano ho iniziato ad essere coinvolto in tutte le iniziative interne ma anche
esterne all'Enel e nei direttivi, anche se non capivo ancora bene tutte le
dinamiche dell'organizzazione sindacale. Ci si trovava la sera al quarto piano
di via Tadino. In occasione del congresso del 1969 sono stato eletto nella
segreteria territoriale, che allora comprendeva le province di Milano, Pavia,
Cremona e anche Piacenza. La Lombardia era infatti suddivisa in tre territori
sulla base dei tre distretti sui quali era organizzata l'Enel. Con me in
segreteria c'era Giuseppe Sala e forse anche Carlo Stelluti. Segretario
generale era Brancatelli e c'erano anche Elios Goldoni, Poli e Fasani. Nel 1978
abbiamo costituito una struttura regionale con la sede in via Torino, in centro
a Milano. Sono entrato a far parte della segreteria regionale con segretario
generale Fiorindo Fumagalli e quando Fumagalli è stato eletto nella segreteria
della Cisl regionale ho preso il suo posto a fine 1981.
La
mia esperienza sindacale si è conclusa il 31 dicembre 1994. Con un'ultima fase
molto difficile, con un commissariamento per le dispute che abbiamo avuto con
Fumagalli. È stato un periodo difficile e per questi aspetti non credo che
avessi le caratteristiche più adatte. Io ero portato a cercare di tenere
insieme le persone, di unirle, ma forse non ero molto politico.
Nei
primi anni del mio impegno sindacale in azienda avevamo il problema dell'orario,
che era stranissimo: si lavorava dalle 8,30 alle 12,45, poi si riprendeva alle 14,45
fino alle 18,45. Si lavorava tutti i sabati, poi con la prima riduzione di orario
lavoravamo un sabato sì e uno no. Legato al tema dell'orario c'era quello della
mensa. Avevamo due ore di intervallo e si andava da via Carducci col tram 14 in
via Procaccini dove c'era la mensa. Al suono della campana c'era l'assalto al
tram che però non riusciva ad accoglierci tutti e quindi alcuni viaggiavano
appesi fuori. Data la situazione insostenibile siamo riusciti a convincere
l'azienda a fare delle convenzioni con alcuni ristoranti e self-service che
c'erano intorno alla sede.
Sul
finire degli anni Sessanta la voglia di partecipare tra i miei colleghi di
lavoro è cresciuta e siamo riusciti anche ad incrementare gli iscritti alla
Cisl. Abbiamo avuto anche contrasti abbastanza forti con gruppi di lavoratori
interni all'azienda che si opponevano alla presenza del sindacato, persone
molto moderate che non concepivano l'idea che si potessero contestare delle
decisioni della direzione oppure fare richieste nuove. Per il rinnovo del
contratto del 1968, per il quale tra l'altro stavamo litigando con la Cgil,
abbiamo fatto qualche picchetto e con la mia macchina facevo il giro dei
palazzi degli uffici a portare volantini e poi mi fermavo in via Carducci
davanti all'ingresso. Molti aspettavano questo pretesto per non entrare, ma
c'era chi voleva entrare a tutti i costi e ci sono stati anche dei momenti di
tensione. Eravamo una realtà piuttosto vivace pur nel nostro piccolo e pur non
avendo grossi problemi.
Nel
1969, però, abbiamo fatto l'occupazione della sede per ben nove giorni, dal 7
al 17 giugno. Alla fine abbiamo dovuto sgomberare perché il prefetto ha
minacciato l'intervento della polizia. Durante una difficile trattativa un
gruppo di Lotta comunista, presente nelle squadre operaie, aveva piazzato una
tenda sullo spartitraffico e aveva iniziato lo sciopero che chiamava dei
cacciaviti. Gli operai rivendicavano l'innalzamento di categoria perché
facevano lo stesso lavoro dei caposquadra ed erano inquadrati come manovali. Il
riferimento ai cacciaviti era a quei cacciaviti che servono per cercare la fase
negli impianti elettrici. La vertenza si stava inasprendo con accuse anche nei
confronti del sindacato. Noi abbiamo cercato di prendere in mano la situazione
ed eravamo riusciti a mettere in piedi una trattativa, anche in questo caso non
molto in sintonia con la Cgil, perché non si capiva se voleva cavalcare quella
protesta oppure cercare di trovare una soluzione. A quel punto la direzione ha
commesso un errore gravissimo. Eravamo al tavolo del confronto e hanno chiesto
una sospensione per avviare un chiarimento al loro interno, sono usciti e non
sono più tornati. L'idea dell'occupazione l'avevamo già nel caso non avessimo
ottenuto risposta, ma ritrovarsi lì da soli, con questi che non si sono più
fatti vedere, abbiamo deciso di non uscire. Per un certo periodo abbiamo avuto
anche il sindacato nazionale che era contro perché questa cosa era estranea agli
schemi tradizionali dell'azione sindacale dell'azienda, ma alla fine abbiamo
ottenuto dei grandi risultati perché se inizialmente la vicenda riguardava solo
Milano, siamo riusciti a coinvolgere anche gli altri distretti lombardi e
infatti i lavoratori delle altre sedi e delle centrali venivano con i pullman a
Milano a sostenere la nostra lotta. Una forma di protesta prevedeva di
camminare avanti e indietro sulle strisce pedonali per bloccare il traffico
senza un blocco formale.
La
possibilità di fare le assemblee in azienda, la partecipazione dei sindacalisti
sono state vissute come una fase di maggiore partecipazione dei lavoratori e
non lo ricordo come un periodo particolarmente faticoso. Nei nuovi consigli
abbiamo saputo inserire persone abbastanza equilibrate anche grazie al lavoro
che abbiamo fatto in precedenza e siamo riusciti a far valere le nostre
posizioni anche nei confronti della Cgil che puntava sempre ad egemonizzare
l'iniziativa sindacale. Nonostante questo, era forte lo spirito unitario e
quando è iniziato il percorso della costruzione dell'unità sindacale noi
abbiamo pagato anche uno scotto per questa scelta, perché la nostra
organizzazione nazionale era contraria e a Milano siamo stati commissariati,
così come a Brescia. La posizione del nazionale non era solo competitiva nei
confronti della Cgil, ma conflittuale a priori. Il nostro segretario nazionale Luigi
Sironi era un monzese e, insieme a Sartori, era il grande supporter di Vito
Scalia. Questi, però, erano dibattiti che nel luogo di lavoro non arrivavano. Non
credo che ci fosse piena coscienza su quale fosse il livello dello scontro che
era in corso nella Cisl fra Storti, Scalia, Sartori, Carniti. Forse tra di noi
quelli più sensibili alle questioni politiche avevano qualche timore, ma
bisogna ammettere che i nostri colleghi della Cgil erano molto bravi nel
rappresentare l'esigenza di un rapporto unitario, molto più abili e scafati di
noi.
Quando
siamo stati commissariati siamo stati messi nell'angolo perché la controparte
non voleva più neppure riceverci, perché il nostro nazionale era intervenuto e
noi eravamo distaccati ma senza permessi e senza stipendio. Nonostante questo,
pur con la difficoltà a svolgere la nostra attività, non abbiamo perso consenso
perché avevamo costruito una rete di relazioni che in quel momento abbiamo
verificato essere forte tra i lavoratori.
Tra
noi di Milano e la segreteria nazionale la divaricazione sul percorso
dell'unità sindacale era molto netta, mentre tra i lavoratori l'idea del
percorso unitario era credibile. Credo che abbiamo commesso un errore sul piano
delle regole interne, perché abbiamo assunto una delibera sul fatto di
costituire il patto federativo che contrastava con una delibera nazionale e
questo è stato il pretesto formale che ha messo in moto il commissariamento. Ma
ciò che avevamo costruito in termini di rapporto con i lavoratori ci ha
premiato e in occasione del congresso del 1973 abbiamo imposto la costituzione
di commissioni paritetiche e i risultati congressuali ci hanno dato ragione e
nelle aree commissariate abbiamo vinto i congressi. Anche in Lombardia c'erano
aree che remavano contro e il nazionale aveva mandato a Milano il responsabile
del Veneto, ma questo non è bastato e hanno perso alla grande. Per me è stata
una grande soddisfazione. Anche se a livello nazionale in categoria abbiamo perso
due a zero.
Credo
che abbiamo sottovalutato che l'idea di sindacato che aveva la Cisl era un
elemento importante e invece è partito un discorso movimentista. Un sindacato
degli elettrici, non dei metalmeccanici, non può scrivere in un documento a
Milano: “La lotta di classe è un fatto permanente”. Non l'ho scritto io, ma ero
in segreteria e la nostra segreteria l'aveva scritto nei documenti.
Forse
questo è potuto accadere anche a causa di qualche carenza nella conoscenza
della storia della Cisl. Se avessimo avuto più attenzione a quegli elementi che
già allora erano a disposizione dei gruppi dirigenti, invece di fare le battute
sui romani quando venivano alle riunioni dei nostri direttivi, forse non si
sarebbe arrivati a tanto. Secondo me abbiamo sottovalutato questi elementi
anche se, presi dall'entusiasmo di quel momento, era facile dimenticarsene. E
questo non a causa dell'arrivo di persone nuove, perché in quel periodo non ci
sono stati molti ingressi. In Lombardia, salvo Como, Mantova e un pezzo di
Cremona, con cui avevamo un confronto abbastanza aspro, era una posizione
condivisa.
Avevamo
una cassa mutua interna organizzata anche questa su tre ambiti territoriali. Io
sono stato eletto nella commissione paritetica che gestiva la cassa di Milano e
lì si parlava di riforma sanitaria che era uno degli elementi su cui si
andavano sviluppando le lotte per le riforme. La nostra gente in azienda era
preoccupata perché avevamo un servizio che funzionava con un poliambulatorio in
corso Vercelli dove si andava per appuntamento, dove tra l'altro c'erano
dentisti i cui costi non avevano confronto con quello che si pagava fuori. Per
i lavoratori erano vantaggi significativi e l'idea che si potesse cambiare li
preoccupava molto. Come rappresentanti sindacali siamo andati a fare le
assemblee nei vari luoghi di lavoro per spiegare perché era importante fare la
riforma sanitaria, ma non eravamo in grado di indicare con precisione che fine
avrebbero fatto le nostre strutture, come si sarebbero integrate nel nuovo sistema
sanitario. I lavoratori capivano, si rendevano conto che era importante
costruire un sistema che garantisse un'assistenza sanitaria di base per tutti,
ma poi si chiedevano perché si dovesse togliere ciò che già avevano. C'era
attenzione e partecipazione, così come sul tema delle pensioni.
Anche
sulle pensioni avevamo una situazione particolare, perché c'era una gestione
autonoma del fondo degli elettrici e su questo c'è stata molta più opposizione
perché c'era la sensazione di fare un salto nel buio. Si temeva che il
superamento della gestione autonoma avrebbe comportato un abbassamento delle
prestazioni. Certo non era facile convincere i lavoratori a partecipare agli
scioperi generali sul tema delle riforme partendo dalla nostra condizione. Per
noi è stata una difficoltà grossa, siamo andati in tutte le sedi a fare
assemblee per spiegare le ragioni dell'importanza di quelle riforme, ma intanto
la gente ha visto sparire i servizi di cui concretamente disponeva senza avere immediatamente
a disposizione un'alternativa che pure negli anni successivi è arrivata.
La
vertenza del cacciavite era nata sull'esigenza di un maggior egualitarismo che
voleva dire che a uguale mansione doveva esserci uguale categoria. Infatti
l'accordo sulla base del quale si è chiusa la vertenza era costruito proprio
partendo da questa esigenza e l'intesa siamo riusciti ad applicarla in modo
abbastanza diffuso nelle realtà operaie dove il problema era sicuramente più
grosso. Su questo tema c'era grande attenzione perché era vissuto come
un'opportunità di avanzamento, oltre che di riconoscimento della
professionalità, perché c'erano elettricisti di grande capacità inquadrati come
manovali semplicemente perché l'organigramma prevedeva un caposquadra e sotto
di lui una serie di manovali. Il dibattito e l'iniziativa sui temi
dell'egualitarismo hanno portato a una revisione dei criteri di inquadramento,
arrivata però verso la fine degli anni Settanta. Un dibattito che non voleva
dire tutti uguali, ma che ad uguale lavoro doveva corrispondere uguale
inquadramento, tema che è stato inserito anche nel contratto nazionale e che ha
lasciato spazi al confronto locale.
Avevamo
un sistema di relazioni industriali molto bello sul piano dell'impostazione
generale, aveva solo il difetto di essere in un'azienda centralizzata nei
livelli decisionali. La nostra contrattazione aziendale era una contrattazione
solo applicativa, con il risultato che essendo noi seri nella nostra azione
arrivavamo ad avere delle differenze tra Nord e Sud che erano assurde, perché
molto dipendeva dalla controparte che non aveva una capacità decisionale
adeguata. Contestavamo il fatto che tutte le decisioni dovessero essere prese a
livello nazionale, ma ci adeguavamo e quando avevamo dei problemi ci
rivolgevamo al nazionale perché in qualche modo non avevamo fiducia in noi
stessi, nella nostra capacità di affrontarli e risolverli. Era una
contraddizione, perché ricorrendo al nazionale ci indebolivamo da soli,
riconoscendo di fatto che quello era il tavolo dove si decideva.
L'ingerenza
della politica si sentiva in particolare nella realtà delle aziende
municipalizzate, un po' meno all'Enel, però si sentiva, perché se pensiamo come
veniva costituito il consiglio d'amministrazione è chiaro che c'erano delle
precise appartenenze politiche. Certo, nelle aziende municipalizzate questa
influenza della politica si sentiva molto di più anche nelle faccende
quotidiane, con preoccupanti forme di consociativismo. La presenza della
politica condizionava molto l'azione sindacale e la mortificava perché le
scelte erano in funzione di un rapporto clientelare. Questo portava a una
grande confusione di ruoli, anche sul piano delle relazioni formali, con una
clientela molto diffusa e neanche tanto mascherata. Con la conseguenza che le
poche volte che il sindacato regionale o territoriale veniva chiamato in
azienda, per i nostri eravamo il sindacato esterno.
A
Milano avevamo una presenza significativa di Lotta comunista alla Aem e
successivamente sono nati i Cub. Tra l'altro uno dei nostri, Carmelo Calabrese,
un istrione bravissimo, un grande affabulatore, è diventato responsabile
nazionale. Penso che il nostro gruppo dirigente nella realtà milanese, pur
essendo caratterizzato politicamente, sia sempre riuscito a difendere il
proprio ruolo. Personalmente non sono mai stato chiamato da nessun politico. Siamo
andati nella sede della Democrazia cristiana in via Nirone ad incontrare un
nuovo consigliere di amministrazione appena nominato che aveva chiesto questo
incontro. Non ricordo esattamente quale fosse la questione che gli interessava,
la materia riguardava il tema dell'energia e delle centrali.
Qualche
volta abbiamo cercato noi il supporto delle forze politiche, come quando siamo
stati commissariati e siamo stati a parlare con il Pci, la Dc e il Psi.
Ripensandoci dopo forse una scelta non proprio appropriata, anche se, nel
momento in cui la spinta verso l'unità sindacale era al massimo, c'era la
nostra struttura che veniva messa sotto accusa all'interno della Cisl e come
segreteria abbiamo pensato quantomeno di informare le forze politiche.
Con
l'avvento del compromesso storico tra la nostra gente emerse un atteggiamento
abbastanza critico, così come è stato abbastanza faticoso andare nei luoghi di
lavoro a fare le assemblee in occasione dell'accordo dell'Eur. In quel periodo abbiamo
avuto anche un infortunio. Forattini aveva fatto una vignetta in cui Luciano Lama
era seduto in poltrona in un salotto mentre sotto nella strada passava il
corteo dei lavoratori. Noi avevamo un giornale regionale unitario gestito da
Bruno Temporiti e Carlo Veronesi e abbiamo pubblicato quella vignetta. È nato
un incidente diplomatico con la Cgil e abbiamo dovuto fare un incontro con la
segreteria regionale per cercare di chiarire e di medicare il guaio che era
stato fatto.
Il
rapporto con le altre categorie della Cisl non è mai stato particolarmente
approfondito. A parte il tema dell'energia che ci ha portato ad un confronto
con la Fim, per il resto i rapporti erano quelli normali dentro
l'organizzazione. Decisamente più intensi sono stati i rapporti durante la fase
del commissariamento, con una condivisione dei nostri problemi e delle nostre impostazioni
da parte delle altre categorie. Mi ricordo che era venuto a portarci la sua
solidarietà il grande capo della Fisba, Renzo Cattaneo, nonostante lui fosse
decisamente schierato dall'altra parte. Sostanzialmente si riconosceva a questa
categoria di lavoratori un po' privilegiati di essere comunque parte del
movimento sindacale. Per il resto abbiamo sempre cercato di mantenere i rapporti,
ma non abbiamo mai avuto grandi collegamenti.
Abbiamo
fatto un tentativo di accorpamento nell'ambito delle scelte della Cisl con
l'obiettivo di metterci insieme ai chimici. Era stato fatto un bel lavoro, era
il 1978, '79, in vista della celebrazione dell'assemblea organizzativa avevamo
costruito un percorso unitario con Federenergia per un possibile accorpamento.
Un rapporto che è continuato anche se non ha portato all’unificazione. L’dea
era nata perché avevamo in condominio la gestione sindacale dell'azienda di
Milano, avendo Enel assorbito Edison gas, e all'interno dell'azienda avevamo il
contratto degli elettrici e quello dei chimici con due rappresentanze Cisl, per
cui abbiamo cercato di lavorare insieme e devo dire che abbiamo lavorato
abbastanza bene.
A
metà degli anni Settanta abbiamo fatto un'iniziativa comune con i
metalmeccanici dopo la crisi petrolifera sul tema delle nuove centrali.
Abbiamo
avuto rapporti anche con altre categorie quando a livello regionale ha lasciato
Melino Pillitteri e si è aperta una fase abbastanza travagliata.
Abbiamo
avuto alcune donne abbastanza vivaci in quegli anni, ma tre o quattro, non di
più. Avevo delle perplessità quando si è trattato di stabilire una presenza
femminile sulla base delle quote o quando si è dato vita al coordinamento donne,
che vedevo più come elemento di isolamento che non di integrazione o coinvolgimento.
Quello della partecipazione femminile era un tema presente, ma abbastanza poco
sentito. All'Enel le donne erano occupate negli uffici amministrativi e nelle
segreterie, nell'ufficio personale. Nel periodo in cui ero responsabile della
sezione sindacale aziendale è emersa un’attivista, Leontina Revelli, che poi ha
sposato Arturo Brancatelli. Era grintosa e insieme abbiamo gestito la fase
congressuale del 1969 facendo un buon lavoro, puntando molto sul coinvolgimento
del maggior numero di persone dei vari reparti e anche delle donne e abbiamo
ottenuto degli ottimi risultati. Questo ha contribuito ad aumentare la
credibilità del sindacato.
Mi
considero fortunato per questa mia esperienza di sindacalista, perché ho fatto
un lavoro che mi piaceva senza averlo scelto. Mi sono trovato ad essere
coinvolto perché mi interessavano i temi sociali e sindacali, qualche volta ad
essere scelto un po' di sorpresa. Mi sono trovato via via ad assumere
responsabilità, ma era un lavoro che mi gratificava. E’ stato un impegno
faticosissimo, un'esperienza molto intensa anche sul piano delle relazioni
personali e sono quelle che spesso vengono pregiudicate quando ci sono delle
dispute politiche. Però è molto ricca da questo punto di vista e penso che sia
l'essenza di questo mestiere. Molti del nostro ambiente quando finiscono la
loro carriera affermano che hanno avuto tanto dal sindacato, ma hanno anche
dato tanto. Io non credo che sia proprio così. Sono convinto che se uno fa
seriamente il lavoro del sindacalista dà tanto ma non è detto che riceva più di
quello che ha dato. Quando ho lasciato ho detto che chiudevo, sono contento di
aver fatto questa esperienza, ricordo con piacere tante cose, ho tanta amarezza
per tanti rapporti personali finiti non bene in alcuni momenti difficilissimi e
a volte un po' con cattiveria, ma poi recuperati successivamente. Ho messo
tanto, ho ricevuto, ma non credo che abbia senso fare un bilancio tra il dare e
avere.
Il
mio gruppo di segreteria è sempre stato molto affiatato, abbiamo lavorato bene
con le persone che si sono succedute negli anni, però quando ci sono dei
problemi sul piano personale si pagano dei prezzi molto forti. Chi non ha ruolo
dirigente questi aspetti li vive meno, è più distaccato. Mi ricordo, nei
momenti più difficili, di essere a Roma da lombardo e trovarmi isolato. Ero
invaso da un sentimento di malinconia, era una sensazione bruttissima.
Forse
un po' presuntuosamente abbiamo cercato a livello milanese di sviluppare una
riflessione e delle proposte sul piano dell’energia, del risparmio energetico,
delle centrali. Abbiamo cioè cercato di sviluppare un ruolo che andava un
pochino oltre quello che era il compito centrale della categoria. Un'altra cosa
che abbiamo fatto, anche se pure quella non è che abbia poi fruttato molto, in
occasione della crisi petrolifera a metà degli anni Settanta, è stata quella di
sviluppare una riflessione sulle tariffe elettriche e sulla distribuzione con
la creazione di una commissione tecnica nazionale con il sindacato e un
rappresentante dell'azienda. L'Enel aveva anche dei centri di ricerca e ne
avevamo uno che lavorava sulle energie alternative, ma nel sindacato non c'era
ancora una riflessione di questo genere, anche se nell'area dei movimenti
qualcosa già andava sviluppandosi e noi non gli davamo molto credito.
Sul
ruolo del sindacato e il suo modo d'essere oggi si è affermato ciò che diceva
Mario Romani negli anni Cinquanta. Io Romani ho avuto la fortuna di conoscerlo
personalmente quando ho fatto il delegato Sas, era in Cattolica e aveva uno
studio in via Vincenzo Monti. Sono stato a trovarlo e ho avuto modo di parlare
con lui e non sapevo neppure chi fosse. Negli anni successivi mi è capitato di
leggere qualcosa di suo e poi è stato Aldo Carera a farmi conoscere il suo
pensiero. Ma sul finire degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, sull'onda
movimentista e di un'idea irrinunciabile che era quella dell'unità sindacale,
si è persa di vista la necessità di affermare l'idea originaria della Cisl. Da
adattare alle esigenze nuove e sulla base di strumenti diversi, ma la
concezione di sindacato che oggi si è affermata è quella lì. La scelta
conflittuale in una fase movimentista e il progetto di egemonia culturale della
Cgil, che hanno saputo gestire molto bene, ha messo in ombra le nostre idee.
Non so se si può dire che siamo andati al carro della Cgil, certo avevo messo
in ombra concezioni che oggi si sono mostrate vincenti. Mi ricordo quand'ero
giovane responsabile della sezione sindacale, verso la fine degli anni Sessanta,
che mensilmente raccoglievo tra gli iscritti la quota del fondo di solidarietà
che doveva servire in caso di sciopero a sostenere chi scioperava. Una cosa
durata due, tre anni poi non se n'è fatto più niente. Era un aspetto che nella
cultura della Cisl, così come il tema della partecipazione e della democrazia
economica, erano presenti, ma noi li abbiamo lasciati un po' in ombra. Però
alla fine si è visto che l'esigenza di un sindacato responsabile, non perché
accondiscende alla controparte padronale, è fondamentale. La ragione della mia
azione non è il conflitto. Più volte in quegli anni si discuteva per costruire
una piattaforma unitaria, ma con l'apertura della vertenza sembrava che
l'obiettivo della Cgil non fosse quello di raggiungere gli obiettivi che ci
eravamo proposti, ma di tenere la vertenza aperta più a lungo possibile perché ci
si realizzava nel conflitto.