Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “L’idea del dialogo. Cultura del lavoro, contrattazione, relazioni industriali nella chimica italiana”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2017
Sono nato in una famiglia di antiche radici milanesi. Ho iniziato a lavorare in Unilever nel 1965, lì ho fatto la mia prima esperienza come direttore del personale di uno stabilimento con 2.500 persone. Ero giovane, era il periodo eroico delle relazioni sindacali ed è stato un po' come il mio primo amore. Con tutto l'entusiasmo che c'è nel primo amore e anche le disillusioni. Dico periodo eroico perché è stato lì che ho cominciato a conoscere i sindacalisti e in particolare sindacalisti della Cisl, perché lo stabilimento era a Casalpusterlengo e la prevalenza era della Federchimici.
Ricordo con piacere quel periodo perché era l’epoca del sindacalismo prima maniera. I sindacati non potevano entrare nell'azienda, non c'era ancora lo Statuto dei lavoratori, era un ambiente prevalentemente operaio, si facevano scioperi ma sostanzialmente per motivi economici. Con un rapporto di reciproco rispetto, di reciproca fiducia. Poi il grosso della mia esperienza l'ho fatta in Ciba Geigy, dal 1968 al 1998.Sono entrato in Ciba a sostituire il dottor Briano, che era andato in
Marelli e l'anno successivo è stato assassinato dalle Brigate rosse. Ricordo
che insieme ad altri colleghi di multinazionali farmaceutiche e chimiche
viaggiavamo con la scorta e qualcuno di noi ha passato diversi mesi all'estero
perché ha ricevuto delle minacce molto precise. Allora le Brigate rosse non ce
l'avevano con i direttori del personale "aggressivi", ma con coloro
che cercavano di realizzare strategie di relazioni sindacali avanzate, che
erano quelli che davano più fastidio.
Ero direttore del personale di tutto il gruppo Ciba Geigy, che aveva
anche degli insediamenti importanti nel Sud. È stato un periodo fortunato,
perché era ricco dal punto di vista economico, non abbiamo avuto guerre e
lavoravo in un'azienda che faceva soldi e quindi c'era la possibilità di fare
operazioni interessanti, con un ambiente interno molto accogliente. Nella sede
di Origgio eravamo in quattromila. Quando sono entrato in Ciba l'azienda era
considerata un po' come una mamma, questo voleva dire sostanzialmente che se
una persona entrava in Ciba ci restava fino all'età della pensione, e se
proprio non era inadeguato alla fine diventava dirigente. Ogni anno c'era un
avanzamento: o l'aumento di stipendio o il passaggio di categoria.
In quegli anni l'azienda si era impegnata con un accordo aziendale a non
far ricorso alla cassa integrazione, poi però le cose sono cominciate a
cambiare, è iniziata la competizione internazionale, con l'impossibilità per
l'azienda di garantire la stabilità del rapporto di lavoro per così tanto
tempo. Uno dei cambiamenti che abbiamo gestito insieme al sindacato è stato
proprio questo passaggio culturale, dalla garanzia dell'impiego alla garanzia
dell'impiegabilità.
Inizialmente il posto di lavoro era quasi un “bene reale” che si
tramandava di padre in figlio, soprattutto al Sud. Allo stabilimento di Torre
Annunziata, dove lavoravano 2.200 persone, avevamo dei problemi con
infiltrazioni della delinquenza e “bene reale” voleva dire che il posto di
lavoro valeva venti milioni di lire. E c'era l'associazione dei disoccupati che
riusciva a far mettere in graduatoria per le assunzioni i suoi affiliati.
Questi venivano assunti, stavano in azienda per uno o due mesi e poi vendevano
il posto di lavoro. Era una realtà nota che condizionava gli investimenti della
Ciba al Sud. Si è posta a un certo momento la necessità di implementare la
produzione ed erano in lizza Torre Annunziata e uno stabilimento in Francia, e
nella casa madre molti spingevano per fare l'investimento in Francia. Noi
giocavamo sul fatto che l'investimento al Sud fosse più conveniente dal punto
di vista economico e che avevamo una buona disponibilità di manodopera
qualificata, praticamente non c'erano problemi ad assumere laureati. Contro giocava
il fatto che c'erano le infiltrazioni. Si dovevano assumere una cinquantina di
persone e noi volevamo farlo con i criteri previsti dalla legge e non avere in
azienda persone note come mafiosi. In quella occasione abbiamo avuto l'appoggio
di Arnaldo Mariani e di Sergio Cofferati. Avevamo molte pressioni da parte
della prefettura perché c'erano scioperi e manifestazioni dure. La fabbrica è
rimasta bloccata per venti giorni, con i camion davanti ai cancelli, con minacce
fisiche al direttore del personale, con i rappresentanti dell’associazione disoccupati
che arrivavano allo stabilimento in Mercedes, ma in accordo con il sindacato
abbiamo resistito. L'abbiamo spuntata e sono stati fatti gli investimenti
previsti.
Relazioni industriali
Credo che lo svilupparsi di relazioni industriali avanzate e innovative
nel nostro settore sia stato la combinazione di due fattori, il primo era che
in quel periodo l'industria chimica e quella farmaceutica erano relativamente
ricche, all’avanguardia, con margini di reddito abbastanza elevati e questo non
dava grosse preoccupazioni sulla componente del costo del lavoro; il secondo
fattore era che nell'industria chimica, come nell'industria farmaceutica, il
costo del lavoro era una variabile che pesava per il tre, quattro per cento sul
costo finale del prodotto. Questo ha creato delle opportunità che si sono incontrate
col fatto che in quel periodo si era formato, insieme a Nicola Messina, un gruppo
di persone, penso ai responsabili delle risorse umane della Lepetit, della
Glaxo, della 3M, espressione di aziende nazionali o multinazionali orientate
verso un'attività di sviluppo, che risentivano delle influenze della cultura
anglosassone nella gestione del personale. Probabilmente nell'industria
metalmeccanica queste caratteristiche non si sono sviluppate. L'industria
metalmeccanica era prevalentemente nazionale, noi eravamo prevalentemente multinazionali.
Non che il modello arrivasse dall'estero, ma diciamo che dall'estero ci
lasciavano molta libertà e comunque i modelli che noi sviluppavamo erano
coerenti con i loro e quindi venivano visti di buon occhio.
Il sindacato
Fino alla metà degli anni Settanta, per una persona che lavorava in
azienda fare il sindacalista era un fatto importante. C'erano anche degli
impiegati di prima categoria, quindi dei manager, che desideravano fare il
sindacalista perché c'erano dei valori ideali che venivano perseguiti. Gli
interlocutori sindacali, i delegati, mediamente parlando, erano generalmente
preparati, non erano le persone scontente, erano persone ragionevoli, non
facili da trattare dal punto di vista negoziale perché erano in gamba. Noi
eravamo i “padroni”, non “imprenditori”, però nei fatti quando erano in gioco
le sorti dell'azienda si riusciva a fare gli accordi.
Negli anni Settanta si è discusso del ruolo del sindacato in azienda, non
solo dal punto di vista dell'informazione sui cambiamenti, il sindacato voleva
essere coinvolto obbligatoriamente sui trend di sviluppo. Se l'azienda voleva
fare un cambiamento organizzativo doveva avere l'avvallo sindacale e qui si è
manifestata una incoerenza nel sindacato, perché da un lato rivendicava in modo
forte l'obbligo e la necessità di essere coinvolto e di contrattualizzare le
scelte aziendali, dall'altro però non voleva assumersi responsabilità. Le
scelte erano di responsabilità dell'azienda, ma dovevano essere negoziate con i
sindacati. Questo ha creato delle contraddizioni, perché nel momento in cui negozi
e si decide diventi corresponsabile.
Così facendo il sindacato ha perso una grossa opportunità, che era quella
di andare sulla strada del sindacato tedesco dell'azionariato diffuso, di
entrare gradualmente in modo rappresentativo nella stanza dei bottoni della
gestione aziendale. Secondo me allora ne aveva le risorse, aveva le persone
capaci di farlo e tutto sommato l'ideologia della sinistra sindacale non era
tale da impedire che il sindacato assumesse questa responsabilità. Peraltro è
difficile parlare di sindacato nel suo complesso, perché c'era allora una
componente della Cgil, rappresentata dai vari Bertinotti, che, ricordo, quando
si facevano gli accordi sindacali, arrivavano all'ultimo momento, rilanciavano
le richieste e non hanno mai sottoscritto un contratto. Ovviamente pensare che
le aziende si sarebbero mosse in questa direzione sarebbe eccessivo, ma il
sindacato non ha avuto le persone e le capacità di passare dalla
contrattualizzazione delle scelte aziendali alla partecipazione nelle scelte.
Questo è un salto che il sindacato, probabilmente condizionato ideologicamente,
non è riuscito a fare. Perché significava “mettersi dalla parte dei padroni” e
credo che sia stata una delle ragioni per cui anche il sindacato ha perso la
sua attrattività nei confronti di una certa fascia di popolazione aziendale di
alto livello. A un certo momento costoro non hanno più visto nel sindacato i
valori ideali che c'erano prima.
Direzioni del personale
La funzione delle risorse umane ha avuto un ruolo strategico nell'azienda
perché giocava sul piano politico, non
su quello operativo. Le condizioni oggettive favorivano il fatto che nelle
direzioni del personale venissero impegnati dirigenti con certe caratteristiche
che consentivano di fare dei programmi di attività, non solo dal punto di vista
sindacale, ma soprattutto dal punto di vista dello sviluppo delle persone, tali
per cui il ruolo era strategico. Oggi la gran parte dei direttori del personale
viene assunto per ridurre, licenziare, realizzare decisioni che vengono prese
dal business.
Parallelamente all'attività di relazioni sindacali, all'interno della
direzione del personale si sono sviluppate tutta un'altra serie di attività.
Pensiamo ad esempio all'attività di comunicazione, in un primo tempo l'azienda
non comunicava tempestivamente o non si faceva carico di comunicare l'andamento
aziendale, le ragioni delle scelte. Quindi se uno voleva sapere come andavano
le cose andava in assemblea perché era lì che aveva le informazioni, sia sugli
aspetti economici sia di fronte ai cambiamenti organizzativi o all’introduzione
di nuove tecnologie. L'assemblea era l’elemento prevalente di comunicazione. Poi
nelle aziende, nelle direzioni del personale, si sono sviluppate le attività di
comunicazione, perché si è capito che per avere un vero coinvolgimento delle
persone bisognava informarle, responsabilizzarle e perdere il timore di
comunicare con loro. E, oggettivamente, le risorse economiche di cui l'azienda
disponeva, gli strumenti tecnici, le capacità erano superiori a quelle del
sindacato. Inizialmente i lavoratori sentivano la campana del sindacato e
quella dell'azienda, andando avanti preferivano avere l'informazione
direttamente dall'azienda, perché era tempestiva e più completa. Questo è un
primo aspetto che spiega il calo della partecipazione dei lavoratori. Secondo
elemento, in quel periodo noi avevamo abbastanza chiaro che c'era una
distinzione dei ruoli, riconoscevamo quello del sindacato nelle attività che
erano delegate da parte del contratto collettivo, ma poi sviluppavamo tutta una
serie di politiche di gestione del personale, di formazione, di percorsi di
avanzamento di carriera e soprattutto retributivo di cui eravamo estremamente
gelosi.
Valutare le persone è molto difficile, compensare le persone in funzione
dei risultati e non dell'impegno è stato un cambio culturale lungo, che ha
richiesto del tempo, però grosso modo ci siamo riusciti attraverso tutti i
sistemi di valutazione delle posizioni prima, delle performance poi, fino ad
arrivare alla estensione dei sistemi di valutazione dalla fascia dirigenziale ai
livelli inferiori.
Negli anni Ottanta c'erano dei piani di azionariato diffuso che sono
stati realizzati, ma che non hanno ottenuto dei risultati rispetto alla
fidelizzazione dei lavoratori nei confronti dell'azienda. Il sindacato aveva
una posizione critica, tutto sommato povera di contenuti, senza avere la
capacità di negoziare lo strumento né i criteri di valutazione su cui avrebbe
potuto dire qualcosa. L'azione sindacale si riduceva più o meno a questo: se
avete cento per dare gli aumenti di merito, lo stesso budget dovete darlo per
gli aumenti salariali e su questo ci si scontrava. Perché se l'obiettivo era
quello di usare la leva economica per migliorare la motivazione, migliorare il
rendimento e premiare le persone, devo dire che tutti i soldi spesi nelle
negoziazioni sindacali venivano percepiti dall'azienda come dei soldi mal
investiti. Erano altri gli obiettivi, era avere la pace sindacale. Il sindacato
diventava invece una variabile importante per gestire alcuni problemi come
l'assenteismo, le ferie, le chiusure, le modifiche organizzative. Per fortuna
in quegli anni grossi problemi di riduzione del personale e di
razionalizzazione non ne abbiamo avuti.
Contrattazione
Per quanto riguarda la contrattazione aziendale credo che ci siano stati
due periodi, uno prima dello Statuto di lavoratori e uno dopo. Prima dello Statuto
i temi fondamentali erano gli aspetti economici, sempre, e i diritti sindacali.
Dopo lo Statuto è proseguito il confronto sull’aspetto economico, anche se si è
introdotta una variabile importante: si è cominciato a discutere del
collegamento tra gli aspetti economici e la produttività. Il sindacato ha
accettato il confronto sul miglioramento della produttività, purché questo avesse
delle ricadute economiche positive non solo sull'azienda ma anche sui
lavoratori.
La prima vertenza che ho seguito è stata quella per cui sono stato
assunto in Ciba. Ero giovane e però avevo esperienza sindacale e ho dovuto
occuparmi delle conseguenze della fusione tra Ciba e Geigy, perché c'era di
mezzo un trasferimento di sede da Milano a Saronno. Per la prima volta c'erano
stati degli scioperi. Occorre tenere conto che in quel periodo la Ciba, se
c'erano degli scioperi, lasciava le persone a casa pagandole. Ci sono stati
momenti duri perché, in particolare il management Geigy, che apparentemente
sosteneva il trasferimento, in realtà strizzava l'occhio al sindacato e così i
lavoratori di Milano si sentivano molto forti ed è stato difficile trovare un
accordo che però poi venne raggiunto.
Ricordo tutto sommato con un certo piacere la vertenza dei capi area
degli informatori medico scientifici, che erano impiegati di prima categoria,
quando per la prima volta sono scesi in sciopero per degli aspetti economici. Ma
in discussione allora c’era il loro ruolo e alla fine siamo riusciti a trovare
un accordo abbastanza interessante.
Le fusioni, prima con Geigy e poi con Sandoz, sono state due vicende
diverse. La prima è stata fatta in un periodo di vacche ancora molto grasse e
tutto sommato si trattava di due aziende consorelle, diversa è stata la fusione
con Sandoz, molto più traumatica, perché realtà diverse. Ciba Geigy era
conosciuta come azienda farmaceutica, in realtà il business farmaceutico era un
terzo dell'intera attività, poi c'erano le materie plastiche, l'agroalimentare
e altro ancora. La fusione con Sandoz ha riguardato la parte farmaceutica, ma
allo stesso tempo c'è stato lo scorporo di tutte le altre attività e questo è
avvenuto in un periodo in cui il risparmio delle persone era una variabile
importante e abbiamo iniziato a ridurre gli organici, però non con l'intensità che
si avrà negli anni Duemila.
Welfare aziendale
In Ciba in termini di welfare la situazione era più arretrata rispetto a
quella attuale. Questo perché in realtà non se ne sentiva molto il bisogno,
intanto perché non c’era la necessità di utilizzare il welfare, come oggi
avviene, come elemento integrativo della leva retributiva. Non si era ancora
scoperto che il welfare, a parità di costi, dà maggiori vantaggi o, a parità di
vantaggi, costa meno. Si usava di più la leva retributiva. Problemi
pensionistici di fatto non ce n’erano, assistenza sanitaria poca. Negli anni
Novanta si è cominciato a parlare di benefits, ad esempio con l'introduzione dell'auto
aziendale.
Oggi la situazione è molto più avanzata sia in termini di contenuti che
di strumenti e come possibilità di scelta. Per esempio, noi non avevamo piani
di previdenza integrativi, non avevamo formule di assicurazione sanitaria, era
più un welfare legato ad un paternalismo illuminato: colonie, feste per i
dipendenti, dopolavoro, eccetera. Solamente verso la fine degli anni Novanta,
quando si è cominciato a capire il problema delle pensioni, abbiamo costituito
a livello di Federchimica il primo fondo integrativo. È stata una grossa cosa,
però inizialmente non è che se ne sentisse molto il bisogno.