venerdì 31 luglio 2020

ANTONIO LOCATI - Direttore del personale Ciba - Origgio (Va)

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “L’idea del dialogo. Cultura del lavoro, contrattazione, relazioni industriali nella chimica italiana”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2017

Sono nato in una famiglia di antiche radici milanesi. Ho iniziato a lavorare in Unilever nel 1965, lì ho fatto la mia prima esperienza come direttore del personale di uno stabilimento con 2.500 persone. Ero giovane, era il periodo eroico delle relazioni sindacali ed è stato un po' come il mio primo amore. Con tutto l'entusiasmo che c'è nel primo amore e anche le disillusioni. Dico periodo eroico perché è stato lì che ho cominciato a conoscere i sindacalisti e in particolare sindacalisti della Cisl, perché lo stabilimento era a Casalpusterlengo e la prevalenza era della Federchimici.

Ricordo con piacere quel periodo perché era l’epoca del sindacalismo prima maniera. I sindacati non potevano entrare nell'azienda, non c'era ancora lo Statuto dei lavoratori, era un ambiente prevalentemente operaio, si facevano scioperi ma sostanzialmente per motivi economici. Con un rapporto di reciproco rispetto, di reciproca fiducia. Poi il grosso della mia esperienza l'ho fatta in Ciba Geigy, dal 1968 al 1998.

Sono entrato in Ciba a sostituire il dottor Briano, che era andato in Marelli e l'anno successivo è stato assassinato dalle Brigate rosse. Ricordo che insieme ad altri colleghi di multinazionali farmaceutiche e chimiche viaggiavamo con la scorta e qualcuno di noi ha passato diversi mesi all'estero perché ha ricevuto delle minacce molto precise. Allora le Brigate rosse non ce l'avevano con i direttori del personale "aggressivi", ma con coloro che cercavano di realizzare strategie di relazioni sindacali avanzate, che erano quelli che davano più fastidio.

Ero direttore del personale di tutto il gruppo Ciba Geigy, che aveva anche degli insediamenti importanti nel Sud. È stato un periodo fortunato, perché era ricco dal punto di vista economico, non abbiamo avuto guerre e lavoravo in un'azienda che faceva soldi e quindi c'era la possibilità di fare operazioni interessanti, con un ambiente interno molto accogliente. Nella sede di Origgio eravamo in quattromila. Quando sono entrato in Ciba l'azienda era considerata un po' come una mamma, questo voleva dire sostanzialmente che se una persona entrava in Ciba ci restava fino all'età della pensione, e se proprio non era inadeguato alla fine diventava dirigente. Ogni anno c'era un avanzamento: o l'aumento di stipendio o il passaggio di categoria.

In quegli anni l'azienda si era impegnata con un accordo aziendale a non far ricorso alla cassa integrazione, poi però le cose sono cominciate a cambiare, è iniziata la competizione internazionale, con l'impossibilità per l'azienda di garantire la stabilità del rapporto di lavoro per così tanto tempo. Uno dei cambiamenti che abbiamo gestito insieme al sindacato è stato proprio questo passaggio culturale, dalla garanzia dell'impiego alla garanzia dell'impiegabilità.

Inizialmente il posto di lavoro era quasi un “bene reale” che si tramandava di padre in figlio, soprattutto al Sud. Allo stabilimento di Torre Annunziata, dove lavoravano 2.200 persone, avevamo dei problemi con infiltrazioni della delinquenza e “bene reale” voleva dire che il posto di lavoro valeva venti milioni di lire. E c'era l'associazione dei disoccupati che riusciva a far mettere in graduatoria per le assunzioni i suoi affiliati. Questi venivano assunti, stavano in azienda per uno o due mesi e poi vendevano il posto di lavoro. Era una realtà nota che condizionava gli investimenti della Ciba al Sud. Si è posta a un certo momento la necessità di implementare la produzione ed erano in lizza Torre Annunziata e uno stabilimento in Francia, e nella casa madre molti spingevano per fare l'investimento in Francia. Noi giocavamo sul fatto che l'investimento al Sud fosse più conveniente dal punto di vista economico e che avevamo una buona disponibilità di manodopera qualificata, praticamente non c'erano problemi ad assumere laureati. Contro giocava il fatto che c'erano le infiltrazioni. Si dovevano assumere una cinquantina di persone e noi volevamo farlo con i criteri previsti dalla legge e non avere in azienda persone note come mafiosi. In quella occasione abbiamo avuto l'appoggio di Arnaldo Mariani e di Sergio Cofferati. Avevamo molte pressioni da parte della prefettura perché c'erano scioperi e manifestazioni dure. La fabbrica è rimasta bloccata per venti giorni, con i camion davanti ai cancelli, con minacce fisiche al direttore del personale, con i rappresentanti dell’associazione disoccupati che arrivavano allo stabilimento in Mercedes, ma in accordo con il sindacato abbiamo resistito. L'abbiamo spuntata e sono stati fatti gli investimenti previsti.

Relazioni industriali

Credo che lo svilupparsi di relazioni industriali avanzate e innovative nel nostro settore sia stato la combinazione di due fattori, il primo era che in quel periodo l'industria chimica e quella farmaceutica erano relativamente ricche, all’avanguardia, con margini di reddito abbastanza elevati e questo non dava grosse preoccupazioni sulla componente del costo del lavoro; il secondo fattore era che nell'industria chimica, come nell'industria farmaceutica, il costo del lavoro era una variabile che pesava per il tre, quattro per cento sul costo finale del prodotto. Questo ha creato delle opportunità che si sono incontrate col fatto che in quel periodo si era formato, insieme a Nicola Messina, un gruppo di persone, penso ai responsabili delle risorse umane della Lepetit, della Glaxo, della 3M, espressione di aziende nazionali o multinazionali orientate verso un'attività di sviluppo, che risentivano delle influenze della cultura anglosassone nella gestione del personale. Probabilmente nell'industria metalmeccanica queste caratteristiche non si sono sviluppate. L'industria metalmeccanica era prevalentemente nazionale, noi eravamo prevalentemente multinazionali. Non che il modello arrivasse dall'estero, ma diciamo che dall'estero ci lasciavano molta libertà e comunque i modelli che noi sviluppavamo erano coerenti con i loro e quindi venivano visti di buon occhio.

Il sindacato

Fino alla metà degli anni Settanta, per una persona che lavorava in azienda fare il sindacalista era un fatto importante. C'erano anche degli impiegati di prima categoria, quindi dei manager, che desideravano fare il sindacalista perché c'erano dei valori ideali che venivano perseguiti. Gli interlocutori sindacali, i delegati, mediamente parlando, erano generalmente preparati, non erano le persone scontente, erano persone ragionevoli, non facili da trattare dal punto di vista negoziale perché erano in gamba. Noi eravamo i “padroni”, non “imprenditori”, però nei fatti quando erano in gioco le sorti dell'azienda si riusciva a fare gli accordi.

Negli anni Settanta si è discusso del ruolo del sindacato in azienda, non solo dal punto di vista dell'informazione sui cambiamenti, il sindacato voleva essere coinvolto obbligatoriamente sui trend di sviluppo. Se l'azienda voleva fare un cambiamento organizzativo doveva avere l'avvallo sindacale e qui si è manifestata una incoerenza nel sindacato, perché da un lato rivendicava in modo forte l'obbligo e la necessità di essere coinvolto e di contrattualizzare le scelte aziendali, dall'altro però non voleva assumersi responsabilità. Le scelte erano di responsabilità dell'azienda, ma dovevano essere negoziate con i sindacati. Questo ha creato delle contraddizioni, perché nel momento in cui negozi e si decide diventi corresponsabile.

Così facendo il sindacato ha perso una grossa opportunità, che era quella di andare sulla strada del sindacato tedesco dell'azionariato diffuso, di entrare gradualmente in modo rappresentativo nella stanza dei bottoni della gestione aziendale. Secondo me allora ne aveva le risorse, aveva le persone capaci di farlo e tutto sommato l'ideologia della sinistra sindacale non era tale da impedire che il sindacato assumesse questa responsabilità. Peraltro è difficile parlare di sindacato nel suo complesso, perché c'era allora una componente della Cgil, rappresentata dai vari Bertinotti, che, ricordo, quando si facevano gli accordi sindacali, arrivavano all'ultimo momento, rilanciavano le richieste e non hanno mai sottoscritto un contratto. Ovviamente pensare che le aziende si sarebbero mosse in questa direzione sarebbe eccessivo, ma il sindacato non ha avuto le persone e le capacità di passare dalla contrattualizzazione delle scelte aziendali alla partecipazione nelle scelte. Questo è un salto che il sindacato, probabilmente condizionato ideologicamente, non è riuscito a fare. Perché significava “mettersi dalla parte dei padroni” e credo che sia stata una delle ragioni per cui anche il sindacato ha perso la sua attrattività nei confronti di una certa fascia di popolazione aziendale di alto livello. A un certo momento costoro non hanno più visto nel sindacato i valori ideali che c'erano prima.

Direzioni del personale

La funzione delle risorse umane ha avuto un ruolo strategico nell'azienda perché  giocava sul piano politico, non su quello operativo. Le condizioni oggettive favorivano il fatto che nelle direzioni del personale venissero impegnati dirigenti con certe caratteristiche che consentivano di fare dei programmi di attività, non solo dal punto di vista sindacale, ma soprattutto dal punto di vista dello sviluppo delle persone, tali per cui il ruolo era strategico. Oggi la gran parte dei direttori del personale viene assunto per ridurre, licenziare, realizzare decisioni che vengono prese dal business.

Parallelamente all'attività di relazioni sindacali, all'interno della direzione del personale si sono sviluppate tutta un'altra serie di attività. Pensiamo ad esempio all'attività di comunicazione, in un primo tempo l'azienda non comunicava tempestivamente o non si faceva carico di comunicare l'andamento aziendale, le ragioni delle scelte. Quindi se uno voleva sapere come andavano le cose andava in assemblea perché era lì che aveva le informazioni, sia sugli aspetti economici sia di fronte ai cambiamenti organizzativi o all’introduzione di nuove tecnologie. L'assemblea era l’elemento prevalente di comunicazione. Poi nelle aziende, nelle direzioni del personale, si sono sviluppate le attività di comunicazione, perché si è capito che per avere un vero coinvolgimento delle persone bisognava informarle, responsabilizzarle e perdere il timore di comunicare con loro. E, oggettivamente, le risorse economiche di cui l'azienda disponeva, gli strumenti tecnici, le capacità erano superiori a quelle del sindacato. Inizialmente i lavoratori sentivano la campana del sindacato e quella dell'azienda, andando avanti preferivano avere l'informazione direttamente dall'azienda, perché era tempestiva e più completa. Questo è un primo aspetto che spiega il calo della partecipazione dei lavoratori. Secondo elemento, in quel periodo noi avevamo abbastanza chiaro che c'era una distinzione dei ruoli, riconoscevamo quello del sindacato nelle attività che erano delegate da parte del contratto collettivo, ma poi sviluppavamo tutta una serie di politiche di gestione del personale, di formazione, di percorsi di avanzamento di carriera e soprattutto retributivo di cui eravamo estremamente gelosi.

Valutare le persone è molto difficile, compensare le persone in funzione dei risultati e non dell'impegno è stato un cambio culturale lungo, che ha richiesto del tempo, però grosso modo ci siamo riusciti attraverso tutti i sistemi di valutazione delle posizioni prima, delle performance poi, fino ad arrivare alla estensione dei sistemi di valutazione dalla fascia dirigenziale ai livelli inferiori.

Negli anni Ottanta c'erano dei piani di azionariato diffuso che sono stati realizzati, ma che non hanno ottenuto dei risultati rispetto alla fidelizzazione dei lavoratori nei confronti dell'azienda. Il sindacato aveva una posizione critica, tutto sommato povera di contenuti, senza avere la capacità di negoziare lo strumento né i criteri di valutazione su cui avrebbe potuto dire qualcosa. L'azione sindacale si riduceva più o meno a questo: se avete cento per dare gli aumenti di merito, lo stesso budget dovete darlo per gli aumenti salariali e su questo ci si scontrava. Perché se l'obiettivo era quello di usare la leva economica per migliorare la motivazione, migliorare il rendimento e premiare le persone, devo dire che tutti i soldi spesi nelle negoziazioni sindacali venivano percepiti dall'azienda come dei soldi mal investiti. Erano altri gli obiettivi, era avere la pace sindacale. Il sindacato diventava invece una variabile importante per gestire alcuni problemi come l'assenteismo, le ferie, le chiusure, le modifiche organizzative. Per fortuna in quegli anni grossi problemi di riduzione del personale e di razionalizzazione non ne abbiamo avuti.

Contrattazione

Per quanto riguarda la contrattazione aziendale credo che ci siano stati due periodi, uno prima dello Statuto di lavoratori e uno dopo. Prima dello Statuto i temi fondamentali erano gli aspetti economici, sempre, e i diritti sindacali. Dopo lo Statuto è proseguito il confronto sull’aspetto economico, anche se si è introdotta una variabile importante: si è cominciato a discutere del collegamento tra gli aspetti economici e la produttività. Il sindacato ha accettato il confronto sul miglioramento della produttività, purché questo avesse delle ricadute economiche positive non solo sull'azienda ma anche sui lavoratori.

La prima vertenza che ho seguito è stata quella per cui sono stato assunto in Ciba. Ero giovane e però avevo esperienza sindacale e ho dovuto occuparmi delle conseguenze della fusione tra Ciba e Geigy, perché c'era di mezzo un trasferimento di sede da Milano a Saronno. Per la prima volta c'erano stati degli scioperi. Occorre tenere conto che in quel periodo la Ciba, se c'erano degli scioperi, lasciava le persone a casa pagandole. Ci sono stati momenti duri perché, in particolare il management Geigy, che apparentemente sosteneva il trasferimento, in realtà strizzava l'occhio al sindacato e così i lavoratori di Milano si sentivano molto forti ed è stato difficile trovare un accordo che però poi venne raggiunto.

Ricordo tutto sommato con un certo piacere la vertenza dei capi area degli informatori medico scientifici, che erano impiegati di prima categoria, quando per la prima volta sono scesi in sciopero per degli aspetti economici. Ma in discussione allora c’era il loro ruolo e alla fine siamo riusciti a trovare un accordo abbastanza interessante.

Le fusioni, prima con Geigy e poi con Sandoz, sono state due vicende diverse. La prima è stata fatta in un periodo di vacche ancora molto grasse e tutto sommato si trattava di due aziende consorelle, diversa è stata la fusione con Sandoz, molto più traumatica, perché realtà diverse. Ciba Geigy era conosciuta come azienda farmaceutica, in realtà il business farmaceutico era un terzo dell'intera attività, poi c'erano le materie plastiche, l'agroalimentare e altro ancora. La fusione con Sandoz ha riguardato la parte farmaceutica, ma allo stesso tempo c'è stato lo scorporo di tutte le altre attività e questo è avvenuto in un periodo in cui il risparmio delle persone era una variabile importante e abbiamo iniziato a ridurre gli organici, però non con l'intensità che si avrà negli anni Duemila.

Welfare aziendale

In Ciba in termini di welfare la situazione era più arretrata rispetto a quella attuale. Questo perché in realtà non se ne sentiva molto il bisogno, intanto perché non c’era la necessità di utilizzare il welfare, come oggi avviene, come elemento integrativo della leva retributiva. Non si era ancora scoperto che il welfare, a parità di costi, dà maggiori vantaggi o, a parità di vantaggi, costa meno. Si usava di più la leva retributiva. Problemi pensionistici di fatto non ce n’erano, assistenza sanitaria poca. Negli anni Novanta si è cominciato a parlare di benefits, ad esempio con l'introduzione dell'auto aziendale.

Oggi la situazione è molto più avanzata sia in termini di contenuti che di strumenti e come possibilità di scelta. Per esempio, noi non avevamo piani di previdenza integrativi, non avevamo formule di assicurazione sanitaria, era più un welfare legato ad un paternalismo illuminato: colonie, feste per i dipendenti, dopolavoro, eccetera. Solamente verso la fine degli anni Novanta, quando si è cominciato a capire il problema delle pensioni, abbiamo costituito a livello di Federchimica il primo fondo integrativo. È stata una grossa cosa, però inizialmente non è che se ne sentisse molto il bisogno.