Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Impegno e passione. Gli anni caldi della Cisl in Lombardia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016
Se
si sentiva bussare al portone di casa, mio papà usciva su un terrazzino che
confinava con un'altra famiglia, lo scavalcava e andava nell'altra casa per
paura che lo venissero a prendere. Sono fatti che vivevo con grande tensione.
Papà
era un funzionario statale e durante l'occupazione non aderì alla Repubblica di
Salò e quindi non aveva uno stipendio. In quel periodo ci aiutò molto il parroco
e grazie a lui mia sorella, che si era già diplomata ed era iscritta
all'università, venne assunta come segretaria al liceo scientifico di Vercelli
che si stava costruendo proprio in quegli anni e con il suo stipendio abbiamo
vissuto. Papà era siciliano, la mamma napoletana. La mamma non ha mai lavorato.
La
sera della proposta di Marcone, quando ne ho parlato a casa, la mamma si è
subito preoccupata, mio papà invece, come sempre, mi ha detto: “Melino, se ti
senti di farlo, vai”.
L'8
agosto, con la mia valigetta, sono andato a Rovigo dove c'era Marcone. A Rovigo
c'era un ufficetto che era una topaia, una sede della Cisl verticale di tre
piani con due piccoli uffici per piano, con i pavimenti di legno, senza niente,
senza una lira. Io andavo la mattina presto a pulire l'ufficio, ho iniziato
facendo il fattorino e la sera scrivevamo le tessere. Mi venivano i crampi alla
mano perché bisognava scrivere ben tre coppie e gli iscritti erano circa
diecimila. Non avevo nessun incarico formale, ero il ragazzo di Marcone.
Da
fattorino, Marcone mi ha mandato a fare il capo lega in una struttura
commissariata. In quel periodo nella Cisl c'è stata la scissione della Uil, che
creava le proprie sedi. Dove c'erano dei socialdemocratici, in provincia e
anche in città, aprivano l'ufficio e noi dovevamo difendere le nostre sedi e
organizzare la presenza della Cisl. Era una lega tra Porto Tolle e Contarina.
Poi da capo lega sono diventato capo zona, infine Marcone mi ha voluto con lui
a Rovigo. Marcone, ottimo sindacalista, maestro, suonatore di violino, poeta,
non sapeva amministrare, lo imbrogliavano sempre, si fidava di me e mi ha detto
di tenere i conti. Allora sono andato in ufficio a Rovigo e lì ho iniziato a
fare di tutto. In quel periodo ho cominciato a toccare con mano la povertà.
Venivo da una provincia sì contadina, ma di un'agricoltura non ricca ma
comunque che assicurava una vita dignitosa, in particolare per coloro che
lavoravano nel riso. Lì invece era una povertà assoluta. In provincia di Rovigo
c'era l'imponibile di manodopera che assicurava che per ogni ettaro di terra
dovessero esserci tre lavoratori. Chi aveva 101 giornate di lavoro all'anno era
ricco, la stragrande maggioranza era "eccezionale", così si
chiamavano coloro che avevano 51 giornate che assicuravano l'assistenza
malattia e i contributi per la pensione, se avevano meno di 50 giornate non
avevano niente. I lavoratori agricoli della provincia di Rovigo avevano una
parte di reddito che derivava dalla meanda. La meanda era una percentuale sulla
raccolta del grano destinata a chi lo falciava e lo trebbiava. Con
l'introduzione delle macchine i proprietari non volevano più pagare questa
quota, inoltre questa quota veniva distribuita non solo tra i lavoratori
agricoli ma tra tutti. Così, ad esempio, il fattorino dell'Inam aveva una quota
di meanda che non aveva senso. Si trattava di un costume che arrivava da tempi
lontanissimi e noi andavamo negli uffici di collocamento a controllare la
divisione. Un beneficio importante per i lavoratori in provincia di Rovigo era
dato dalla campagna saccarifera, questa si divideva in due parti: una, la
raccolta delle bietole, la seconda, il lavoro di quaranta giorni in fabbrica
per trasformarle in zucchero. In provincia di Rovigo c'erano sette o otto
zuccherifici. Per avere questi posti la povertà si scatenava, erano lotte
incredibili. C’era una commissione istituita presso l'ufficio del collocatore alla
quale partecipavano anche i rappresentanti di Cgil e Cisl. Durante le riunioni
più volte si urlava perché quello che ottenevo io lo toglievo al rappresentante
della Cgil. Io avevo l'elenco dei nostri e li dovevo difendere. Una volta il
capo lega della Cgil della città di Rovigo - segretario della Camera del lavoro
della provincia di Rovigo era il senatore Bolognesi - tirò fuori la pistola e
la mise sul tavolo. Io che non avevo mai visto una pistola ho avuto una paura
da morire.
Quelli
che riuscivano a ottenere il posto venivano piangendo a ringraziare. Chi non
riusciva ad ottenerlo, ed erano tanti, erano lacrime e pianti. A Rovigo c'erano
diverse donne con più figli e non sposate, queste ci portavano i figli sulle
scrivanie e se ne andavano lasciandoli lì e allora dovevo chiamare i
carabinieri perché venissero a prendere quei bambini. Ho conosciuto in quel
periodo una realtà di povertà infinita.
A
Rovigo ho vissuto esperienze incredibili. Ho fatto comizi circondato dai
carabinieri. Ho fatto accordi separati senza la firma della Cgil. La Cgil
faceva sciopero e noi no. Erano battaglie dure, con urla in piazza. Lì ho
imparato innanzitutto cosa vuol dire tutelare i poveri, ho imparato le
difficoltà della vita dei poveri e ho imparato anche la grandezza del
lavoratore dell'agricoltura, una grandezza che era imperniata sulla famiglia,
perché era la famiglia che reggeva. Ho portato Benigno Zaccagnini, che era
ministro del Lavoro e poi siamo diventati molto amici, a vedere le case dei
contadini. Lui non si rendeva conto, non ci credeva, avevano il pavimento in
terra battuta, quando pioveva era un dramma, c'era un'umidità incredibile.
Ricordiamoci che il Polesine è sotto il livello del mare. Entrando in casa in
queste famiglie contadine la sera c'era sempre in tavola un po' di polenta con
qualche pomodoro e un salamino in mezzo al piatto. È stata un'esperienza che mi
ha formato, è lì che ho detto che avrei fatto il sindacalista per tutta la
vita.
In
quel periodo c'è stata la famosa alluvione del Polesine e io ero lì. Abbiamo
fatto un presidio in piazza a Rovigo per accogliere le persone che arrivavano
dalle zone alluvionate portate dai pompieri, dai soldati e distribuivamo delle
coperte e altri beni di prima necessità. La nostra era una presenza come Cisl,
anche se non eravamo in piazza con i nostri simboli. Avevamo di tutto e una
volta è arrivato anche un camion di cioccolato che abbiamo mandato indietro.
Serviva il pane non il cioccolato. Venne Alcide De Gasperi a incontrare il
prefetto e quando dissero che l'acqua stava andando verso l'alto Polesine
questi disse che se erano in montagna non potevano essere alluvionati, non
sapeva neppure che di montagne non ce n'era neppure l'ombra.
Ad
certo punto hanno proposto a Marcone di andare a Pavia e lui ha detto che
avrebbe accettato il nuovo incarico se io fossi andato con lui. Pastore ha
accettato e io nel ‘53 sono andato a Pavia. Sono passato da una situazione di
grande passione a una realtà fredda, incapace di socialità, che vive del
riflesso dell'Università. C'erano alcune grosse fabbriche come la Necchi e la
Necchi Campiglio, una fabbrica siderurgica, e alcune grandi aziende chimiche.
Avevamo un rapporto con le fabbriche molto difficile, mediamente buono con il
pubblico impiego e una assenza notevole nell'agricoltura. Andavo con il
motorino a casa del parroco a dirgli di darmi il nome di qualche cattolico, se
non democristiano, che sarei andato a parlargli per cominciare a costruire una
lega della Cisl, ma lui non ne conosceva uno. Questo perché lo stesso parroco
era proprietario per lasciti di diversi terreni e di una cascina e veniva
vissuto come un padrone non come sacerdote. A Pavia ho fatto un'esperienza
totalmente diversa rispetto a Rovigo, ho fatto il sindacalista in termini
tecnici e contrattuali in associazione industriali. In quel periodo, era il
1954, c'è stato il conglobamento delle diverse voci della retribuzione e questo
comportava che tutti i contratti provinciali dovevano essere adeguati e allora andavo
a discutere in associazione industriali, senza la Cgil perché non aveva firmato
l'accordo. Ho fatto molta contrattazione. Mi ricordo il contratto dei
fornaciai, i lavoratori delle aziende che facevano i mattoni, per fare il quale
abbiamo scioperato, urlato. Mentre a Rovigo facevo l'assistenza lì ho fatto il
sindacalista, ho iniziato a capire quanto è importante contrattare.
Lì
ho conosciuto mia moglie, che era impiegata presso l'associazione industriali,
e mi sono sposato.
Marcone
si è sposato con Luigina e ha avuto una bambina, Anna, che divenne medico e
morì in un incidente aereo con il marito andando a fare un viaggio in India. Da
segretario generale della Cisl di Pavia, viveva con moglie e figlia in una sola
stanza in un cortile di acciottolato, grandissimo, al termine di questo cortile
c'era una porta e lì c'era quella stanza. La stanza fungeva da cucina, camera
da letto, tutto. Per il riscaldamento aveva una stufa con il tubo che usciva da
un buco della finestra. Il gabinetto era dall'altra parte del cortile. Marcone
veniva a Vercelli con me tutti i sabati sera. Io andavo a casa da mia mamma e
lui andava a casa della famiglia della moglie, se non che anche questa era una
famiglia poverissima che aveva una stanza sola e Marcone dormiva con mio papà.
Non avevamo una casa abbastanza grande, così mia mamma dormiva da sola e mio
papà in una stanza dove c'erano due letti e con lui il sabato sera dormiva
Idolo Marcone. Marcone aveva le chiavi di casa mia e io per entrare aspettavo
lui. Aveva dieci anni più di me, era del ‘19.
Marcone
aveva un complesso e non faceva comizi all'aperto, così quando c'erano da fare
comizi lui stava accanto a me e li facevo io. Anche in un cortile non parlava,
al chiuso era bravissimo, ma all'aperto non riusciva a parlare. Marcone non
faceva niente se non c'ero io.
Ad
un certo momento al congresso sono stato eletto vice segretario della Cisl di
Pavia, con lo stipendio ma senza assicurazioni né assistenza malattia, non
avevamo niente. Mi occupavo del pubblico impiego e andavo in Provincia a
trattare con il presidente, una persona squisita che mi prese a benvolere e mi
ha proposto di andare a fare il capo del personale dell'amministrazione
provinciale con uno stipendio regolare e il doppio di quello che prendevo in
Cisl. Ne ho parlato con mio papà e lui mi ha detto: “Melino, fai quello che ti
senti nel cuore, i soldi contano poco”. E ho continuato a fare il sindacalista.
Questa è la risposta che ho dato più volte negli anni successivi a Brescia
quando mi hanno ripetutamente proposto di fare il senatore, il deputato,
bastava che dicessi sì. Ho lettere di Bruno Boni, di Pastore, telefonate di Bruno
Storti che mi sollecitavano ad accettare, ma io non ho mai accettato. Volevo
fare il sindacalista e ho fatto il sindacalista.
A
Pavia eravamo in due vicesegretari, l'altro era Franco Chiappella, che sperava
di diventare segretario generale, ma Pastore e Luigi Macario non erano
d'accordo.
Nel
1955 mi ha chiamato Pastore dicendomi che dovevo andare a fare il segretario
generale della Cisl di Rovigo. Con Pastore ho avuto molta confidenza, mi
chiamava e mi diceva: “Melino vai tu a ballare alle feste delle mondine perché
io ho vergogna, poi arrivo”. Sono stato a casa sua, alle feste di matrimonio
della figlia. Tutto questo attraverso Marcone che era un suo uomo.
A
metà luglio ero di nuovo a Rovigo, faceva molto caldo. In una sala che secondo
me era una stalla abbiamo fatto il consiglio generale con Macario e Marcone. Sono
stato mandato a Rovigo perché in quel momento segretario generale era Carlo Cibotto
che contemporaneamente era presidente dell'Azione cattolica, presidente delle
Acli, presidente delle cooperative cattoliche, direttore della Banca cattolica
del Veneto. Successivamente diventerà onorevole e io sono andato a fargli la
campagna elettorale. Pastore in quel momento non voleva più che il segretario
della Cisl fosse anche il presidente delle Acli e siccome Cibotto non voleva
lasciare quel mondo, aveva deciso che lo sostituissi io. Venticinque persone
che hanno alzato la mano, sono stato prima cooptato e poi eletto segretario
generale della Cisl di Rovigo. Questo capitava la domenica mattina. Il lunedì
mattina ho accompagnato alla stazione Macario e Marcone che partivano per Roma
e sono andato in ufficio dove ho chiamato il capitano Castellani. Era un
capitano di marina di lungo corso, amministratore della Cisl e gli ho chiesto
lo stato delle nostre finanze. E lui mi ha risposto che ero arrivato in un disastro,
che non avevamo una lira: “Dobbiamo pagare 400mila lire di stipendi a fine mese
e abbiamo i fornitori che ci corrono dietro perché non li paghiamo”. Era il 20
luglio, le nostre finanze ammontavano a 14mila lire. Nessuno mi aveva spiegato
questa situazione, allora ho chiamato Marcone e lui mi ha detto di andare da Cibotto.
Io ci sono andato e lui mi ha detto: “Pillitteri non si preoccupi, quanto ha
bisogno?”. Spiegata la situazione mi ha fatto un assegno di 500mila lire.
Portato l'assegno all'amministratore, questo era molto contento, abbiamo pagato
gli stipendi e qualche debito e cominciato a vivere. Però mi chiedevo da dove
arrivavano quei soldi e Cibotto mi diceva di non preoccuparmi. Capita che si
apre una vertenza con gli zuccherifici e con gli agricoltori, io faccio un
manifesto di fuoco contro questi che chiamavo sfruttatori della povera gente.
Il manifesto va in tipografia, ma la tipografia era del presidente degli
industriali. Mi chiama Cibotto e mi dice: “Melino, che cosa hai fatto? Hai
fatto un manifesto?”. “Certo onorevole, io faccio il sindacalista”. “Ma da dove
pensi che arrivino i soldi?”. Io credevo
che arrivassero dagli americani che sapevo ci stavano aiutando. “Si, arrivano i
soldi da Roma una volta al mese, ma non sono sufficienti”. “Onorevole mi
dispiace, ma io il manifesto non lo fermo, quello è e quello resta”. Al che
lui: “Va bene, ma fallo gestire da me”. Lui si giustificò con i suoi
interlocutori dicendo che ero giovane. Il manifesto fu un successone perché i
comunisti non facevano manifesti e io l'ho fatto per la prima volta. A Rovigo
c'erano solo due fabbriche, lo Iutificio di Lendinara e la Frag, che lavorava
la canna da zucchero per produrre delle melasse, una fabbrica grossa di quasi
seicento operai.
A
Rovigo ho conosciuto il prefetto e sono entrato in confidenza, andavo a cena da
lui insieme ad Antonio Bisaglia, Avezzù, l'onorevole Giuseppe Romanato e
l'onorevole Cibotto. Il segretario della Cisl a Rovigo era un'autorità, io
avevo 25 anni. La prima volta che sono andato dal prefetto mi ha detto: “Mi
scusi, ma lei è il figlio del segretario della Cisl?”. “No, sono io”.
Abbiamo
fatto una grande battaglia per smontare la meanda. Se quell’agricoltura fosse rimasta
ancora vincolata a quelle tradizioni contrattuali sarebbe restata sempre un’agricoltura
povera. Noi, d'intesa con la confederazione, volevamo rompere quella tradizione.
Segretario confederale era l'onorevole Enrico Parri, un repubblicano che non
era andato nella Uil ma era rimasto in Cisl. Aveva sposato in pieno questa tesi
ed è venuto a fare un comizio. Il primo passo è stato quello di dare la meanda
solo ai lavoratori agricoli eliminando tutti coloro che non c'entravano niente,
il secondo, dare la compartecipazione in una percentuale adeguata. Grazie alla
nostra azione è partita la ripresa dell'agricoltura del Polesine che oggi è uno
degli orti d'Italia.
La
Cgil ha organizzato uno sciopero contro l'accordo che è durato 57 giorni. Bisogna
ricordare che su 52 comuni della provincia 51 erano governati dal Partito
comunista. Lo sciopero ha bloccato in particolare le stalle creando delle
situazioni drammatiche. Il prefetto non sapeva più cosa fare. Organizzava i
crumiri che arrivavano da Ferrara per mungere le mucche. Li portavano con i
camion pagati dal ministero. Ad un certo punto è intervenuto Bisaglia, il
quale, essendo vicine le elezioni per il consiglio comunale di Rovigo, puntava
ad un accordo con i socialisti per conquistare l’amministrazione. In
contropartita i socialisti volevano che si modificasse anche in modo simbolico
l'accordo fatto dalla Cisl. Io mi sono opposto. Siamo andati dal prefetto io e
il presidente degli agricoltori. Ho ribadito la mia contrarietà a modificare
l'accordo e il presidente degli agricoltori ha addirittura detto che si sarebbe
fatto tagliare la mano piuttosto che firmare un accordo diverso. Ero convinto
ormai di aver chiuso la partita, ma la Democrazia cristiana ha convocato una
riunione per decidere come comportarsi e mi hanno invitato. Ero iscritto alla Democrazia
cristiana. Nell'esecutivo Bisaglia ha esposto la sua tesi e io la mia, ribadendo
che saremmo sempre andati indietro e il mondo del lavoro non sarebbe mai stato
nostro se non fossimo stati coerenti. Si arrivò alla votazione e tranne
Bisaglia e Zanforlini, tutti gli altri votarono a favore della mia tesi. Alle
elezioni sono stato eletto sia consigliere comunale che provinciale, subito
dietro gli onorevoli, e ho scelto il Comune, dove abbiamo fatto l'accordo con
una parte dei socialisti che avevano spaccato il partito e abbiamo eletto
sindaco un mio amico democristiano, Agostino Zorzato.
Andavo
a fare i comizi dove c'era lo sciopero. Uno di questi dovevo farlo a Stienta e
mi sono arrivate delle minacce con scritte per terra che dicevano che se fossi
andato lì a fare il comizio mi avrebbero ucciso. Sono andato lo stesso e mi
hanno fatto parlare dietro una finestra con il capitano dei carabinieri vicino.
Dalla piazza completamente vuota si vedeva il carabiniere e non me, c'erano
solo una o due persone, ma io ho fatto lo stesso il mio comizio, è stato un
intervento breve e avevo paura. Una sera, nella grande tensione delle sciopero,
mi ha chiamato il prefetto e mi ha detto: “Pillitteri, ce l'abbiamo fatta.
Abbiamo intercettato una telefonata tra il segretario provinciale del Pci e il
segretario della sezione di Stienta in cui il segretario provinciale dice che
bisogna smettere lo sciopero perché ha ragione la Cisl e bisogna firmare
l'accordo”. Pochi giorni dopo la Cgil ha firmato l'accordo e il segretario
della Federbraccianti fece un comizio in cui pubblicamente dichiarò che la Cisl
aveva ragione.
A
Rovigo ho fatto delle grandi esperienze, sono rimasto lì fino al 1960, fino a
quando mi hanno telefonato Macario e Marcone chiedendomi di andare a Roma che
dovevano parlarmi. Intanto ero diventato grande, avevo trent'anni. Volevano che
facessi il segretario generale nazionale della Federmezzadri, allora i mezzadri
avevano un sindacato separato da quello dei braccianti, ma io ho detto che a
Roma non avevo nessuna intenzione d'andare e che sarei rimasto a Rovigo. Passati
pochi mesi mi hanno detto che dovevo andare a fare il segretario generale
aggiunto della Cisl di Brescia perché la segreteria era in crisi. Ho risposto
che avrei accettato se fossi rimasto segretario generale della Cisl di Rovigo
perché lì avevo tutta la mia vita, gli amici. A Rovigo mi fermavano per strada,
tenevo l'ufficio aperto fino a mezzogiorno della domenica sempre pieno di
gente. Avevamo creato iniziative, eravamo vivaci e a quel punto i soldi
arrivavano. La proposta è stata accettata e così ho iniziato la mia attività
anche a Brescia dove c'era una battaglia in corso con i metalmeccanici, i
tessili e i chimici per l'incompatibilità. Qui c'era segretario generale un
deputato Angelo Gitti, segretario generale aggiunto l'assessore alle finanze
del Comune di Brescia Carlo Albini, il segretario della Fisba Piero Apostoli
era vice presidente dell'amministrazione provinciale con macchina e autista.
Allora era uno dei sindacati più grossi, con diecimila braccianti agricoli su
trentaduemila iscritti alla Cisl.
Quando
sono arrivato mi hanno portato a conoscere il vescovo ausiliario il quale, in
un salotto bellissimo, damascato, con un enorme vassoio di cioccolatini, mi ha subito
detto: “Sa Pillitteri, gli accordi sindacali si fanno in questo ufficio” Al che
ho risposto: “Eccellenza, io spero di fare gli accordi sindacali nella sede
dell'associazione degli industriali”. Non ho ceduto niente, mai, con le Acli
che credevano di essere padrone della Cisl. Mi ricordo che il segretario dei
tessili Dino Maceri in occasione del congresso venne da me e mi disse che aveva
saputo che le Acli stavano organizzando una fronda per farlo fuori. Io ero da
poco arrivato e gli ho risposto: “Dino, dei tuoi delegati sei sicuro?”. “Si,
sono sicuro”. “Allora non preoccuparti, vengo io a presiedere il congresso”. Ho
fatto un comizio dei miei, ha preso tutti i voti.
Ho
mantenuto il doppio incarico per un breve periodo, nel frattempo ho calmato la
situazione bresciana. A quel punto mi ha chiamato Gitti dicendomi che siccome
le cose stavano andando bene al prossimo congresso lui avrebbe fatto il
segretario generale e io l'aggiunto. Al che ho risposto che piuttosto che fare
l’aggiunto a Brescia sarei tornato a Rovigo a fare il segretario generale.
Questa mia dichiarazione ha creato una grande agitazione e i segretari generali
provinciali delle diverse categorie hanno scritto una lettera a Bruno Storti dicendo
che se fossi andato via si sarebbero dimessi tutti. Allora Storti ha incaricato
Dionigi Coppo di verificare la situazione. Lui è venuto su a Brescia, Gitti ha
lasciato la segreteria e l'hanno fatto presidente dello Ial nazionale. Io ho
fatto il congresso, l’ho vinto e sono stato regolarmente eletto segretario
generale. Era il 1961.
Ho
iniziato così pienamente la mia attività sindacale bresciana. In quel periodo
era in pieno sviluppo la battaglia per la politica salariale integrativa a
livello aziendale e la provincia di Brescia è una di quelle che ha fatto più
accordi per raggiungere i quali sono state fatte battaglie incredibili. Nottate
in prefettura, perché alla fine con il prefetto si affrontavano le situazioni
più complicate.
Noi
eravamo effettivamente forti, forse l'organizzazione che aveva più potere a
Brescia. Il sindaco Boni, che era anche il segretario della Dc, io e il
direttore dell'associazione industriali: questi erano i tre che comandavano a
Brescia. Durante una vertenza all'Olcese, azienda tessile di Cogno, eravamo in
trattativa presso il prefetto, avevamo fatto lunghi scioperi per rivendicare il
premio di produzione e chiedevamo oltre al premio anche una certa cifra per
coprire la parte di salario persa con gli scioperi. Ad un certo punto
l'amministratore delegato si è inginocchiato di fronte al prefetto che
sosteneva la nostra tesi implorandolo perché diceva di non avere più soldi da
dare agli operai. Allora io ho detto: “Eccellenza, mi chiami Franco Salvi”. Su
due piedi, col telefono di Stato, ha chiamato Salvi, deputato e segretario di
Aldo Moro, me l'ha passato e io gli ho detto: “Franco qui c'è bisogno di un
intervento del ministero che mandi dieci milioni al prefetto, il prefetto dopo
li dà all'Eca della Val Camonica e così noi abbiamo i soldi da distribuire ai
lavoratori”. L'importante era far avere i soldi lavoratori, non contava da che parte
arrivassero. Salvi mi disse: “Dammi qualche minuto”. Passati dieci minuti è suonato
il telefono, era il ministro dell'interno Emilio Taviani che chiamava il
prefetto annunciando che sarebbero immediatamente arrivati i dieci milioni
necessari. Risolta la vertenza, a Cogno è stata una grande festa.
A
Brescia abbiamo contrattato molto, avevamo i metalmeccanici molto forti, Franco
Castrezzati era il segretario della Fim e andavamo molto d'accordo. In quel
periodo abbiamo fatto gli scioperi contro il premio antisciopero all'Om,
abbiamo fatto battaglie incredibili alla Beretta. Quando facevamo i contratti,
con i siderurgici era facile perché l'incidenza del costo della manodopera era
basso, circa il 20%, i costi erano l'energia elettrica e la materia prima. Alla
Beretta il 90% del costo è dovuto alla manodopera e fare il contratto era un
problema, ma noi l’abbiamo fatto anche lì. La cosa bella di Brescia era che la
contrattazione non la facevano solo i metalmeccanici, ugualmente si contrattava
nelle aziende tessili, dell'abbigliamento, chimiche. Qui si faceva il vero sindacato
perché c'erano tutti i settori, dall'industria all'agricoltura. Ogni due anni
si faceva il contratto integrativo provinciale dell'agricoltura, c’era tutta
l'azione integrativa aziendale dell'industria, c’erano le battaglie per i
rinnovi dei contratti nazionali. In quel periodo eravamo sempre in movimento
tra scioperi, trattative, incontri.
Intanto
sono diventato membro della Camera di commercio, presidente dell'Inam. In quel
periodo abbiamo chiuso tutte le mutue aziendali che c'erano nelle grandi aziende,
perché fino a quando offrivano poco potevano funzionare, ma quando le
prestazioni sono cresciute non reggevano più e così le abbiamo assorbite
nell'Inam attraverso la contrattazione.
La
finanza cattolica a Brescia era importante, ci rispettava, ma non ho mai avuto
relazioni particolari. Ero amico di Giuseppe Camadini. Abbiamo gestito vertenze
delicate, come ad esempio all'Editrice La Scuola, che è di proprietà di
istituti religiosi, ma anche in quel caso non abbiamo mollato niente. È stata
una battaglia durissima per difendere i lavoratori, ma ce l'abbiamo fatta.
Nonostante questo mi chiamavano spesso in Curia, mi invitavano a parlare agli
incontri, facevo le relazioni alla settimana sul lavoro promossa dalla diocesi.
Andavo dappertutto, convegni, congressi, alle riunioni della Democrazia cristiana
e intervenivo sempre.
A
Brescia sono rimasto quindici anni e nell'ultima fase ero anche segretario
regionale della Cisl. Nel 1976 sono stato eletto segretario generale della Cisl
lombarda. Quando sono arrivato a Brescia avevo 32mila iscritti, quando sono
andata via ne avevo 80mila. Eravamo il primo sindacato, senza pensionati.
Avevamo ventimila iscritti tra i metalmeccanici, adesso sono diecimila anche
perché è diminuito il numero degli addetti.
Ho
allentato i rapporti con Carlo Borgomeo perché pretendeva o sperava che dopo di
me indicassi lui come mio successore. La storia di Brescia è la storia di
Brescia, dopo di me venne Castrezzati perché è sempre stato l'esponente di
punta, aveva anticipato il cambiamento.
Nell'ultimo
periodo bresciano ho avuto un ruolo importante a livello nazionale.
Inizialmente tramite Marcone. Storti, quando doveva mediare con lui, chiamava
me perché intervenissi per facilitare un accordo. Il periodo del regionale è
stato un momento di grandi riforme organizzative, abbiamo fatto il
decentramento con la nascita dei comprensori, le Unioni sindacali territoriali
al posto di quelle provinciali. Abbiamo avviato un rapporto molto forte con la
Regione attraverso due canali: con Giuseppe Guzzetti, col quale avevo un ottimo
rapporto, e con Filippo Hazon, e prima con Piero Bassetti e Cesare Golfari. In
Lombardia sono stato molto impegnato sul versante organizzativo, poco su quello
sindacale. Non avevamo una controparte imprenditoriale e tutto si giocava sui
servizi, sulla formazione professionale. Si gestiva, non si faceva sindacato.
Nel
1983 sono diventato presidente dell'Inas nazionale. Un giorno è venuto Franco Marini
a casa mia dicendomi che la segreteria nazionale aveva preso questa decisione
annunciandomi che me l'avrebbe detto Pierre Carniti, che allora era il
segretario generale della Cisl. In quei giorni Carniti aveva mandato una lettera
in cui diceva che si doveva ridurre di 120 unità il personale perché l'Inas era
in difficoltà e c'era un disastro finanziario, presidente era Alberto Gavioli.
Una settimana dopo l'incontro con Marini mi ha chiamato Carniti chiedendomi di
andare a Roma che aveva bisogno di parlarmi. Ho subito pensato “ci siamo”.
All'incontro con Carniti questi mi ha spiegato che avevano deciso il mio nuovo
incarico, ma subito si è reso conto che lo sapevo già: “Te l’ha detto quel
pettegolo di Marini”. Non ho mai avuto grandi simpatie per Marini. Quando è
arrivata la proposta di andare a Roma l'ho accettata volentieri perché non ero
molto entusiasta dell'esperienza regionale, anche se ho creato molti rapporti
personali.
All'Inas
sono rimasto benissimo per otto anni. Quando sono arrivato, in sede avevamo un
colonnello e un esercito di finanzieri che controllavano i nostri registi. Ho
costruito e gestito diverse sedi attraverso l'Inas. Quando la Cisl nelle
province non aveva i soldi glieli anticipavo io. La sede della Cisl di Bologna
è stata possibile grazie alle risorse del patronato. Sono venuti da me e mi
hanno detto: “Abbiamo una bella soluzione ma non abbiamo i soldi”. Noi abbiamo
anticipato dieci anni della nostra quota di affitto e con quei soldi hanno
acquistato la sede. Dappertutto dove c'era bisogno io intervenivo, avevo i
soldi e li davo a chi ne aveva bisogno. Durante il mio periodo abbiamo iniziato
ad attivare il sistema della delega.
Marini
poi mi ha detto che dovevo andare ai pensionati nazionali. Sono andato in
pensione e sono passato ai pensionati dove, con un'operazione preparata per
tempo, sfruttando l'esperienza dell'Inas e l'impegno verso la Fnp, siamo
passati da novecentomila a oltre due milioni di iscritti. Ho risolto un sacco
di problemi, da poveretti siamo diventati ricchi. Ai pensionati ho inventato la
categoria perché prima era un’associazione di beneficenza, faceva gite e poco
altro. Tre i presupposti necessari per fare sindacato: uno, l'organizzazione;
due, la controparte; tre, la capacità di rivendicare e quindi di essere
interprete delle esigenze di chi rappresenti. Ci siamo inventati come controparte
i Comuni. Volevo che Luigia Alberti si impegnasse nei pensionati a Milano perché
non ero contento della situazione milanese, ma non era convinta ed è venuta da
me a dirmi che la cosa non la interessava. Allora le ho chiesto di venire a
sentire la mia relazione ad un congresso territoriale e lei è venuta e si è
convinta, perché ha capito che si poteva fare sindacato davvero anche con i
pensionati.
Al
Cnel sono stato presidente della Commissione lavoro, previdenza e assistenza
sociale e successivamente sono stato sostituito da Cesare Regenzi.
Sono
sempre stato favorevole all'incompatibilità, il gruppo del Nord e
dell'industria era scatenato su questo, mentre gli altri erano freddi o
contrari. Abbiamo fatto questa battaglia con qualche ambiguità perché con noi
avevamo ad esempio Baldassarre Armato che un po’ era favorevole e un po’ no,
era sempre a metà. Nell'esecutivo nazionale prima del congresso Storti ha fatto
una proposta che ci ha superati tutti a sinistra, fissando le incompatibilità a
tutti i livelli. In quell’esecutivo ci fu una discussione molto forte. Coerente
come sempre, Coppo, senatore a Pinerolo, ha detto no ed è rimasto in Parlamento.
Nelle discussioni che hanno preceduto la decisione nazionale ci sono state
parecchie tensioni, inoltre in quel periodo Coppo aveva elaborato un progetto
di riforma della Cisl che prevedeva un cambiamento sul modello
dell'associazione industriali, trasformando i segretari generali in direttori,
tutti dipendenti della sede confederale. Con uno scontro con noi segretari che
assolutamente non volevamo la dirigenza.
C'è
stato il periodo di grande fulgore di Mario Romani. In quel periodo si diceva
tre volte Romani e una volta Cisl, si citava più Romani della Cisl. I segretari
dell'alta Italia, molti dei quali deputati: Cavalleri di Venezia, Vincenzo Casati
di Verona, Onorio Cengarle di Vicenza, Mario Toros di Udine, Gitti di Brescia,
Colleoni di Bergamo, Ettore Calvi di Milano posero la questione: “In Cisl
comanda Romani o comandiamo noi?”. Pastore lo venne a sapere e si arrabbiò
moltissimo. Convocò una riunione in via Tadino a Milano e fece un comizio di
fuoco dicendo che la politica non avrebbe mai potuto comandare la Cisl e la
Cisl doveva avvalersi dei tecnici, ma mai avrebbero dovuto essere al di sopra
dei dirigenti responsabili.
La
Cisl aveva sì qualche aggancio col mondo cattolico ma non strutturato, non
aveva legami forti con la politica seppure fossero quasi tutti democristiani.
Come ha fatto da niente a diventare quel che poi è diventata con oltre quattro
milioni di iscritti? Io ritengo che tutta la Cisl condivida un substrato di
ideali che vincola, che avvicina, che unisce, un insieme che la Cgil non ha.
Noi abbiamo un ceppo tutto nostro, costruito da noi, nel quale
l'incompatibilità, l'autonomia sono elementi forti della cultura della Cisl. Il
concetto di autonomia è così radicato nella Cisl che pur frequentando io ogni
ambiente, accettando inviti a cena da tutti, non mi passava neppure per la
testa che questo potesse mettere in discussione il mio grado di autonomia, che
potesse in qualche modo compromettermi, nessuno mi poteva toccare. Anche sul versante
dell'onestà. Il papà di Alberto Cavalli, che era presidente della provincia di
Brescia, mi diceva: “Melino, ma com'è possibile che tu non sia stato
invischiato in vicende tipo mani pulite, tu che avevi così tanto potere?”. E io
avevo effettivamente potere, ma mia moglie quando a casa riceveva certi regali
li mandava indietro.
Una
volta a Rovigo una persona portò a mia moglie una bottiglia di cognac e io le
dissi di mandarla indietro. Mi telefonò il negoziante dicendomi che era passata
da lui una persona che non conosceva pagando la bottiglia di cognac e dicendo
di portarla a Pillitteri, allora ho detto di mandarla in Cisl che l’avremmo
bevuta lì. Non sapevo chi potesse essere. Poi l’ho saputo. Era venuta una donna
da me con i figli a piangere per il marito disoccupato e io, con il Comune, ero
riuscito a farlo assumere come spazzino e questi mi aveva mandato la bottiglia
di cognac. Questo il concetto che avevamo noi di autonomia e l'autonomia faceva
crescere. Sono sempre stato democristiano, e anche focoso, ma questo non ha mai
condizionato le mie scelte sindacali.
Mi
sono impegnato per l'unità sindacale a Brescia. L'unica Unione in Italia che ha
detto sì all'unità con tutte le categorie, compresa la Federpubblici e la
Fisba. Venne Marini a scontrarsi con me, dicendo: “Io sono contrario, ma so già
che voterete come dice Melino”. Nelle altre province c'è sempre stata qualche
categoria che ha votato contro. C'era a Brescia una Cgil guidata da una persona
squisita, Giovanni Foppoli, che riconosceva che la supremazia in una prima fase
sarebbe stata della Cisl. Non lo metteva nessuno in dubbio e quindi abbiamo
vissuto l'unità positivamente. Incomprensibilmente, come si sia rotto tutto
questo non l'ho mai capito fino in fondo.
Sono
sempre stato schierato con la sinistra della Cisl, noi dicevamo che il pubblico
impiego era il ventre molle dell'organizzazione. Erano grandi battaglie
politiche a differenza di oggi. Lo scontro tra tesi uno e tesi due è stata un'occasione
di crescita.
Quando
si è capito che l'unità non si poteva più fare, un pezzo di Cisl è emersa
pensando di giocare la partita della rottura. Scalia è passato dall'estrema
sinistra all'altro versante. Nel periodo della sinistra Scalia a Brescia è
stato quello che ha fatto il comizio più incendiario. In Piazza della Loggia,
davanti a diecimila persone, ha detto che il direttore dell'Unione industriali
Dino Solaini e il direttore del giornale di Brescia Vincenzo Cecchini facevano
rima con cretini. Mi ha telefonato Cecchini urlando. Scalia è entrato in Cisl
da laureato, è diventato presidente dell'Inam di Catania e da lì ha fatto tutta
la carriera studiando da deputato.
La
Dc di Flaminio Piccoli era parecchio tentennante sulla vicenda che si stava creando
all'interno della Cisl con il rischio di rottura. Ho parlato con Mino
Martinazzoli e, verificato che era contrario a una spaccatura, gli ho chiesto
di intervenire. Ci siamo trovati nella vecchia farmacia del papà di Salvi io,
Tarcisio Gitti figlio di Angelo, l'onorevole Padula, Martinazzoli, Salvi,
Onofri e ho raccontato come stavano le cose. Allora Martinazzoli ha scritto una
lettera a Piccoli nella quale diceva che doveva essere chiaro che se si spaccava
la Cisl si spaccava anche la Dc perché loro non l'avrebbero mai accettata. Non
so se è stata determinante, ma certo da quel momento la situazione è cambiata.
Me lo ha raccontato Salvi, che era sempre nella segreteria di Moro e aveva un
suo ufficio in Piazza del Gesù. Mi telefonava dicendomi che c'era Scalia che
stava delle ore ad aspettare di essere ricevuto da Piccoli e Piccoli alla fine
non lo riceveva più. Avuta questa notizia ho telefonato a Storti raccontandogli
della lettera di Martinazzoli e dicendogli che Scalia se ne stava
nell'anticamera di Piccoli. Se si fosse arrivati alla rottura a Brescia avevamo
la Fisba che avrebbe aderito alla scissione e poco altro, perché credo che
anche all'interno del pubblico impiego non molti li avrebbero seguiti. Il
pericolo scissione c'è stato, l'autonomia e l'incompatibilità hanno portato a
questo.
Purtroppo
l'unità nazionale è arrivato dopo il fallimento dell'unità sindacale, perché se
fosse arrivata prima molte cose sarebbero cambiate. Noi l'abbiamo vissuta in
difesa, non dalla politica ma da noi stessi. Avevamo il terrorismo in casa. Io
andavo a Treviglio a difendere il povero segretario Vincenzo Bombardieri che
tremava come una foglia davanti agli estremisti della Fim. Ne avevamo parecchi.
È venuto da me il presidente delle Acli, Beppe Anni, un cattolico, dicendomi
che mi avrebbe portato dentro la Cisl il suo gruppo che era composto tutto di
persone di estrema sinistra, extraparlamentari. Gli ho risposto che lui non
avrebbe portato proprio niente perché non potevo accettare che in quel modo si
appropriasse della Cisl e gli ho detto che se fosse successo io me ne sarei
andato. Gli ho detto che in Cisl spazio per lui non ce n'era. Foppoli mi
diceva: “Melino, dovevi prenderteli tu!”. Erano tutti cattolici di estrema
sinistra. La moglie di Luigi Bazoli, fratello del banchiere, che è morta con la
bomba di Piazza della Loggia, era una insegnante appartenente a quel gruppo.
L'arrivo
dello Statuto dei lavoratori l'abbiamo in qualche modo subito e poi utilizzato.
Era l'evoluzione dei tempi, in quei momenti c'era molta sensibilità e duttilità
politica. Noi avevamo dirigenti di grande livello. Lo stesso Marini, con cui
non sono mai stato in sintonia e l’ho spesso criticato perché avevamo mentalità
molto diverse, è stato un buon dirigente. Non parliamo di Carniti. Storti era un
animale politico tra i più grandi, più di Pastore. Pastore era un passionale, Storti
era un'intelligenza politica notevole. Storti, quando ha capito che il gruppo
di Macario e Carniti si indirizzava verso una certa linea ha fatto il congresso
"Potere contro potere" con una relazione scritta da De Panfilis che
ci ha spiazzato, è andato al di là delle nostre posizioni. Una seconda volta ci
ha scavalcati come aveva già fatto sul tema dell'autonomia, quando ha sostenuto
che nella difesa dei lavoratori dovevamo andare al di là della fabbrica,
difendere i lavoratori in quanto cittadini e quindi porre il problema delle
pensioni e delle altre riforme.
Bisogna
scontrarsi, confrontarsi dentro l'organizzazione, avere due tesi vuol dire
creatività, vuol dire impegno. Noi ci impegnammo su tesi uno e tesi due in una
maniera notevolissima. Io ho sempre votato contro Storti, in esecutivo
nazionale eravamo cinque o sei ed io ero segretario di unione non di categoria,
per loro era più facile, mentre nelle unioni c'erano categorie che avevano
posizioni diverse. Questo atteggiamento è stato utilizzato anche in occasione
dello Statuto dei lavoratori. La Cisl era contro la legge, ma intelligentemente
ha gestito il passaggio al nuovo strumento.
E
difficile dire quanto le idee e la cultura della Cisl abbiano inciso nella
trasformazione del Paese, io penso di sì, ma molto è dipeso dagli uomini. In
certe fasi storiche gli uomini della Cisl, portando avanti il pensiero della
Cisl, hanno inciso notevolmente. Gli uomini. Il pensiero della Cisl in sé,
direi non fortemente, ma gli uomini della Cisl, forti di quel pensiero, sono
riusciti a incidere, a contare, a realizzare e a ottenere. Ho questa
convinzione. Non posso dire che nello sviluppo della democrazia italiana il
pensiero della Cisl sia stato uno degli elementi determinanti, ritengo però che
gli uomini dell'organizzazione, interpreti autorevoli di questo pensiero, con
grande sensibilità politica, abbiamo inciso. In un rapporto tra un vertice
democristiano e un vertice cislino non era il pensiero della Cisl, era la
capacità di chi rappresentava la Cisl di portare avanti il pensiero della Cisl
a influire su quella realtà. Io ho fatto così.
L'esperienza
sindacale è la mia vita, tutto. Non ho un rimpianto, ho fatto fare qualche
sacrificio alla mia famiglia ma sopportabilissimi. Ho sempre vissuto solo del
mio stipendio. Mia moglie si è adattata alla nostra vita, non ha mai chiesto
niente. Non ho mai portato la famiglia a Roma. A un certo momento ero
presidente dell'Inam, Coppo ha stabilito che i presidenti avrebbero avuto
25mila lire, allora lo stipendio era di 67mila lire al mese. In quel periodo
sono diventato ricco. Un altro momento in cui ho potuto mettere da parte
qualcosa, comprarmi la casa al mare, è stato quando da pensionato, a
sessant'anni, ho continuato a lavorare. Queste sono state le occasioni in cui
ho avuto dei vantaggi personali. Io ho vissuto bene, sono sempre stato contento.