mercoledì 20 maggio 2020

TINO PEREGO 1 - Falck Concordia – Sesto San Giovanni (Mi)

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Dall’oratorio alla fabbrica. Il sindacato bianco nella Stalingrado d’Italia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007

Sono nato il 24 gennaio 1948 a Monza. Ho frequentato le tre classi di avviamento al lavoro più due anni di addestramento professionale per elettricista installatore nella scuola dei Salesiani di Sesto San Giovanni. La scuola era sostenuta dalla Falck e chi frequentava quel corso, se aveva almeno 9 in condotta e 9 in profitto, riceveva un premio: il 50 per cento corrisposto alla fine del trimestre, il resto al momento dell’eventuale assunzione in Falck.
Mio padre lavorava alla cooperativa San Clemente di Sesto San Giovanni, nel 1948 si è trasferito al Villaggio Falck  a gestire il circolo cattolico San Giorgio. La mia famiglia è andata a vivere lì nel 1951. La  San Clemente era la cooperativa bianca, legata alla Chiesa, e si contrapponeva alle cooperative rosse. In ogni quartiere di Sesto c’era il circolo cattolico, che era collegato a questa cooperativa, e il circolino dei comunisti. Quello vicino al San Giorgio era il circolo “Martiri e caduti”.  Erano entrambi ospitati in strutture dell’azienda, insieme all’asilo, la scuola, la chiesa. Nel villaggio Falck tutto apparteneva all’azienda e la vita girava attorno alla fabbrica. Sentire il peso della presenza del padrone era normale
Ho iniziato a lavorare l’1 settembre 1964 in una piccola azienda artigiana. In Falck sono entrato l’1 marzo del 1966, giorno di sciopero per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici. Alla fine di quel mese, nella mia prima busta paga, ho trovato il restante 50% del premio che avevo conquistato a scuola.
Sono stato assunto come manovale specializzato elettricista. Per i primi tre mesi sono stato in diversi reparti per addestramento, poi sono passato elettricista, a giornata. Dopo il servizio militare, nel giugno del ’69, ho cominciato a fare i tre turni al laminatoio. Nel frattempo ero diventato operaio qualificato.
Appena arrivato in Falck un operaio specializzato, che conosceva mio padre e sapeva la nostra appartenenza al mondo cattolico, mi ha avvicinato e mi ha detto: “Sarà meglio che ti iscrivi alla Cisl, visto che tu sei della nostra banda”.
Ho preso la tessera della Fim. Non ho vissuto il ’68, né la prima parte del ’69 perché ero in caserma. Ripetutamente sono stato sollecitato a impegnarmi attivamente, fino a quando, nel 1970, mi hanno proposto di diventare rappresentante sindacale aziendale nella rsa della Fim. Nel 1971 sono stato eletto delegato del mio reparto. Ho cominciato a partecipare al coordinamento del gruppo Falck per lo stabilimento Concordia, iniziando anche a prendere parte alla vita dell’organizzazione sindacale. Ero presente al congresso di scioglimento della Fim milanese per la costruzione del sindacato unitario. Il 1° aprile del 1974, ero stato da poco rieletto nel consiglio di fabbrica, ho lasciato la Falck per fare l’operatore a tempo pieno a Sesto San Giovanni.
Negli anni in cui ho iniziato a impegnarmi nella rappresentanza sindacale aziendale ero molto attivo in parrocchia, insieme a un bel gruppo di giovani. Quando mi proposero di fare il rappresentante sindacale, una sera ci siamo riuniti in oratorio per decidere se dovevo accettare, perché in quel caso avrei dovuto abbandonare l’attività del gruppo. Insieme decidemmo che potevo dedicarmi all’azione sindacale e quindi lasciare l’impegno in parrocchia.
Il mio primo incontro con il mondo cattolico e l’attività nel sociale è la stata la partecipazione a un corso di formazione organizzato dalle Acli di Milano al castello di Monguzzo. Un’esperienza educativa, che preparava all’attività nel mondo del lavoro.
La mia vicenda, come delegato prima e come sindacalista poi, è stata fortemente segnata dall’appartenenza al mondo cattolico. Per me è sempre stata la continuazione naturale di uno impegno iniziato in parrocchia. Nel mio gruppo discutevamo dei problemi dell’azienda, del lavoro. Le mie scelte erano in qualche modo condizionate da quel clima, da quel sentire condiviso. Nei primi anni, e fino al 1970, pur essendo iscritto alla Fim, quando c’era uno sciopero io correvo al mio oratorio per seguire le numerose attività cui prendevo parte.

In fabbrica trovavo facilmente la sintesi sui problemi dei lavoratori anche con la Fiom, perché quando sei in reparto, lavori davanti a un forno o su un laminatoio, fai i turni, la situazione è la stessa sia che sei comunista, socialista o cattolico. A volte c’erano dei socialisti che assumevano atteggiamenti molto polemici nei miei confronti, e dei cislini in genere, solo per la nostra appartenenza alla Chiesa, per il fatto di essere credenti.  Erano anticlericali. I comunisti, su queste versante, difficilmente mi attaccavano. C’erano delle differenze sulla concezione della persona, sul rapporto con lo Stato, sull’organizzazione del sociale, ma occorre tenere conto che quelli erano momenti di forte spinta unitaria.
Certo, i compagni della Fiom tendevano sempre a considerare i cattolici come democristiani, per loro era difficile capire che, pur essendo cattolico, potevi non essere Dc e che il tuo agire non era in funzione del partito ma in funzione della tua fede. Così, quando i compagni della Fiom volevano accusarmi di essere di destra, dicevano che ero un cislino democristiano, quando mi accusavano di essere un estremista extraparlamentare dicevano che ero della Fim.
Lo stesso problema, ma sul versante opposto, l’avevo con i democristiani, che mi criticavano per non appartenere alla sfera politica o alla tradizione sociale del nostro mondo. Tra i giovani fimmini e una parte dei vecchi attivisti della Cisl ci furono contrasti abbastanza aspri, ma non erano generalizzati, perché l’esperienza della Dc sestese faceva riferimento alla Base e a Forze Nuove, l’area sociale della Dc. Tra i tanti lavoratori che arrivavano dalla Brianza e dalla Bergamasca, invece, c’erano molti che appartenevano a componenti più di centrodestra della Dc, più tradizionalisti. Ma se qualcuno della Fim veniva attaccato erano tutti pronti a difenderlo, indipendentemente dalla sua posizione. Anche nel Pci c’erano anime diverse, ma il controllo sulla Fiom e sulle fabbriche era tutto nelle mani del Partito comunista.
Nel mio reparto non c’era una cellula, ma nello stabilimento si. In gran parte i leader della cellula e della Fiom erano le stesse persone.

Sesto fu la prima sede della Flm, la Federazione dei lavoratori metalmeccanici unitaria. Ho partecipato all’inaugurazione degli uffici, in via Benedetto Croce, nel 1972. C’era Bruno Trentin alla sera alle 17,30. Abbiamo fatto un po’ di festa e mangiato i pasticcini. In quel momento gli iscritti, tra i metalmeccanici nella zona di Sesto, erano 29mila. Insieme si decidevano i contenuti per le piattaforme aziendali e si spingeva perché venissero raggiunti in tutte le fabbriche, dove erano occupati 44mila metalmeccanici.
La Fiom, a Sesto San Giovanni, in quel periodo era guidata da Antonio Pizzinato, la Fim da Giampiero Colombo.
Essendo la Falck costituita da diversi stabilimenti, le politiche dell’azione sindacale erano decise in gran parte dalle strutture esterne alla fabbrica, sempre però in rapporto con il coordinamento di gruppo. I problemi tra Fim, Fiom e Uilm nascevano a livello provinciale o nazionale, soprattutto su questioni di linea generale dell’organizzazione. Poi queste si ripercuotevano anche dentro il coordinamento.
Al Concordia, su 32 delegati, eravamo: 5 della Fim, due della Uilm e tutti gli altri della Fiom.
Il rapporto tra noi e Fiom, però, è sempre stato di pari dignità. Anche perché contava il peso dell’organizzazione che avevo alle spalle e quando prendevo delle posizioni si sapeva che in quel momento io rappresentavo la Fim.
L’esperienza mi ha insegnato che anche i capi ti valutavano per ciò che dicevi, per il grado di rappresentatività che avevi nello stabilimento e il tuo senso di responsabilità sul lavoro. Tanto più eri credibile tra i lavoratori, tanto più eri ascoltato dalla direzione, anche se eri in minoranza dal punto di vista numerico.

A Sesto la Falck aveva diversi stabilimenti: l’Unione, che era il più grande, il Concordia, il Vulcano e il Vittoria. Abbiamo fatto numerose vertenze di gruppo. La più significativa cui ho partecipato è stata quella per il superamento delle paghe di posto e l’introduzione dell’inquadramento unico professionale. La piattaforma si costruiva nell’ambito del coordinamento Falck, con i dirigenti sindacali esterni ma con una forte partecipazione dei delegati di reparto. Per preparare le richieste, in quell’occasione, abbiamo condotto un’indagine accurata, con un questionario, ricostruendo tutti i sistemi retributivi esistenti nel gruppo.
Gli scioperi si decidevano a livello di gruppo, ma poi si organizzavano nell’ambito degli stabilimenti. Abbiamo fatto scioperi a scacchiera, il massimo dell’esasperazione. Ogni reparto scioperava indipendentemente dalle fermate degli altri. Dentro ogni reparto, poi, si articolavano ulteriormente: quando scioperavano i gruisti si fermava tutto il reparto, quando i gruisti lavoravano si bloccavano i forni a caldo, di fatto lo sciopero di poche persone impediva a tutti gli altri di lavorare. Avevamo però un’attenzione, ed era quella di non rovinare gli impianti. Perché quando c’era l’acciaio nel forno non ci si poteva fermare, altrimenti si distruggeva tutto. Così calcolavamo i tempi e, quando era il momento giusto, suonavamo una campana e gli operai si fermavano. In quel modo l’azienda non sapeva mai quando il reparto si sarebbe bloccato. Quando gli scioperi non erano a sorpresa, si affiggevano gli elenchi degli orari nelle bacheche in portineria, reparto per reparto. Erano fogli lunghissimi, scritti con pennarelli colorati e zeppi di orari. Al mattino alla cinque, al cambio di turno, eravamo davanti ai cancelli a distribuire i volantini, uno a uno, ai lavoratori che entravano a quell’ora. C’era un rapporto molto diretto tra delegati e operai. Durante la vertenza abbiamo ricevuto una busta paga dimezzata perché l’azienda ha trattenuto tutte le ore di fermo e non solo quelle di sciopero effettivo. Ma alla fine abbiamo vinto.

In occasione di quelle lotte e del cambiamento di quegli anni, più di uno dei vecchi membri di commissione interna decise di lasciare la Cisl, perché ci giudicavano estremisti, dicevano che non si riconoscevano più in noi, che stavamo sempre con i comunisti. Le adesioni alla Fim, però, non diminuivano, anzi crescevano.
Insieme a un delegato della Fiom eravamo i due leader dello stabilimento, ci muovevamo continuamente in fabbrica e ci chiamavano il diavolo e l’acqua santa.
In una situazione di scontro così duro, la Falck iniziò a far sentire il proprio peso negli oratori e nelle parrocchie. Mentre prima contribuiva con continuità alle loro attività, grazie a significativi aiuti economici, quando negli anni ’70 abbiamo cominciato con le mobilitazioni ha iniziato a tirare il freno. Perché anche il mondo cattolico non era estraneo alle battaglie dei lavoratori e in qualche modo le sosteneva. Alla Falck di Bolzano, a un cappellano che si era schierato dalla parte dei lavoratori venne impedito di entrare in fabbrica.

Nel 1974 c’è stato il primo rinnovo dei consigli di fabbrica. Si votava su scheda bianca, ma Pizzinato e Colombo dissero che si doveva destinare una quota alle tre organizzazioni, così come avevano deciso le segreterie nazionali. Ci sono state parecchie discussioni e io ero per il voto libero.
Alle elezioni avevo il sostegno di quasi tutti i miei compagni di reparto, pur essendo la Fim in minoranza. La gente ti valutava per ciò che dicevi. Ovviamente gli schieramenti contavano. C’erano anche quelli che criticavano tutti quanti. Un’esperienza che mi ha colpito è stato il constatare che nei luoghi di lavoro coloro che ti criticavano maggiormente, che rivendicavano più salario, non erano le persone che facevano fatica ad arrivare a fine mese, che avevano famiglie numerose da mantenere, ma quelli che prendevano di più e stavano meglio. Gli altri, normalmente, usavano maggiormente il buon senso ed erano attenti all’insieme delle questioni. In loro c’era maggiore dignità.
Infine, c’erano i tromboni. Erano dei capipopolo, presenti in alcuni reparti. Non erano delegati e non volevano diventarlo perché questo voleva dire rinunciare alla carriera e alle retribuzioni più alte. La loro azione non aveva un significato politico o di organizzazione, ma erano in grado di indirizzare il reparto.
In acciaieria c’erano le posizioni più dure, spesso gli operai si muovevano autonomamente, anche se erano iscritti alla organizzazioni sindacali, decidendo anche scioperi a oltranza. Una sera, una squadra dell’acciaieria decise di fermarsi. Ero a casa e fui costretto a tornare in azienda e tenere un’assemblea dalle 22 alle 2 di notte per convincerli a riprendere il lavoro e continuare la lotta in modo articolato. Anche questo era la normalità in quegli anni.
Ho fatto assemblee durante le quali alcuni operai mi hanno lanciato contro l’elmetto. Lo vedevo arrivare dal fondo della sala diritto verso di me e dovevo  scansarmi per evitare di essere colpito. Finita l’assemblea eravamo di nuovo amici. Le assemblee erano vivaci, infuocate, si urlava e per non farsele sfuggire di mano occorreva tenere il tono degli operai, mettendoci però anche i contenuti.
Un conflitto aspro si è avuto quando abbiamo proposto una modifica dei turni, era una soluzione che migliorava la loro situazione, ma in acciaieria i turnisti si opposero, accusandoci di essere dei venduti, di prendere le bustarelle del padrone. Noi ci preoccupavamo di fargli avere un numero maggiore di domeniche di riposo, loro erano contrari al cambiamento e volevano solo più soldi. Nessuno li organizzava, le loro posizioni nascevano da una situazione pesante, dalle dure condizioni di vita e di lavoro degli operai siderurgici, persone che si alzavano alle quattro del mattino per arrivare dalle valli bergamasche, non era una questione di schieramento. Un anno dopo, passando da sindacalista nei reparti, più di un operaio mi ha fermato per dirmi che i nuovi turni avremmo dovuti farli prima. Avevano sperimentato concretamente i vantaggi della turnazione diversa ed erano contenti.