Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Angeli senza ali. Morti bianche e sicurezza sul lavoro. Il caso Lombardia”, a cura di Costantino Corbari e Angelico Corti, Edizioni Lavoro, Roma, 2008
Cercavamo i cantieri guardando le gru
Investire in sicurezza sembra non convenire, dunque, nonostante le multe da pagare e nonostante il rischio di fermo dei lavori. A sentire le testimonianze degli addetti ai lavori la battaglia su questo fronte è ancora lunga. Mario Dolcini dal ’96 è Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale (Rlst) per l’Asle, l’associazione per la sicurezza dei lavoratori dell’edilizia di Milano e Lodi. È stato nella squadra dei primi Rlst «creati» dal Decreto legislativo 626. Ne ha viste di cose, in più di dieci anni. E a pochi mesi dalla pensione ha accettato di raccontarci la sua esperienza.
Andavamo a cercarci i cantieri guardando le gru. Siamo partiti così Un altro mezzo per sapere dov’erano i cantieri era avere accesso alle notifiche preliminari inviate all’Asl e alle direzioni provinciali de. lavoro, con l’escamotage che il Dlgs 626 prevede che anche gli Risi debbano essere informati su quello che fanno gli organi di vigilanza. Siamo andati nei vari distretti delle Asl, con il beneplacito del comitato paritetico territoriale, a cercare di vedere queste notifiche preliminari. Ed è stato un macello: non erano classificate, non erano schedate, molte erano inutili perché venivano mandate in ritardo. Allori ci siamo detti: partiamo, andiamo noi a cercare le gru.
Eravamo all’inizio, i primi responsabili dei lavoratori per la sicurezza territoriali. In realtà ho cominciato come coordinatore per la sicurezza, ma fatto l’accordo nel ’96 per regolamentare il numero degli Rlst, stipendio e mobilità sul territorio, nel ’98 si è cominciata operativamente con l’individuazione di sei rappresentanti territoriali, due per ogni sigla sindacale. Coprivamo tutto il territorio, in un attore che è cresciuto a livelli impressionanti: adesso sono 57 mila addetti. Le imprese sono poco più 20 mila. Abbiamo ovviamente cominciato con un corso di formazione, dopo l’assunzione, con un programma ad hoc. E poiché con noi c’erano anche gli Rlst di Sondrio e due di Mantova hanno potuto organizzare un corso mirato: c’era il numero e la formazione è stata su misura. Cosa che adesso non può succedere, perché gli Rlst si rinnovano in pochi ogni volta, quindi devono inserirsi in corsi già programmati. Noi eravamo i primi e solo per noi hanno organizzato un corso di circa 200 ore, al comitato paritetico territoriale, in cui ci hanno dato nozioni di informatica e tecniche.
Siamo partiti con il lavoro vero e proprio verso l’inizio del ’99. Abbiamo cominciato a uscire in cantiere. Non è stato facile. Gli accordi prevedevano che fossimo chiamati dalle imprese che non hanno i Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. Certo i nostri capi ci avrebbero tenuto volentieri in ufficio, anche perché c’era tutto da fare, da costruire. Dai moduli agli schedari, agli archivi, non c’era niente. Abbiamo dovuto creare dal nulla tutta l’attività. Siamo partiti con un esperimento: abbiamo preso un questionario-tipo sul cantiere e sull’impresa e ci siamo detti «cominciamo con questo, andiamo nei cantieri pubblici, dove non ci possono proibire l’accesso, e cominciamo a far compilare il questionario, per vedere qual è la situazione». Poi man mano il lavoro è progredito. E abbiamo deciso di andare a cercare i cantieri privati, dov’era più difficile entrare.
Il nostro regolamento dice che dobbiamo dare il preavviso, a meno che non ci siano situazioni disastrose. In generale solo in un secondo momento possiamo presentarci, chiedere la documentazione ed esaminare il cantiere. E quando entri vedi subito se non è messo bene. Ci sono i segnali: o gente che scappa, o sporcizia ovunque, o il ponteggio che non è fatto bene. Il colpo d’occhio rende l’idea, capisci se un cantiere ha bisogno di una bella sistemata. E allora cerchi di dare indicazioni per migliorare le cose, anche se non sarebbe nostro compito dare indicazioni tecniche, dovrebbe essere un operatore del Comitato tecnico territoriale. Però io non posso esimermi. Non posso andare in un cantiere che è messo male e non essere tecnico. Devo comunque suggerire due o tre soluzioni, non posso dire «il ponteggio non va bene» e fermarmi lì. Devo dare indicazioni e poi controllare successivamente che siano state eseguite. E non ci sono solo carenze materiali: molti non eleggono gli addetti al pronto soccorso d’emergenza, molti altri non nominano il responsabile del servizio di prevenzione. All'inizio, ad esempio, abbiamo fatto una grossa battaglia perché non trovavamo mai i resoconti delle visite mediche. Adesso la situazione è notevolmente migliorata, è difficile che le visite non si facciano, ma dieci anni fa erano un’eccezione.
Del resto, il rapporto con le aziende col tempo è molto migliorato. I primi anni abbiamo ricevuto talmente tanti rifiuti di ingresso in cantiere che li abbiamo raccolti. Ed erano moltissimi. Adesso i rifiuti scritti arrivano in qualche raro caso, ormai si lavora a traino delle imprese. Avendo consolidato il rapporto, sono sempre più le aziende stesse che ci chiamano e chiedono di essere rappresentanti della sicurezza dei lavoratori, abbiamo moltissime richieste di adesione al servizio. Il motivo è semplice: noi siamo già inseriti in una struttura autonoma, siamo già pagati e formati, oltre che legittimati dalle organizzazioni sindacali.
Il risultato è che non abbiamo più il tempo di andare a cercare noi il cantiere. A volte addirittura andiamo a fare dei sopralluoghi su richiesta delle Asl, che sono talmente oberate e hanno così pochi operatori che non riescono a farlo loro. Stanno aumentando anche le segnalazioni da parte dei lavoratori, cosa che una volta assolutamente non succedeva: in tutti questi anni mi sarà capitato solo in due o tre casi.
Finalmente, oggi, raccogliamo i frutti del lavoro di quasi dieci anni, riusciamo ad avere la documentazione a posto e addirittura in molti casi ci chiamano le stesse aziende per verificare che tutto sia a posto.
Ormai ben poche aziende usano il fai da te, l’informazione è cresciuta. Però, c’è un però. I subappalti sono ormai la prassi dominante, soprattutto nei cantieri grandi. E molti coordinatori dei lavori, che si occupano anche della sicurezza, quando prendono in mano il cantiere cercano di imporre il massimo dei subappalti. Il loro compito dovrebbe essere quello di proporre al committente delle alternative, di frenare queste dinamiche, ma pochi lo fanno. Il risultato è che il coordinatore dei lavori potrebbe essere una delle figure centrali per la prevenzione degli incidenti e invece non è così, forse anche perché non ha abbastanza potere.
Del resto, nei cantieri ormai sono tutti specializzati: c’è l’impresa che fa le palificazioni, quella che fa gli scavi. E sono imprese di padroncini, che arrivano con i camion e utilizzano i lavoratori a giornata. a cottimo. Poi arrivano i ferraioli assieme ai carpentieri. E sono altre specializzazioni. Poi quelli che fanno i muri divisori, poi gli impiantisti, poi gli intonacatori, i gessisti e i lattonieri. Il problema è che si passano il lavoro di mano in mano. I datori di lavoro di imprese grosse hanno decine di operai che vanno e vengono, prima sono cento. poi centocinquanta, poi di nuovo cento. E cercano sempre di farli apparire come lavoratori autonomi, a partita Iva. Così sono sempre di più le aziende che hanno un solo dipendente, che poi è il geometra.
Una volta le imprese erano più strutturate, ma è anche vero che nel 1996-97 i cantieri erano molti meno. In questi ultimi anni c’è stato un boom delle costruzioni, ed è sotto gli occhi di tutti: in ogni via ci sono due o tre cantieri. Basta vedere la crescita esponenziale degli .addetti iscritti alla cassa edile. Lo stesso vale per il gran numero di aziende gestite da stranieri, che spesso non sanno nemmeno come usare l’attrezzatura. Sono persone che generalmente non hanno formazione specializzata, che non hanno una cultura della sicurezza. Molti non sanno ancora l’italiano, magari non sanno leggere nemmeno la loro lingua. E quindi è più complicato avere un colloquio con loro, dare anche una minima informazione. Tant’è vero che l’Asl di Milano ha lanciato delle campagne informative per gli stranieri. Un esempio in questo senso è il cantiere di Santa Giulia, a Rogoredo, dove si sta applicando il protocollo sulla sicurezza siglato con la Prefettura di Milano, anche per migliorare la formazione degli stranieri. E un’esperienza nuova, che si sta sviluppando e speriamo si affermi come modello.
Le imprese ritengono ancora la formazione un costo, una perdita ii tempo. Non capiscono che invece è un vantaggio anche per loro, oltre che per il lavoratore. E la grande mobilità del settore, il fatto che i lavoratori si fermino a volte anche solo qualche settimana in un cantiere, non aiuta. Il piccolo imprenditore edile non capisce perché deve perdere tempo, fermare il lavoro per alcune ore, per dare la possibilità di formarsi a lavoratori che dopo uno o due mesi cambieranno cantiere.
Tempo e costi sono i due fattori determinanti per la gestione dell'attività in cantiere: rapidità e risparmio sono le parole d’ordine.
Troppo spesso, purtroppo, a scapito della sicurezza dei lavoratori. Il committente, pubblico o privato, ha un ruolo decisivo, in questo senso: potrebbe contribuire a cambiare la cultura, l’approccio al lavoro. Invece è il primo che tira al risparmio sui costi della sicurezza e una volta affidato il cantiere se ne lava le mani.
Il risultato è una situazione di grande insicurezza diffusa. Senza contare che il cantiere è un luogo già di per sé pericoloso. E purtroppo molti lavoratori non si rifiutano di fare lavori a rischio. Moltissimi, poi, sono cottimisti. E accettano situazioni al limite della legalità. Nelle imprese grosse sono oltre il 90%. Ma anche i dipendenti a volte non si rendono conto che lavorano in condizioni anormali. Del resto, non ce n’è uno che prende solo la paga sindacale. E quindi accettano di fare lavori anche pericolosi. Magari, soprattutto quelli più anziani, anche solo perché hanno sempre lavorato così, senza usare le protezioni. Così ti capita anche di arrivare sul luogo di un incidente e trovare cinture, visibilmente nuove di zecca, buttate sul posto.
Ricordo una volta che ci hanno chiamati perché nel cantiere nella sede di un giornale in ristrutturazione un ragazzo extracomunitario era caduto da un abbaino ed era morto. Quando siamo arrivati il ragazzo aveva su la cintura di sicurezza, ma si capiva chiaramente che non era mai stata usata. Non solo era nuova, era pure messa male. Sul piano di sicurezza, inoltre, figuravano i nomi di lavoratori africani e arabi. Peccato che ci trovassimo di fronte solo a lavoratori rumeni. Era ovvio che non lavoravano per l’impresa che aveva vinto l’appalto. Inoltre, prima di partire coi lavori avrebbero dovuto mettere una protezione ai lucernari. Che invece non c’era, tanto che il ragazzo è caduto dal tetto. Questo per dire che quando si verifica un incidente, magari anche mortale, i fattori che lo causano sono molti.
Il rapporto con i lavoratori non è facile, dipende tutto dall'impresa. Se il titolare si rende conto che non siamo dei nemici, se è una persona intelligente, allora si riesce anche a parlare con gli operai Moltissimi, però, spesso non ci permettono nemmeno di avvicinarli Il nostro compito è quello di informare sulle norme di sicurezza, ma paradossalmente non ne abbiamo gli strumenti. L’unico spazio consentito per legge è la riunione periodica in cui però non parliamo con gli operai ma con il titolare dell’impresa, con il coordinatore dei lavori. Per creare un minimo di rapporto con i lavoratori non restano che le briciole. E quindi ci inventiamo degli escamotage. Ad esempio, quando andiamo a fare un sopralluogo con il tecnico del Comitato paritetico territoriale ci accordiamo in modo che uno vada a verificare la situazione dal punto di vista tecnico e l’altro cerchi di entrare in contatto con i lavoratori. Non c’è scritto da nessuna parte che ci devono dare spazi e tempi per incontrarli. E questo è un problema.