Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Dall’oratorio alla fabbrica. Il sindacato bianco nella Stalingrado d’Italia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007
Antonio Pizzinato, nato in Friuli nel 1932,
arriva a Sesto San Giovanni nel 1963, quando si sposa, e da qui non si sposterà
più. I suoi numerosi incarichi, infatti, lo vedranno sempre tornare al luogo
dove vive ancora oggi. Responsabile di zona dei metalmeccanici di Sesto dal
1964 al 1975, poi segretario della Fiom provinciale e regionale, della Camera
del lavoro milanese e della Cgil lombarda. In segreteria nazionale dal 1984 al
1991 e segretario generale dal 1986 al 1988. Nel 1992 viene eletto deputato, ma
nel frattempo è anche consigliere comunale di Sesto San Giovanni. Nel 1996, e
fino al 2006, è senatore della Repubblica e sottosegretario al lavoro nel primo
governo Prodi.
Nel 1903 arriva
a Sesto la Breda, nel 1906 la Falck. Nel 1906 la Breda produce la prima
locomotiva, è di fatto l’avvio della città dell’industria. Nel 1908 la Falck fa
la prima colata, nel 1996 l’ultima. E’ la fine della storia della città delle
fabbriche. In mezzo vi è una vita che non ha paragoni nel resto d’Italia. Un
borgo che nei secoli precedenti era luogo di riposo dei borghesi milanesi, in
meno di un decennio fa un salto enorme. Durante la prima guerra mondiale gli
abitanti sono meno di diecimila, ma gli operai sono già 15mila. Il picco prima
della seconda guerra mondiale si ha nel ‘36, ‘37, durante il conflitto si
superano i 50mila operai. A fine guerra si hanno ristrutturazioni e chiusure.
Negli anni sessanta l’attività riprende, anche se in misura leggermente minore
per l’occupazione. Poi inizia la flessione.
Le industrie di
Sesto sono sempre state all’avanguardia dal punto di vista tecnologico, in
settori trainanti per l’economia: dai treni, alle metropolitane, agli
aerei. Ora che non siamo più la città
delle fabbriche c’è ancora un piccolo resto della ex Breda Termomeccanica, con
meno di 200 operai, che ha vinto gare in Giappone e negli Stati Uniti per i
“vessel” nucleari e ha la produzione assicurata per i prossimi dieci anni. E’
in questo contesto che vanno visti i cambiamenti.
Ho trovato in
questa città, come in nessun altro posto, una grande solidarietà, che porta a
una coesione delle persone, pur nelle divisioni, e questo fin dal suo sorgere.
Come si insediano le fabbriche si creano le cooperative, i circoli. Se non ci
fosse stata questa solidarietà, con quell’enorme afflusso di lavoratori, la
città sarebbe esplosa.
E’ una città che
è vissuta al ritmo delle sirene. Dalle cinque e venti del mattino, il primo
turno, alle 10 di sera, il turno notturno. Appena arrivato a Sesto mi hanno
preso e portato la mattina alle cinque in un bar dove arrivavano con i pullman
e i treni i lavoratori dalla bergamasca, parlando con loro coglievi l’opinione
diffusa. Una parte sono rimasti pendolari e una parte si è stabilita qui
definitivamente. Vi sono due tipi di comunità. Alla Falck, fondamentalmente
sono lavoratori che vengono dalle valli bergamasche o dal bresciano e l’azienda
ha costruito, oltre al villaggio per i quadri e gli impiegati, il dormitorio
dove i lavoratori che facevano il turno di notte si fermavano per tutta la settimana
e rientravano a casa la domenica.
Le altre
aziende, oltre al pendolarismo hanno incentivato l’immigrazione, in particolare
la Breda, con l’arrivo di operai dal sud d’Italia. Quando si facevano le
assemblee bisognava essere attenti a capire i vari dialetti, il bergamasco se
andavi alla Falck, il pugliese o il siciliano alla Breda. Tutto questo ha
creato la sestesità. Il fatto importante è che dopo un po’ che erano qui si
inserivano, arrivava la famiglia e la città è cresciuta.
Alla chiusura
delle fabbriche Sesto non si è frantumata anche perché i processi sono stati
governati. Tra le prime vicende di cui ho dovuto occuparmi, appena arrivato
qui, c’è stata l’Osva, Officine Sestesi Valsecchi. Con problemi e
sconvolgimenti per le persone e le famiglie, ma nessuno è stato lasciato solo.
In occasione della chiusura venne fatto un accordo che prevedeva che la
fabbrica avrebbe continuato a produrre per un paio di mesi, ma tutte le merci
venivano consegnate a una banca la quale avrebbe venduto il prodotto e con il
ricavato pagato i lavoratori. Non si è mai prodotto tanto come in quei mesi!
Abbiamo fasi
diverse di contrattazione, tutte significative e che per tanta parte anticipano
rivendicazioni che poi diventeranno nazionali. Sesto è stata innovativa in
termini di contenuti che poi sono stati via via generalizzati, inseriti nei
contratti, ma il punto di partenza fu qui.
La prima
esperienza è a fine ‘64, inizio ‘65. Abbiamo due momenti, il primo è alla
Falck. Dopo una lunga trattativa arriviamo, primi in Italia, a un accordo che
prevede l’utilizzo degli impianti per 363 giorni all’anno, 24 ore su 24, in
acciaieria all’Unione e al Concordia. Prima si lavorava per 6 giorni, fino alle
22 del sabato e si riprendeva il lunedì mattina alle sei e i forni si tenevano
in preriscaldamento. Con questa situazione di fatto i lavoratori non erano in
condizione di godersi le ferie, non avevano i riposi. La regola era che se non
arrivava chi doveva sostituire il turno si rimaneva al lavoro fino a quando non
si trovava il sostituto. Concordammo che si passava da tre a quattro squadre,
si lavorava con una turnazione che garantiva la produzione tutto l’anno,
assicurando a ognuno la riduzione dell’orario di lavoro, il godimento delle
ferie e in caso di lavoro straordinario si aveva il recupero del riposo. Questo
portò all’assunzione di centinaia di operai. Finalmente chi aveva le ferie
arretrate poté farle.
Ci furono però
tensioni, sia con i lavoratori che non volevano lavorare la domenica, sia con
la Chiesa locale, che sosteneva che la domenica era fatta per santificare Dio.
Col tempo l’applicazione pratica dimostrò quanto quella scelta fosse giusta.
L’accordo fu possibile perché abbiamo sperimentato una forma nuova di rapporto
continuo con i lavoratori, andando nei circoli, riunendoli sui piazzali,
informandoli passo dopo passo, discutendo giorno e notte. Molti anni dopo
abbiamo tentato un analogo accordo con la Breda Siderurgica e non siamo
riusciti a farlo per l’opposizione determinata degli operai. In quell’occasione
emerse la diversa cultura degli operai Breda rispetto a quelli Falck, con
insulti da parte degli operai, che in assemblea gridavano: “Vacci tu a lavorare
in acciaieria”.
Immediatamente
dopo, la Magneti Marelli avvia la procedura di licenziamento allo stabilimento
A, dove c’erano essenzialmente donne. Iniziamo una lotta per la quale sembrava
non esservi sbocco. Innalzammo una tenda davanti alla direzione, che rimase lì
per novanta giorni e notti, si dormiva a turno. Mobilitammo tutta la città. Nel
momento in cui l’azienda trasformò i licenziamenti in cassa integrazione
ponemmo il problema del salario garantito. Allora la cig era a scalare: 50 per
cento per tre mesi, poi 25%, e infine zero. Ricordo che iniziammo le trattative
al ministero del Lavoro ponendo questa questione. La delegazione era composta,
oltre che dai rappresentanti della Magneti Marelli, da lavoratori di Falck,
Breda e Ercole Marelli. Non si ebbe una soluzione ma da lì partì, era il 1965,
la battaglia che portò alla modifica della cassa integrazione.
La lunga lotta
vide momenti di grande tensione, ma anche di grande mobilitazione dell’intera
città. Dato che il governo non ci convocava arrivammo a proclamare lo sciopero
generale di Sesto. Nel momento in cui abbiamo fissato la data non sapevamo che
vi era già stata un’intesa tra Comune, Falck e presidenza della Repubblica e
che quel giorno il presidente Giuseppe Saragat sarebbe venuto a Sesto a
inaugurare la nuova acciaieria della Falck Concordia. Noi non spostammo lo
sciopero. Con non poche tensioni sul piano dei rapporti istituzionali, si
posticipò di qualche giorno la visita del presidente della Repubblica.
A
sostegno di quello sciopero, la domenica durante la predica i parroci parlarono
del fatto che scioperare era un dovere. Qualcuno arrivò a dire che se non si
partecipava si faceva peccato. Questo determinò tensioni all’interno dello
stesso mondo cattolico.
Vi era in corso il Concilio
ecumenico II, padre Turoldo operò affinché padre Gauthier venisse a Milano.
Dopo aver celebrato la messa venne alla tenda a incontrare i lavoratori.
Nel 1966 c’è il
contratto nazionale di lavoro. E’ una lotta durissima durata 12 mesi. Quando si
raggiunse l’accordo con l’Intersind, facemmo la notte stessa un volantino
unitario e andai a distribuirlo. I primi che arrivavano erano i pendolari.
Avevano sentito le informazioni alla radio, avevano discusso e fatte le loro
valutazioni. Mi ricordo che davanti alla portineria della Breda Siderurgica gli
operai mi strapparono di mano i volantini e mi li tirarono in faccia,
gridandomi “vergogna” e altro ancora.
Con gli aumenti
salariali ottenuti non si coprivano nemmeno gli aumenti del costo della vita e
delle tasse, ma l’accordo apriva degli spazi alla contrattazione aziendale
decentrata.
Preparammo
piattaforme integrative in tutte le grandi aziende facendo un grande sforzo.
Prima discutevamo collettivamente con i rappresentanti delle fabbriche, poi si
approfondiva cogliendo le specificità di ogni stabilimento.
Incominciammo
così una serie di lotte che coinvolsero tutte le fabbriche con effetti e
momenti diversi. Riprendemmo a fare i cortei da Sesto a Milano a piedi. Da una
cascina ci facevamo imprestare un asino che mettevamo alla testa del corteo con
al collo un cartello scritto in milanese “mi sunt gnuc ma la confindustria la
me bat”.
Assolombarda
rifiutava le trattative. La forte mobilitazione ci consentiva di bloccare tutto
il territorio, chiudendo i grandi viali di scorrimento. Data questa situazione,
a un certo punto il Prefetto decise di convocare le parti per la trattativa
della Ercole Marelli e con la sua mediazione si arrivò all’accordo, con un
aumento medio di 15 lire all’ora,
l’introduzione della parità tra uomo e donna sui cottimi e l’istituzione
della commissione sull’ambiente.
Dopo la Ercole
si propose la stessa situazione alla Magneti Marelli. Anche in questo caso la
trattativa non partiva. Eravamo a 48 ore dal voto amministrativo di primavera
e, mentre era in corso una manifestazione in piazza Duomo e alcuni operai erano
andati alla Statale, arrivò la convocazione del prefetto. Si andò avanti per
due giorni, si fece l’accordo e l’aumento fu di 17,50 lire oltre agli altri
elementi ottenuti alla Ercole.
Alla Falck si
trattava, ma l’azienda non voleva dare più di 16 lire. Vennero decisi scioperi
di alcune ore e non di 24 come si usava in siderurgia, mantenendo in
temperatura le colate. Si raggiunse l’accordo, ma siccome la Falck diceva di
non avere più di una certa quantità di risorse da distribuire, si decise di
dare l’aumento di 20 lire solo agli operai. Si introdusse anche la mezzora di
pausa retribuita per il pasto. Durante l’assemblea davanti alla fabbrica che
seguì l’accordo, gli operai l’approvarono, ma i pochi impiegati presenti non
accettarono. Allora la sera stessa convocammo l’assemblea degli impiegati al
San Clemente. Nel salone la gente non ci stava, molti erano rimasti in strada e
fummo costretti a occupare anche il gioco delle bocce. Si elaborò una
piattaforma apposita per loro. Questa volta in Assolombarda, si fece un accordo
che assicurò agli impiegati lo stesso stipendio – come previsto dal lodo
Fanfani del 1947 - pur in presenza di una riduzione dell’orario di lavoro oltre
ad altri problemi.
Immediatamente
l’esperienza si estese alle altre fabbriche. Gli impiegati della Breda fecero
una loro piattaforma e nel contempo si iniziò la discussione con gli impiegati
della Ercole e della Magneti Marelli.
Contemporaneamente
cominciarono a muoversi gli impiegati di altre aziende del milanese. Si decise
così di fare una manifestazione a Milano di soli colletti bianchi. L’appuntamento
era in piazza Castello. Per la prima volta si prese il metrò senza pagare. Mi
ricordo che c’era un impiegato, membro di commissione interna, che vestiva
sempre in giacca e cravatta, in blu scuro, che andò dal personale dell’Atm
dicendo: “Sono dell’ufficio politico della questura. Aprite i cancelli,
rispondo io”.
Si fece un
corteo di 30mila impiegati, con la gente stupita nel vedere quella insolita
manifestazione. La mobilitazione portò a fare gli accordi, prima alla Breda poi
anche alla Ercole e alla Magneti.
In quel modo
abbiamo non solo recuperato un rapporto con gli impiegati, ma si è visto che
erano disposti a scioperare e a manifestare. Questo aprì un dibattito
all’interno delle organizzazioni e in Cgil si discusse se creare un sindacato degli
impiegati.
Nel 1968 ci fu
una trattativa nazionale sulle pensioni. Un’ipotesi era l’abolizione delle
pensioni di anzianità. Questa venne sottoscritta da Cisl e Uil e non dalla Cgil
e vi furono degli scioperi di reparto. A Sesto in quel momento stavamo
organizzando unitariamente le piattaforme aziendali. Contrariamente alla
divisione che stava avvenendo a livello confederale, noi facemmo un’assemblea
al cinema Rondò dove intervenimmo io, Lorenzo Cantù e Antonio Raimondi decidendo di fare lo sciopero generale di
zona unitario. La nostra posizione divenne l’orientamento di Fim, Fiom e Uilm
provinciali, tant’è che a Milano si fece uno sciopero contro quell’ipotesi, che
alla fine venne accantonata. Anche in questo caso Sesto ebbe un ruolo di spinta
sul piano unitario e a livello nazionale.
Tutte queste
vicende contribuivano a costruire un rapporto sempre più forte, in particolare
tra Fim, Fiom e Uilm. Ma in occasione della preparazione della piattaforma per
il rinnovo del contratto nazionale del ’69, ci si divise. C’era chi,
soprattutto la Fim, sosteneva che gli aumenti dovessero essere uguali per
tutti. A Milano si fece un referendum. A Sesto San Giovanni partecipò oltre il
90% dei lavoratori e più dell’80% dissero no all’aumento uguale per tutti. Era
una conseguenza anche delle lotte degli impiegati, ma alla conferenza nazionale
passò l’aumento uguale per tutti.
La lotta per il
rinnovo fu dura, con tre mesi di scioperi, cortei, manifestazioni e arresti. Su
un punto Confindustria era particolarmente irremovibile: il diritto alle
assemblee in fabbrica. Si decise allora di organizzare uno sciopero generale
nazionale di 4 ore, portando i sindacalisti in fabbrica, violando le regole. Io
sono andato alla Breda Siderurgica e prima ho accompagnato alla Falck Pio Galli,
segretario nazionale della Fiom, e poi Pier Carniti, segretario generale della
Fim. A novembre si firmò il contratto con Intersind e il gennaio successivo
quello con Federmeccanica.
Il 30 maggio
1970 si conquista lo Statuto dei lavoratori, la parte relativa alla
rappresentanza sindacale è quella contenuta nel contratto dei metalmeccanici.
Negli accordi
aziendali erano previste delle indagini sulla salute e sicurezza sul lavoro da
parte della Clinica del lavoro. Nel 1970, in occasione della terza indagine
alla Breda Fucine, i lavoratori ritengono che non sia corretta. Attraverso un
confronto che coinvolge i medici e gli studenti di medicina del lavoro, si
elabora il concetto che ci deve essere la validazione soggettiva del
lavoratore. Per ogni settore produttivo si costruiscono i gruppi omogenei, in
tutto 43 per 930 operai, con questionari individuali e i risultati discussi poi
nel gruppo. Si fa un libro bianco con i risultati di quel lavoro e su quella
base si realizza una piattaforma rivendicativa, con richieste molto dettagliate
per singoli reparti e con richieste generali come l’istituzione dei registri
dei dati ambientali e dei libretti sanitari individuali. Si tratta di un
cambiamento radicale perché non si è più disponibili ad accettare la monetizzazione
della salute e dell’ambiente. Inizia una lotta che dura un anno. Nel contempo
partono tutte le altre fabbriche. Gli scioperi si ripetono da primavera a dopo
l’estate. Alla Breda ci sono più volte sospensioni di lavoratori. A quel punto
si decidono quattro ore di sciopero tutti i giorni. I preti operai celebrano le
messe nei reparti, c’è il sostegno delle parrocchie, ma la vertenza non si
sblocca. Si decide allora di andare a occupare la sede della Breda Finanziaria
che si trova sopra il consolato statunitense. I lavoratori salgono a piccoli
gruppetti, fino a quando vengono tirati fuori gli striscioni e si inizia
l’occupazione. Dopo 36 ore la situazione si sblocca, parte la trattativa e le
richieste vengono accolte.
Nel contempo il
consiglio comunale di Sesto San Giovanni, dietro pressione sindacale, approva
la costituzione del Servizio di medicina per gli ambienti di lavoro, lo Smal.
Una conquista storica realizzata quasi contemporaneamente a Cinisello Balsamo e
Corsico. Un anno dopo, partendo da questi risultati, si conquista la legge
regionale che istituisce i servizi di medicina del lavoro. Si anticipa di sei
anni la costituzione del servizio sanitario nazionale.
Contemporaneamente
il Comune di Sesto, con il professor Erminio Longhini, primario medico
dell’ospedale di Sesto, promuove un’indagine epidemiologica su 280 operai della
Breda, in particolare sugli organi respiratori. E’ una ricerca che ha un
impatto mondiale, viene tradotta in moltissime lingue e assunta
dall’Organizzazione mondiale della sanità come esempio.
E’ stata una
delle battaglie più dure ma più belle che sono state fatte.
Subito dopo il
contratto del ’69-‘70, ci demmo da fare per contrattare le regole per
l’elezione dei consigli di fabbrica. Noi, in anticipo rispetto al nazionale,
realizzammo l’elezione dei cdf in tutti i luoghi di lavoro, con una media di un
delegato ogni 40 lavoratori, 1140 delegati, 151 consigli di fabbrica.
Il 13 gennaio
del 1972 si tenne l’assemblea di tutti i delegati nel palazzo comunale e
decidemmo di costituire il Sum, il sindacato unitario dei metalmeccanici. Si
elesse un direttivo di 103 persone, il quale a sua volta elesse un esecutivo e
all’interno di esso i coordinatori: Danilo Aluvisetti, Marco Battisti, Alberto
Bellocchio, Giampiero Colombo, Amedeo Fiorentino, Cesare Moreschi, Antonio
Pizzinato e Piero Toccagni.
Quando abbiamo
costituito il Sum gli iscritti erano circa trentamila. Nel 1974 gli aderenti
alla Flm erano 30.377, su un totale di 44.203 lavoratori. Quando sono arrivato
a Sesto la Fiom non contava 4mila iscritti e tra Fim, Fiom e Uilm probabilmente
non si superavano i seimila.
A quel punto ci
ponemmo il problema di formare questa massa di lavoratori. Le assemblee e gli
incontri nelle quali non si dovevano affrontare questioni legate a vertenze o
contratti, divennero corsi di formazione. Su un volantino avevamo scritto una
frase di don Milani: “Il tuo padrone conosce 3000 parole tu solo 300”.
Decidemmo di utilizzare le ore di sciopero per imparare le parole che non
conoscevamo. Facevamo corsi sulla previdenza, sulla sanità, sull’ambiente di
lavoro e la gente partecipava. Inoltre, facevamo formazione per i delegati: in
quel periodo hanno frequentato corsi da un minimo di 20-30 a un massimo di
100-150 ore.
C’è una stagione
che si apre dopo l’autunno caldo, ed è quella dell’inquadramento unico, che
viene introdotto con il contratto del 1973. Prima azienda in Italia, e in
anticipo sul contratto nazionale, l’inquadramento unico lo ottenemmo per la
Breda Siderurgica. Dalla primavera del 1973 al 1974 realizzammo 234 accordi
aziendali sull’inquadramento unico introducendolo in tutte le aziende, oltre
alla retribuzione contrattuale e a un terzo elemento retributivo che riuniva
tutti i salari aziendali, che venivano quindi generalizzati.
Elementi di
tensione tra Fim e Fiom si sono avuti nei primi anni ’60. Non bisogna
dimenticare che a Sesto c’era stato un reparto confino dentro la Falck Unione,
chiuso solo nel 1960 e sono oltre un centinaio i lavoratori - riconosciuti per
legge - licenziati per rappresaglia politico-sindacale. Ma vi erano anche
tensioni con quelli che chiamavamo i “senatori”, cioè i quadri sindacali più
anziani delle diverse organizzazioni. Pesavano non solo l’esperienza passata,
ma anche visioni diverse sul ruolo del sindacato e il non saper sempre cogliere
le innovazioni che venivano avanti.
L’altro elemento
che ogni tanto preoccupava era la proclamazione degli scioperi, le lotte. Vi
era una parte che diceva: “Dove ci portano? Quali benefici avremo?”. Il salto
di qualità da questo punto di vista si fece con la tenda della Magneti Marelli,
perché rimanendo lì 90 giorni, si era quasi costretti a incontrarsi. Anche chi
non voleva doveva misurarsi con quella realtà. Avevamo centinaia di operaie sospese, ma ciò che consentì il salto
fu lo sciopero generale con l’impegno della Chiesa. Con il Luce sestese
che si schierò apertamente. Era il Concilio Vaticano II che arrivava a Sesto.
Nel frattempo c’era stata la chiusura della Pirelli Sapsa, anche lì con
occupazione e presidi. L’altro elemento che contribuì a superare le divisioni
fu il rapporto con i preti operai, che c’erano alla Ercole Marelli e alla
Breda, e quello con gli studenti dell’università di Milano e con gli insegnanti
di Sesto. Con una cinquantina di questi studenti, che poi daranno vita al
movimento studentesco, organizzammo il doposcuola per i figli degli operai che
erano stati rimandati.
Più avanti ci
furono gli incontri con Padre Turoldo a Fontanelle. Veniva anche a Sesto, ci
incontravamo la sera all’oratorio, dove c’eravamo tutti. Si discuteva della
scuola, delle università, del lavoro. In quella stagione avevamo creato un
rapporto umano e di fiducia con la città che non ricordo di aver trovato
altrove.
Tutto questo ha
contribuito a far superare le divisioni, e anche i vecchi quadri, coloro che
prima avevano delle preoccupazioni, alla fine hanno capito e le hanno
abbandonate.
Il mondo
cattolico ha fatto un salto molto ampio, molto più di quello compiuto dalla
sinistra. E’ un’evoluzione reciproca, ma sono convinto più profonda tra i
cattolici. Un giorno le nostre organizzazioni decisero che sia io che Giampiero
Colombo dovevamo lasciare Sesto. Tutto ci aspettavamo, ma non che il prevosto
ci invitasse a pranzo insieme ai parroci della città per discutere con noi i
motivi per cui dovevamo essere trasferiti. Noi a dire che non era un fatto
punitivo e loro a chiedere: “Non è che vogliono distruggere ciò che si è
realizzato qui?”.
Per la sinistra
non era semplice perché noi stravolgevamo le regole. Ci muovevamo in modo
autonomo, sia rispetto ai partiti che all’amministrazione comunale. I rapporti
con il Comune sono sempre stati forti. Non c’era lotta per la quale non ci
fosse il sostegno dell’amministrazione, ma questo non vuol dire che non ci
fossero tensioni. Quando è venuto Giulio Andreotti a consegnare la medaglia
d’oro alla città avevamo la lotta alla Breda Siderurgica e i lavoratori hanno
manifestato contro il governo.
Avevamo
introdotto le incompatibilità. Sono rimasti sconvolti quando presentai le mie
dimissioni dal direttivo dell’Unione comunale di Sesto del Partito comunista.
I delegati erano
partecipi di questa esperienza unitaria. Non c’era passaggio che non fosse
discusso. In tutte le fabbriche si stampavano dei bollettini che uscivano
regolarmente ogni mese. Spesso capitava che qualcuno ci chiedesse di aiutarli
anche su questioni personali, mettendoci in difficoltà: “Se ci aiuti a
risolvere le vertenze, perché non ci dai una mano ad affrontare anche i nostri
problemi di famiglia?”. In dieci anni avevamo creato un altro mondo, con
rapporti umani forti e coinvolgenti.
Quando mi hanno
proposto di andare via da Sesto e passare alla direzione provinciale ho
resistito un bel po’. Non volevo lasciare. Ho provato per anni una grande
sofferenza. Di tutte le mie esperienze, questa di Sesto e quella in commissione
interna alla Borletti sono state le più belle.
Un capitolo
particolarmente difficile della vicenda sestese è quello del terrorismo.
Momenti di tensione ci furono già durante le vertenze sul finire degli anni
‘60. Non era ancora esplicitamente il terrorismo, ma era la rottura di
rapporti. C’erano contestazioni in fabbrica quando si facevano gli accordi o si
decidevano le lotte. Si capiva che c’era qualcosa che non funzionava, ma non si
aveva l’esatta percezione della realtà. Vi erano già stati degli incidenti, non
indagati a sufficienza. Una notte alla Pirelli si sviluppò un principio
d’incendio su un treno carico di gomme. Ci fu un morto e si disse che c’era
stato un corto circuito, ma la mia convinzione è che non fosse un incidente. Un
giorno, mentre eravamo in sciopero alla Magneti, un gruppo salì in direzione e
prese a pedate le impiegate che stavano preparando le buste paga, dando un
calcio nel ventre alla segretaria del direttore generale che era incinta. Ci
incontrammo con la direzione e decidemmo di non intervenire perché non era
chiaro chi fosse la persona che aveva fatto quel grave gesto.
Il salto di
qualità si ebbe nel 1976 con lo scontro a fuoco iniziato da Walter Alasia nella
sua abitazione a Sesto. Il padre e la madre erano attivisti della Cgil.
Unitariamente decidemmo di fare lo sciopero generale, il primo in Italia, ma
ancora non avevamo un’idea precisa di quello che si stava creando nelle
fabbriche sestesi. Ricordo che quando ho chiamato Roma per informare che si era
deciso lo sciopero mi dissero: “Sei sicuro di farcela?”. Temevano che i
lavoratori non partecipassero. La grande presenza alla manifestazione ci ha
aiutato a consolidare la determinazione nella mobilitazione contro il
terrorismo. Quello è stato il momento di passaggio.
Vi era un
disegno generale contro lo Stato, ma Prima Linea decise di intervenire con la
lotta armata nelle vertenze sindacali. Mentre è in corso una vertenza alla
Marelli e si manifesta a Milano, vanno a mettere una bomba negli uffici della
Magneti Marelli vicino al Palazzo di Giustizia. Si contratta con l’Alfa Romeo e
si spara a chi è alla trattativa. Briano, capo del personale della Ercole
Marelli, fa l’accordo la sera prima, il mattino dopo viene a lavorare e lo
ammazzano. La strategia è quella di accusare il sindacato di tradire i
lavoratori, di essere servo, ma contemporaneamente e dall’altra parte, colpire
chi è avanzato nel mediare.
Lo sciopero dopo
la vicenda Alasia è il primo che si fa in Italia. Da allora vi è una costruzione
continua in difesa della democrazia e contro il terrorismo. Ma con difficoltà,
perché i volantini delle bierre non attaccano il governo ma intervengono sui
problemi. Il rapimento Moro è il salto di qualità più complessivo, perché porta
tutto il mondo del lavoro a schierarsi a difesa della democrazia.
I terroristi che
ci sono nelle fabbriche non sono mai avanguardie nelle lotte, non sono i più
radicali, entrano nel sindacato ma sono tra i moderati, quasi fanno fatica a
partecipare agli scioperi, si danno però da fare per gestire le pratiche, per
creare legami. Perché inserirsi nel sindacato? Perché in questo modo sanno come
si muove concretamente e inoltre partecipano alle trattative e quindi conoscono
come si comportano le direzioni. I comunicati sono molto precisi. E’ una rete
difficile da estirpare, perché è difficile da individuare. Anche in questo caso
credo che la svolta l’abbiamo fatta a Sesto, schierandoci apertamente contro.
Sul terrorismo
abbiamo fatto un lavoro capillare. Non c’è dirigente nazionale che non sia
venuto a Sesto a fare iniziative culturali, politiche. Alla Magneti Marelli
avevamo chiaro che erano presenti. Allora abbiamo organizzato assemblee reparto
per reparto. Io e Ottaviano Del Turco, segretario generale aggiunto della Fiom
Cgil, siamo stati dentro la fabbrica una settimana, due ore in ogni reparto per
discutere di terrorismo. Abbiamo promosso conferenze, facendo partecipare i
magistrati oltre che i dirigenti nazionali. Abbiamo fatto cultura oltre che
conoscenza, strategia politica, sindacale. Ogni settimana pensavamo a qualcosa
di nuovo. Ma quando arrestavano qualcuno, spesso c’erano i loro compagni di
lavoro che dicevano: “E’ impossibile, lo conosco bene”.
Anche
nell’azione e nella lotta contro il terrorismo siamo stati all’avanguardia.
Questo è stato possibile perché la nostra azione era figlia e frutto delle
esperienze precedenti. Le novità che ci sono nelle piattaforme degli
elettromeccanici degli anni ’60 anticipano di 10 anni l’autunno caldo. I
contenuti sulla salute diventano norme a Sesto.
Le diverse
culture, quella cattolica sociale e quella riformista socialista e comunista,
hanno saputo dare molta concretezza, guardare avanti e nel contempo anticipare
sui contenuti e sull’unità sindacale. Ciò che manca oggi.