giovedì 21 maggio 2020

ANTONIO PIZZINATO 1 - Cgil - Sesto San Giovanni (Mi)

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Dall’oratorio alla fabbrica. Il sindacato bianco nella Stalingrado d’Italia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007

Antonio Pizzinato, nato in Friuli nel 1932, arriva a Sesto San Giovanni nel 1963, quando si sposa, e da qui non si sposterà più. I suoi numerosi incarichi, infatti, lo vedranno sempre tornare al luogo dove vive ancora oggi. Responsabile di zona dei metalmeccanici di Sesto dal 1964 al 1975, poi segretario della Fiom provinciale e regionale, della Camera del lavoro milanese e della Cgil lombarda. In segreteria nazionale dal 1984 al 1991 e segretario generale dal 1986 al 1988. Nel 1992 viene eletto deputato, ma nel frattempo è anche consigliere comunale di Sesto San Giovanni. Nel 1996, e fino al 2006, è senatore della Repubblica e sottosegretario al lavoro nel primo governo Prodi.

Nel 1903 arriva a Sesto la Breda, nel 1906 la Falck. Nel 1906 la Breda produce la prima locomotiva, è di fatto l’avvio della città dell’industria. Nel 1908 la Falck fa la prima colata, nel 1996 l’ultima. E’ la fine della storia della città delle fabbriche. In mezzo vi è una vita che non ha paragoni nel resto d’Italia. Un borgo che nei secoli precedenti era luogo di riposo dei borghesi milanesi, in meno di un decennio fa un salto enorme. Durante la prima guerra mondiale gli abitanti sono meno di diecimila, ma gli operai sono già 15mila. Il picco prima della seconda guerra mondiale si ha nel ‘36, ‘37, durante il conflitto si superano i 50mila operai. A fine guerra si hanno ristrutturazioni e chiusure. Negli anni sessanta l’attività riprende, anche se in misura leggermente minore per l’occupazione. Poi inizia la flessione.
Le industrie di Sesto sono sempre state all’avanguardia dal punto di vista tecnologico, in settori trainanti per l’economia: dai treni, alle metropolitane, agli aerei.  Ora che non siamo più la città delle fabbriche c’è ancora un piccolo resto della ex Breda Termomeccanica, con meno di 200 operai, che ha vinto gare in Giappone e negli Stati Uniti per i “vessel” nucleari e ha la produzione assicurata per i prossimi dieci anni. E’ in questo contesto che vanno visti i cambiamenti.

Ho trovato in questa città, come in nessun altro posto, una grande solidarietà, che porta a una coesione delle persone, pur nelle divisioni, e questo fin dal suo sorgere. Come si insediano le fabbriche si creano le cooperative, i circoli. Se non ci fosse stata questa solidarietà, con quell’enorme afflusso di lavoratori, la città sarebbe esplosa.
E’ una città che è vissuta al ritmo delle sirene. Dalle cinque e venti del mattino, il primo turno, alle 10 di sera, il turno notturno. Appena arrivato a Sesto mi hanno preso e portato la mattina alle cinque in un bar dove arrivavano con i pullman e i treni i lavoratori dalla bergamasca, parlando con loro coglievi l’opinione diffusa. Una parte sono rimasti pendolari e una parte si è stabilita qui definitivamente. Vi sono due tipi di comunità. Alla Falck, fondamentalmente sono lavoratori che vengono dalle valli bergamasche o dal bresciano e l’azienda ha costruito, oltre al villaggio per i quadri e gli impiegati, il dormitorio dove i lavoratori che facevano il turno di notte si fermavano per tutta la settimana e rientravano a casa la domenica.
Le altre aziende, oltre al pendolarismo hanno incentivato l’immigrazione, in particolare la Breda, con l’arrivo di operai dal sud d’Italia. Quando si facevano le assemblee bisognava essere attenti a capire i vari dialetti, il bergamasco se andavi alla Falck, il pugliese o il siciliano alla Breda. Tutto questo ha creato la sestesità. Il fatto importante è che dopo un po’ che erano qui si inserivano, arrivava la famiglia e la città è cresciuta.
Alla chiusura delle fabbriche Sesto non si è frantumata anche perché i processi sono stati governati. Tra le prime vicende di cui ho dovuto occuparmi, appena arrivato qui, c’è stata l’Osva, Officine Sestesi Valsecchi. Con problemi e sconvolgimenti per le persone e le famiglie, ma nessuno è stato lasciato solo. In occasione della chiusura venne fatto un accordo che prevedeva che la fabbrica avrebbe continuato a produrre per un paio di mesi, ma tutte le merci venivano consegnate a una banca la quale avrebbe venduto il prodotto e con il ricavato pagato i lavoratori. Non si è mai prodotto tanto come in quei mesi!

Abbiamo fasi diverse di contrattazione, tutte significative e che per tanta parte anticipano rivendicazioni che poi diventeranno nazionali. Sesto è stata innovativa in termini di contenuti che poi sono stati via via generalizzati, inseriti nei contratti, ma il punto di partenza fu qui.
La prima esperienza è a fine ‘64, inizio ‘65. Abbiamo due momenti, il primo è alla Falck. Dopo una lunga trattativa arriviamo, primi in Italia, a un accordo che prevede l’utilizzo degli impianti per 363 giorni all’anno, 24 ore su 24, in acciaieria all’Unione e al Concordia. Prima si lavorava per 6 giorni, fino alle 22 del sabato e si riprendeva il lunedì mattina alle sei e i forni si tenevano in preriscaldamento. Con questa situazione di fatto i lavoratori non erano in condizione di godersi le ferie, non avevano i riposi. La regola era che se non arrivava chi doveva sostituire il turno si rimaneva al lavoro fino a quando non si trovava il sostituto. Concordammo che si passava da tre a quattro squadre, si lavorava con una turnazione che garantiva la produzione tutto l’anno, assicurando a ognuno la riduzione dell’orario di lavoro, il godimento delle ferie e in caso di lavoro straordinario si aveva il recupero del riposo. Questo portò all’assunzione di centinaia di operai. Finalmente chi aveva le ferie arretrate poté farle.
Ci furono però tensioni, sia con i lavoratori che non volevano lavorare la domenica, sia con la Chiesa locale, che sosteneva che la domenica era fatta per santificare Dio. Col tempo l’applicazione pratica dimostrò quanto quella scelta fosse giusta. L’accordo fu possibile perché abbiamo sperimentato una forma nuova di rapporto continuo con i lavoratori, andando nei circoli, riunendoli sui piazzali, informandoli passo dopo passo, discutendo giorno e notte. Molti anni dopo abbiamo tentato un analogo accordo con la Breda Siderurgica e non siamo riusciti a farlo per l’opposizione determinata degli operai. In quell’occasione emerse la diversa cultura degli operai Breda rispetto a quelli Falck, con insulti da parte degli operai, che in assemblea gridavano: “Vacci tu a lavorare in acciaieria”.

Immediatamente dopo, la Magneti Marelli avvia la procedura di licenziamento allo stabilimento A, dove c’erano essenzialmente donne. Iniziamo una lotta per la quale sembrava non esservi sbocco. Innalzammo una tenda davanti alla direzione, che rimase lì per novanta giorni e notti, si dormiva a turno. Mobilitammo tutta la città. Nel momento in cui l’azienda trasformò i licenziamenti in cassa integrazione ponemmo il problema del salario garantito. Allora la cig era a scalare: 50 per cento per tre mesi, poi 25%, e infine zero. Ricordo che iniziammo le trattative al ministero del Lavoro ponendo questa questione. La delegazione era composta, oltre che dai rappresentanti della Magneti Marelli, da lavoratori di Falck, Breda e Ercole Marelli. Non si ebbe una soluzione ma da lì partì, era il 1965, la battaglia che portò alla modifica della cassa integrazione.
La lunga lotta vide momenti di grande tensione, ma anche di grande mobilitazione dell’intera città. Dato che il governo non ci convocava arrivammo a proclamare lo sciopero generale di Sesto. Nel momento in cui abbiamo fissato la data non sapevamo che vi era già stata un’intesa tra Comune, Falck e presidenza della Repubblica e che quel giorno il presidente Giuseppe Saragat sarebbe venuto a Sesto a inaugurare la nuova acciaieria della Falck Concordia. Noi non spostammo lo sciopero. Con non poche tensioni sul piano dei rapporti istituzionali, si posticipò di qualche giorno la visita del presidente della Repubblica.
A sostegno di quello sciopero, la domenica durante la predica i parroci parlarono del fatto che scioperare era un dovere. Qualcuno arrivò a dire che se non si partecipava si faceva peccato. Questo determinò tensioni all’interno dello stesso mondo cattolico.
Vi era in corso il Concilio ecumenico II, padre Turoldo operò affinché padre Gauthier venisse a Milano. Dopo aver celebrato la messa venne alla tenda a incontrare i lavoratori.

Nel 1966 c’è il contratto nazionale di lavoro. E’ una lotta durissima durata 12 mesi. Quando si raggiunse l’accordo con l’Intersind, facemmo la notte stessa un volantino unitario e andai a distribuirlo. I primi che arrivavano erano i pendolari. Avevano sentito le informazioni alla radio, avevano discusso e fatte le loro valutazioni. Mi ricordo che davanti alla portineria della Breda Siderurgica gli operai mi strapparono di mano i volantini e mi li tirarono in faccia, gridandomi “vergogna” e altro ancora.
Con gli aumenti salariali ottenuti non si coprivano nemmeno gli aumenti del costo della vita e delle tasse, ma l’accordo apriva degli spazi alla contrattazione aziendale decentrata.
Preparammo piattaforme integrative in tutte le grandi aziende facendo un grande sforzo. Prima discutevamo collettivamente con i rappresentanti delle fabbriche, poi si approfondiva cogliendo le specificità di ogni stabilimento.
Incominciammo così una serie di lotte che coinvolsero tutte le fabbriche con effetti e momenti diversi. Riprendemmo a fare i cortei da Sesto a Milano a piedi. Da una cascina ci facevamo imprestare un asino che mettevamo alla testa del corteo con al collo un cartello scritto in milanese “mi sunt gnuc ma la confindustria la me bat”.
Assolombarda rifiutava le trattative. La forte mobilitazione ci consentiva di bloccare tutto il territorio, chiudendo i grandi viali di scorrimento. Data questa situazione, a un certo punto il Prefetto decise di convocare le parti per la trattativa della Ercole Marelli e con la sua mediazione si arrivò all’accordo, con un aumento medio di 15 lire all’ora,  l’introduzione della parità tra uomo e donna sui cottimi e l’istituzione della commissione sull’ambiente.
Dopo la Ercole si propose la stessa situazione alla Magneti Marelli. Anche in questo caso la trattativa non partiva. Eravamo a 48 ore dal voto amministrativo di primavera e, mentre era in corso una manifestazione in piazza Duomo e alcuni operai erano andati alla Statale, arrivò la convocazione del prefetto. Si andò avanti per due giorni, si fece l’accordo e l’aumento fu di 17,50 lire oltre agli altri elementi ottenuti alla Ercole.
Alla Falck si trattava, ma l’azienda non voleva dare più di 16 lire. Vennero decisi scioperi di alcune ore e non di 24 come si usava in siderurgia, mantenendo in temperatura le colate. Si raggiunse l’accordo, ma siccome la Falck diceva di non avere più di una certa quantità di risorse da distribuire, si decise di dare l’aumento di 20 lire solo agli operai. Si introdusse anche la mezzora di pausa retribuita per il pasto. Durante l’assemblea davanti alla fabbrica che seguì l’accordo, gli operai l’approvarono, ma i pochi impiegati presenti non accettarono. Allora la sera stessa convocammo l’assemblea degli impiegati al San Clemente. Nel salone la gente non ci stava, molti erano rimasti in strada e fummo costretti a occupare anche il gioco delle bocce. Si elaborò una piattaforma apposita per loro. Questa volta in Assolombarda, si fece un accordo che assicurò agli impiegati lo stesso stipendio – come previsto dal lodo Fanfani del 1947 - pur in presenza di una riduzione dell’orario di lavoro oltre ad altri problemi.
Immediatamente l’esperienza si estese alle altre fabbriche. Gli impiegati della Breda fecero una loro piattaforma e nel contempo si iniziò la discussione con gli impiegati della Ercole e della Magneti Marelli.
Contemporaneamente cominciarono a muoversi gli impiegati di altre aziende del milanese. Si decise così di fare una manifestazione a Milano di soli colletti bianchi. L’appuntamento era in piazza Castello. Per la prima volta si prese il metrò senza pagare. Mi ricordo che c’era un impiegato, membro di commissione interna, che vestiva sempre in giacca e cravatta, in blu scuro, che andò dal personale dell’Atm dicendo: “Sono dell’ufficio politico della questura. Aprite i cancelli, rispondo io”.
Si fece un corteo di 30mila impiegati, con la gente stupita nel vedere quella insolita manifestazione. La mobilitazione portò a fare gli accordi, prima alla Breda poi anche alla Ercole e alla Magneti.
In quel modo abbiamo non solo recuperato un rapporto con gli impiegati, ma si è visto che erano disposti a scioperare e a manifestare. Questo aprì un dibattito all’interno delle organizzazioni e in Cgil si discusse se creare un sindacato degli impiegati.
Nel 1968 ci fu una trattativa nazionale sulle pensioni. Un’ipotesi era l’abolizione delle pensioni di anzianità. Questa venne sottoscritta da Cisl e Uil e non dalla Cgil e vi furono degli scioperi di reparto. A Sesto in quel momento stavamo organizzando unitariamente le piattaforme aziendali. Contrariamente alla divisione che stava avvenendo a livello confederale, noi facemmo un’assemblea al cinema Rondò dove intervenimmo io, Lorenzo Cantù e Antonio Raimondi  decidendo di fare lo sciopero generale di zona unitario. La nostra posizione divenne l’orientamento di Fim, Fiom e Uilm provinciali, tant’è che a Milano si fece uno sciopero contro quell’ipotesi, che alla fine venne accantonata. Anche in questo caso Sesto ebbe un ruolo di spinta sul piano unitario e a livello nazionale.

Tutte queste vicende contribuivano a costruire un rapporto sempre più forte, in particolare tra Fim, Fiom e Uilm. Ma in occasione della preparazione della piattaforma per il rinnovo del contratto nazionale del ’69, ci si divise. C’era chi, soprattutto la Fim, sosteneva che gli aumenti dovessero essere uguali per tutti. A Milano si fece un referendum. A Sesto San Giovanni partecipò oltre il 90% dei lavoratori e più dell’80% dissero no all’aumento uguale per tutti. Era una conseguenza anche delle lotte degli impiegati, ma alla conferenza nazionale passò l’aumento uguale per tutti.
La lotta per il rinnovo fu dura, con tre mesi di scioperi, cortei, manifestazioni e arresti. Su un punto Confindustria era particolarmente irremovibile: il diritto alle assemblee in fabbrica. Si decise allora di organizzare uno sciopero generale nazionale di 4 ore, portando i sindacalisti in fabbrica, violando le regole. Io sono andato alla Breda Siderurgica e prima ho accompagnato alla Falck Pio Galli, segretario nazionale della Fiom, e poi Pier Carniti, segretario generale della Fim. A novembre si firmò il contratto con Intersind e il gennaio successivo quello con Federmeccanica.  
Il 30 maggio 1970 si conquista lo Statuto dei lavoratori, la parte relativa alla rappresentanza sindacale è quella contenuta nel contratto dei metalmeccanici.

Negli accordi aziendali erano previste delle indagini sulla salute e sicurezza sul lavoro da parte della Clinica del lavoro. Nel 1970, in occasione della terza indagine alla Breda Fucine, i lavoratori ritengono che non sia corretta. Attraverso un confronto che coinvolge i medici e gli studenti di medicina del lavoro, si elabora il concetto che ci deve essere la validazione soggettiva del lavoratore. Per ogni settore produttivo si costruiscono i gruppi omogenei, in tutto 43 per 930 operai, con questionari individuali e i risultati discussi poi nel gruppo. Si fa un libro bianco con i risultati di quel lavoro e su quella base si realizza una piattaforma rivendicativa, con richieste molto dettagliate per singoli reparti e con richieste generali come l’istituzione dei registri dei dati ambientali e dei libretti sanitari individuali. Si tratta di un cambiamento radicale perché non si è più disponibili ad accettare la monetizzazione della salute e dell’ambiente. Inizia una lotta che dura un anno. Nel contempo partono tutte le altre fabbriche. Gli scioperi si ripetono da primavera a dopo l’estate. Alla Breda ci sono più volte sospensioni di lavoratori. A quel punto si decidono quattro ore di sciopero tutti i giorni. I preti operai celebrano le messe nei reparti, c’è il sostegno delle parrocchie, ma la vertenza non si sblocca. Si decide allora di andare a occupare la sede della Breda Finanziaria che si trova sopra il consolato statunitense. I lavoratori salgono a piccoli gruppetti, fino a quando vengono tirati fuori gli striscioni e si inizia l’occupazione. Dopo 36 ore la situazione si sblocca, parte la trattativa e le richieste vengono accolte.
Nel contempo il consiglio comunale di Sesto San Giovanni, dietro pressione sindacale, approva la costituzione del Servizio di medicina per gli ambienti di lavoro, lo Smal. Una conquista storica realizzata quasi contemporaneamente a Cinisello Balsamo e Corsico. Un anno dopo, partendo da questi risultati, si conquista la legge regionale che istituisce i servizi di medicina del lavoro. Si anticipa di sei anni la costituzione del servizio sanitario nazionale.
Contemporaneamente il Comune di Sesto, con il professor Erminio Longhini, primario medico dell’ospedale di Sesto, promuove un’indagine epidemiologica su 280 operai della Breda, in particolare sugli organi respiratori. E’ una ricerca che ha un impatto mondiale, viene tradotta in moltissime lingue e assunta dall’Organizzazione mondiale della sanità come esempio.
E’ stata una delle battaglie più dure ma più belle che sono state fatte.

Subito dopo il contratto del ’69-‘70, ci demmo da fare per contrattare le regole per l’elezione dei consigli di fabbrica. Noi, in anticipo rispetto al nazionale, realizzammo l’elezione dei cdf in tutti i luoghi di lavoro, con una media di un delegato ogni 40 lavoratori, 1140 delegati, 151 consigli di fabbrica.
Il 13 gennaio del 1972 si tenne l’assemblea di tutti i delegati nel palazzo comunale e decidemmo di costituire il Sum, il sindacato unitario dei metalmeccanici. Si elesse un direttivo di 103 persone, il quale a sua volta elesse un esecutivo e all’interno di esso i coordinatori: Danilo Aluvisetti, Marco Battisti, Alberto Bellocchio, Giampiero Colombo, Amedeo Fiorentino, Cesare Moreschi, Antonio Pizzinato e Piero Toccagni.
Quando abbiamo costituito il Sum gli iscritti erano circa trentamila. Nel 1974 gli aderenti alla Flm erano 30.377, su un totale di 44.203 lavoratori. Quando sono arrivato a Sesto la Fiom non contava 4mila iscritti e tra Fim, Fiom e Uilm probabilmente non si superavano i seimila.
A quel punto ci ponemmo il problema di formare questa massa di lavoratori. Le assemblee e gli incontri nelle quali non si dovevano affrontare questioni legate a vertenze o contratti, divennero corsi di formazione. Su un volantino avevamo scritto una frase di don Milani: “Il tuo padrone conosce 3000 parole tu solo 300”. Decidemmo di utilizzare le ore di sciopero per imparare le parole che non conoscevamo. Facevamo corsi sulla previdenza, sulla sanità, sull’ambiente di lavoro e la gente partecipava. Inoltre, facevamo formazione per i delegati: in quel periodo hanno frequentato corsi da un minimo di 20-30 a un massimo di 100-150 ore.

C’è una stagione che si apre dopo l’autunno caldo, ed è quella dell’inquadramento unico, che viene introdotto con il contratto del 1973. Prima azienda in Italia, e in anticipo sul contratto nazionale, l’inquadramento unico lo ottenemmo per la Breda Siderurgica. Dalla primavera del 1973 al 1974 realizzammo 234 accordi aziendali sull’inquadramento unico introducendolo in tutte le aziende, oltre alla retribuzione contrattuale e a un terzo elemento retributivo che riuniva tutti i salari aziendali, che venivano quindi generalizzati.

Elementi di tensione tra Fim e Fiom si sono avuti nei primi anni ’60. Non bisogna dimenticare che a Sesto c’era stato un reparto confino dentro la Falck Unione, chiuso solo nel 1960 e sono oltre un centinaio i lavoratori - riconosciuti per legge - licenziati per rappresaglia politico-sindacale. Ma vi erano anche tensioni con quelli che chiamavamo i “senatori”, cioè i quadri sindacali più anziani delle diverse organizzazioni. Pesavano non solo l’esperienza passata, ma anche visioni diverse sul ruolo del sindacato e il non saper sempre cogliere le innovazioni che venivano avanti.
L’altro elemento che ogni tanto preoccupava era la proclamazione degli scioperi, le lotte. Vi era una parte che diceva: “Dove ci portano? Quali benefici avremo?”. Il salto di qualità da questo punto di vista si fece con la tenda della Magneti Marelli, perché rimanendo lì 90 giorni, si era quasi costretti a incontrarsi. Anche chi non voleva doveva misurarsi con quella realtà. Avevamo centinaia di  operaie sospese, ma ciò che consentì il salto fu lo sciopero generale con l’impegno della Chiesa. Con il Luce sestese che si schierò apertamente. Era il Concilio Vaticano II che arrivava a Sesto. Nel frattempo c’era stata la chiusura della Pirelli Sapsa, anche lì con occupazione e presidi. L’altro elemento che contribuì a superare le divisioni fu il rapporto con i preti operai, che c’erano alla Ercole Marelli e alla Breda, e quello con gli studenti dell’università di Milano e con gli insegnanti di Sesto. Con una cinquantina di questi studenti, che poi daranno vita al movimento studentesco, organizzammo il doposcuola per i figli degli operai che erano stati rimandati.
Più avanti ci furono gli incontri con Padre Turoldo a Fontanelle. Veniva anche a Sesto, ci incontravamo la sera all’oratorio, dove c’eravamo tutti. Si discuteva della scuola, delle università, del lavoro. In quella stagione avevamo creato un rapporto umano e di fiducia con la città che non ricordo di aver trovato altrove.
Tutto questo ha contribuito a far superare le divisioni, e anche i vecchi quadri, coloro che prima avevano delle preoccupazioni, alla fine hanno capito e le hanno abbandonate.

Il mondo cattolico ha fatto un salto molto ampio, molto più di quello compiuto dalla sinistra. E’ un’evoluzione reciproca, ma sono convinto più profonda tra i cattolici. Un giorno le nostre organizzazioni decisero che sia io che Giampiero Colombo dovevamo lasciare Sesto. Tutto ci aspettavamo, ma non che il prevosto ci invitasse a pranzo insieme ai parroci della città per discutere con noi i motivi per cui dovevamo essere trasferiti. Noi a dire che non era un fatto punitivo e loro a chiedere: “Non è che vogliono distruggere ciò che si è realizzato qui?”.
Per la sinistra non era semplice perché noi stravolgevamo le regole. Ci muovevamo in modo autonomo, sia rispetto ai partiti che all’amministrazione comunale. I rapporti con il Comune sono sempre stati forti. Non c’era lotta per la quale non ci fosse il sostegno dell’amministrazione, ma questo non vuol dire che non ci fossero tensioni. Quando è venuto Giulio Andreotti a consegnare la medaglia d’oro alla città avevamo la lotta alla Breda Siderurgica e i lavoratori hanno manifestato contro il governo.
Avevamo introdotto le incompatibilità. Sono rimasti sconvolti quando presentai le mie dimissioni dal direttivo dell’Unione comunale di Sesto del Partito comunista.
I delegati erano partecipi di questa esperienza unitaria. Non c’era passaggio che non fosse discusso. In tutte le fabbriche si stampavano dei bollettini che uscivano regolarmente ogni mese. Spesso capitava che qualcuno ci chiedesse di aiutarli anche su questioni personali, mettendoci in difficoltà: “Se ci aiuti a risolvere le vertenze, perché non ci dai una mano ad affrontare anche i nostri problemi di famiglia?”. In dieci anni avevamo creato un altro mondo, con rapporti umani forti e coinvolgenti.
Quando mi hanno proposto di andare via da Sesto e passare alla direzione provinciale ho resistito un bel po’. Non volevo lasciare. Ho provato per anni una grande sofferenza. Di tutte le mie esperienze, questa di Sesto e quella in commissione interna alla Borletti sono state le più belle. 

Un capitolo particolarmente difficile della vicenda sestese è quello del terrorismo. Momenti di tensione ci furono già durante le vertenze sul finire degli anni ‘60. Non era ancora esplicitamente il terrorismo, ma era la rottura di rapporti. C’erano contestazioni in fabbrica quando si facevano gli accordi o si decidevano le lotte. Si capiva che c’era qualcosa che non funzionava, ma non si aveva l’esatta percezione della realtà. Vi erano già stati degli incidenti, non indagati a sufficienza. Una notte alla Pirelli si sviluppò un principio d’incendio su un treno carico di gomme. Ci fu un morto e si disse che c’era stato un corto circuito, ma la mia convinzione è che non fosse un incidente. Un giorno, mentre eravamo in sciopero alla Magneti, un gruppo salì in direzione e prese a pedate le impiegate che stavano preparando le buste paga, dando un calcio nel ventre alla segretaria del direttore generale che era incinta. Ci incontrammo con la direzione e decidemmo di non intervenire perché non era chiaro chi fosse la persona che aveva fatto quel grave gesto.
Il salto di qualità si ebbe nel 1976 con lo scontro a fuoco iniziato da Walter Alasia nella sua abitazione a Sesto. Il padre e la madre erano attivisti della Cgil. Unitariamente decidemmo di fare lo sciopero generale, il primo in Italia, ma ancora non avevamo un’idea precisa di quello che si stava creando nelle fabbriche sestesi. Ricordo che quando ho chiamato Roma per informare che si era deciso lo sciopero mi dissero: “Sei sicuro di farcela?”. Temevano che i lavoratori non partecipassero. La grande presenza alla manifestazione ci ha aiutato a consolidare la determinazione nella mobilitazione contro il terrorismo. Quello è stato il momento di passaggio.
Vi era un disegno generale contro lo Stato, ma Prima Linea decise di intervenire con la lotta armata nelle vertenze sindacali. Mentre è in corso una vertenza alla Marelli e si manifesta a Milano, vanno a mettere una bomba negli uffici della Magneti Marelli vicino al Palazzo di Giustizia. Si contratta con l’Alfa Romeo e si spara a chi è alla trattativa. Briano, capo del personale della Ercole Marelli, fa l’accordo la sera prima, il mattino dopo viene a lavorare e lo ammazzano. La strategia è quella di accusare il sindacato di tradire i lavoratori, di essere servo, ma contemporaneamente e dall’altra parte, colpire chi è avanzato nel mediare.
Lo sciopero dopo la vicenda Alasia è il primo che si fa in Italia. Da allora vi è una costruzione continua in difesa della democrazia e contro il terrorismo. Ma con difficoltà, perché i volantini delle bierre non attaccano il governo ma intervengono sui problemi. Il rapimento Moro è il salto di qualità più complessivo, perché porta tutto il mondo del lavoro a schierarsi a difesa della democrazia.
I terroristi che ci sono nelle fabbriche non sono mai avanguardie nelle lotte, non sono i più radicali, entrano nel sindacato ma sono tra i moderati, quasi fanno fatica a partecipare agli scioperi, si danno però da fare per gestire le pratiche, per creare legami. Perché inserirsi nel sindacato? Perché in questo modo sanno come si muove concretamente e inoltre partecipano alle trattative e quindi conoscono come si comportano le direzioni. I comunicati sono molto precisi. E’ una rete difficile da estirpare, perché è difficile da individuare. Anche in questo caso credo che la svolta l’abbiamo fatta a Sesto, schierandoci apertamente contro.
Sul terrorismo abbiamo fatto un lavoro capillare. Non c’è dirigente nazionale che non sia venuto a Sesto a fare iniziative culturali, politiche. Alla Magneti Marelli avevamo chiaro che erano presenti. Allora abbiamo organizzato assemblee reparto per reparto. Io e Ottaviano Del Turco, segretario generale aggiunto della Fiom Cgil, siamo stati dentro la fabbrica una settimana, due ore in ogni reparto per discutere di terrorismo. Abbiamo promosso conferenze, facendo partecipare i magistrati oltre che i dirigenti nazionali. Abbiamo fatto cultura oltre che conoscenza, strategia politica, sindacale. Ogni settimana pensavamo a qualcosa di nuovo. Ma quando arrestavano qualcuno, spesso c’erano i loro compagni di lavoro che dicevano: “E’ impossibile, lo conosco bene”.

Anche nell’azione e nella lotta contro il terrorismo siamo stati all’avanguardia. Questo è stato possibile perché la nostra azione era figlia e frutto delle esperienze precedenti. Le novità che ci sono nelle piattaforme degli elettromeccanici degli anni ’60 anticipano di 10 anni l’autunno caldo. I contenuti sulla salute diventano norme a Sesto.
Le diverse culture, quella cattolica sociale e quella riformista socialista e comunista, hanno saputo dare molta concretezza, guardare avanti e nel contempo anticipare sui contenuti e sull’unità sindacale. Ciò che manca oggi.