Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Autonomia e contratti. Storie di sindacalisti della Cisl in Lombardia”, a cura di Guido Baglioni e Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma, 2006
Sono nata a Pioltello, il 22 marzo 1938. Provengo da una famiglia di contadini composta da mamma, papà e cinque figli, due maschi e tre femmine. Io sono l’ultimogenita. A Pioltello ho fatto le scuole elementari e quella che una volta si chiamava la “sesta”. Intanto che studiavo, davo una mano ai miei nei campi. Il primo lavoro regolare l’ho avuto a 14 anni quando, grazie all’interessamento del ragioniere del paese, ho trovato un posto alla Lanar, una fabbrica tessile che stava aprendo proprio in quel periodo a Cernusco sul Naviglio. Sono stata assunta il 22 marzo 1952 come operaia. I primi giorni li ho passati a pulire vetri e pavimenti.
Il sindacato l’ho incontrato mentre lavoravo alla Lanar,
anche se non subito e per vie traverse. Mi spiego: io partecipavo attivamente
alla vita dell’oratorio e facevo parte dell’Azione cattolica e delle Acli. Un
giorno sono andata ad un incontro delle Acli, condotto da Lorenzo Rota
sull’impegno sociale e politico dei cattolici. Ricordo che Rota, tra le altre
cose, disse che bisognava darsi da fare nel sindacato. Finita la discussione
cominciai ad interrogarmi su cos’era il sindacato e perché in parrocchia e nell’Azione cattolica
non se ne parlava. Mi informai e scoprì che a Gorgonzola c’era una sede
distaccata della Cisl. Ci andai e lì incontrai prima Albino Estorelli, e
successivamente Luigi Massara, due operatori di zona molto bravi. Di fatto,
furono le persone che mi introdussero nel sindacato. A quei tempi la situazione
per i lavoratori era molto difficile. Alla Lanar facevamo i turni, in certi
periodi anche la notte. All’inizio io ero in carica presso il reparto tintoria,
poi a causa di un’infezione contratta in fabbrica che mi ha fatto finire in
ospedale a Melzo per intossicazione, sono stata trasferita nel magazzino filatura.
Come ho detto, le condizioni di lavoro erano difficili, così nella seconda metà
degli anni ’50, abbiamo deciso di organizzarci e di iscriverci al sindacato.
Volevamo far valere i nostri diritti. Eravamo in una cinquantina di donne. A
portarci le tessere fu Estorelli, dopo una mia telefonata. Allora si pagava
mille lire e rotti di quota e c’era il sistema dei bollini. Un altro incontro
importante fu quello con Mario Colombo, allora segretario generale dei
tessili-abbigliamento della Cisl di Milano, che un giorno venne in visita da
noi, insieme ad Antonio Persano, un altro segretario di categoria. Ricordo che
ci parlò della possibilità di costituire la commissione interna. In quei tempi
cominciai anche a frequentare la sede centrale di via Tadino, dove la domenica
il professor Sergio Zaninelli, che poi sarebbe diventato rettore
dell’università Cattolica, teneva dei corsi di formazione per attivisti
sindacali. Le lezioni riguardavano la storia della Cisl, i concetti di
autonomia, padronato, democrazia, Stato, le differenze tra noi e la Cgil… e
altri argomenti ancora. Si trattava di appuntamenti molto interessanti, a cui
partecipavo con entusiasmo. Tutto ciò mi diede la spinta per impegnarmi sempre
più in azienda, dove, grazie anche alle sollecitazioni di Estorelli, Massara e
quelli di Milano, mi diedi da fare per costituire la commissione interna. Credo
fosse il 1958. Il padrone fece molta resistenza, non ne voleva sapere di avere
il sindacato tra i piedi. Oltretutto la vicenda di intrecciava con le lotte in
corso per il rinnovo del contratto nazionale, un contratto che poi si chiuse
con un aumento del salario del cinque per cento: non poco in un periodo come
quello, che vide la prima forte crisi del settore. In quell’anno si fecero
almeno duecento ore di sciopero. Ad ogni modo la commissione interna fu messa
in piedi. Oltre a me, ne facevano parte altre due compagne, una delle quali si
sarebbe fatta suora, fino a diventare superiora delle Canossiane. Il padrone,
però, non me la fece passare liscia. Nel 1960 fui operata di calcolosi renale e
al mio rientro, nonostante l’operazione e i sessanta punti di sutura che mi
trovai addosso, fui punita. La mia ostinazione nella vicenda della commissione
mi costò, infatti, il trasferimento dal magazzino alle macchine, più
precisamente alla macchina abbinatrice: un compito pesante, sempre su e giù con
la ferita che mi faceva male. Insomma, mi castigarono per bene, tanto che mi
arrabbiai molto. Si lavorava sempre, ma io non mi lasciavo intimidire e le mie
compagne, un po’ anche perché erano dispiaciute per quello che mi era successo,
mi seguivano: un giorno abbiamo scioperato per poter seguire la processione del
Corpus Domini, alla quale non avremmo potuto partecipare perché la fabbrica era
sempre aperta. Il lavoro sull’abbinatrice mi creò non pochi problemi di salute,
tanto che feci un lungo periodo di malattia a casa. Al mio rientro, per fortuna
mi misero su una macchina meno pesante: il lavoro era faticoso, ma
sopportabile. Ad ogni modo, nonostante tutto quello che ho passato, ho un bel
ricordo di quel periodo, delle mie prime esperienze nel sindacato e del clima
che si era creato in azienda tra noi dipendenti.
Da attivista
a sindacalista
Sono rimasta
alla Lanar per una decina d’anni, fino al dicembre del 1962, quando mi sono
licenziata per dedicarmi a tempo pieno all’attività sindacale. Successe che
durante una delle domeniche in cui ci si incontrava in via Tadino, la
segreteria dell’Unione milanese, che allora era guidata da Roberto Romei, mi
propose di partecipare ad un corso lungo al centro studi di Firenze. La cosa mi
interessava, ne parlai in famiglia (tra l’altro era appena scomparso mio padre)
e, tutti d’accordo, decisi di accettare. Come detto dovetti licenziarmi, perché
allora non esistevano i distacchi sindacali, ma ero felice, perché l’impegno
nella Cisl mi era ormai entrato nel cuore. In attesa di cominciare al centro
studi, ho lavorato per tre mesi nella sede di Gorgonzola, facendo quello che
faceva l’operatore di zona: cioè un po’ di tutto. Nel marzo del 1963 sono
partita per Firenze. Il corso era duro, severo. Richiedeva parecchio impegno,
non era una cosa da prendere alla leggera. Al termine bisognava anche superare
un esame; la commissione giudicatrice era presieduta da Mario Romani. Sono
rimasta lì fino a luglio, con la possibilità di tornare a casa una volta al
mese. L’ambiente fiorentino era molto eterogeneo. Tra gli iscritti c’era da chi
aveva fatto appena la quinta elementare, al diplomato, al laureato. In tutto
eravamo in una trentina. Il corso era finalizzato a preparare i futuri
operatori e dirigenti sindacali. Già allora si parlava di autonomia. Insieme a
quello del cosiddetto risparmio contrattuale era il concetto su cui battevano
maggiormente i docenti. Io ricordo in particolare la responsabile dell’Ufficio
femminile della Cisl, Sandra Codazzi, che ci seguiva con grande attenzione. E’
stata una bellissima esperienza, che mi ha aiutato a conoscere più da vicino il
sindacato e mi ha dato una grande carica. Finito il corso mi hanno rimandata a
Gorgonzola, “a fare l’orizzontale”. Non fui presa come “verticale”, cioè in una
categoria, perché l’allora segretario dei tessili, Maresco Ballini, non mi
volle perché aveva già altre due donne, Giovanna Bramante e Matelda Fedi. Ero
operatrice di zona, facevo le vertenze. Per me le vertenze sono il catechismo
del sindacato, tutti i sindacalisti dovrebbero farle perché si impara
moltissimo. Qui come operatore c’era anche Gianni Pini. Successivamente
arrivarono Luigi Nerini e Nunzio Filisetti. Allora l’organizzazione era divisa
in mandamenti: io facevo parte di quello di Monza, che dipendeva da Milano. A
quei tempi, però, la ripartizione tra orizzontali e verticali non era rigida
come oggi: se c’era da scioperare, da volantinare in giro o da fare picchetti
davanti ai cancelli delle fabbriche lo si faceva. Sul territorio c’erano tante
grandi aziende, di diversi settori: tessile-abbigliamento, chimico, meccanico,
alimentare. In quel periodo seguivo anche Loano. La Cisl di Gorgonzola era
proprietaria di uno stabile in Liguria, allora era utilizzato come scuola, una
scuola convenzionata con la Provincia di Milano per minori con problemi.
D’estate veniva, invece, impiegata come
casa-vacanze per sindacalisti. E poi facevo formazione agli attivisti e
ai lavoratori. Ci trovavamo nelle parrocchie e per tre ore di seguito si
parlava della Cisl, di autonomia, di contrattazione, del ruolo del sindacato e
via dicendo. Ma torniamo alle aziende. Nella mia zona ce n’erano molte del
settore alimentare. Le più grandi erano la Cademartori a Gorgonzola,
l’Invernizzi e la Galbani a Melzo. A Melzo, tra l’una e l’altra davano lavoro a
più di mille operai. Poi c’erano la Ferrero, che aveva 500 dipendenti, e il
salumificio Sala, tutte e due a Pozzuolo Martesana. Insomma, grosse realtà. In quegli anni gli alimentaristi avevano
diciassette contratti diversi e quindi erano sempre in ballo per i rinnovi.
Agli
alimentaristi
Un giorno Sandro
Pastore, allora segretario organizzativo all’Unione di Milano, mi mandò a
chiamare e mi disse che dovevo seguire la mobilitazione per il rinnovo del
contratto dei salumifici, dal momento che il segretario degli alimentaristi di
Milano, si chiamava Umberto Lamagni, era in America e quindi non poteva
occuparsene. C’era in programma uno sciopero e per fare il volantinaggio, in
via Tadino mi diedero una Cinquecento.
Così cominciai ad avvicinarmi a questo mondo, naturalmente senza
dimenticare le altre realtà: se c’era da dare una mano per un picchetto in una
fabbrica tessile o meccanica non mi tiravo indietro di sicuro…. Seguivo le
aziende, facevo le vertenze, finché agli inizi del 1968 venni chiamata ad
entrare nella segreteria della Fulpia, la categoria degli alimentaristi. Allora
si cominciava a parlare di unità sindacale e su questo tema o avevo una
posizione e Lamagni un’altra. La cosa creò qualche divisone interna, poi
Lamagni andò a Roma nella segreteria nazionale della categoria e io nel 1969
divenni segretario generale. In quegli anni a Milano c’era un effervescenza
culturale incredibile. C’era gente come Pastore, Rino Caviglioli, Bruno Manghi,
Pierre Carniti, Fausto Sartori, Pippo Morelli, Pippo Torri, Renzo Cattaneo. Era
una scuola permanente di sindacalismo. Il fior fiore della Cisl era concentrato
qui. Da numero uno della Fulpia ebbi molto da fare: eravamo sempre in pista per
i contratti. La zona era vasta e io andavo su e giù con la Cinquecento: Milano,
Besana Brianza, Melzo, Gorgonzola, Vimercate, fino a Vaprio d’Adda. Caricavamo
la macchina di volantini e andavamo a distribuirli davanti alle fabbriche. Facevamo
un imbuto con il cartone, dentro ci mettevamo i volantini, e poi lo attaccavamo
ai cancelli. Le aziende erano di diversi tipi, ce ne’erano di grandi, come la
Motta, l’Alemagna, la Galbani, ma anche tante piccole o medio-piccole. Era un
lavoro immane, non so quante notti ho fatto in giro per la provincia. Per
fortuna ho sempre avuto ottimi collaboratori: in segreteria sono stata via via
affiancata da Luigi Nerini, Carlo Bramati, Etta Olgiati e Guido Margonari. Tra
gli operatori ricordo Anna Ponzellini. Sono arrivata che c’erano 1.500
iscritti, quando sono andata via erano settemila, segno che si è lavorato bene.
E’ stato un periodo faticoso, ma anche molto fruttifero: abbiamo conquistato la
possibilità di fare assemblee, di avere delegati con i permessi sindacali, si
sono avviate diverse esperienze di contrattazione aziendale, oltre a quella
nazionale. Il merito riguardava, in particolare, i premi di produzione e le
qualifiche. Nei contratti dolciari e carne abbiamo ottenuto il diritto di
assemblea, prima che venisse inserito nello Statuto dei lavoratori. Abbiamo
fatto tanti scioperi, tante vertenze. Questa fase così vitale è stata favorita
anche dal cambio della dirigenza romana, con l’avvento di Eraldo Crea e Idolo
Marcone nella segreteria nazionale della
Fulpia. Crea e Marcone sono stati dei buoni maestri. Nel sindacato ne ho avuti
tanti di buoni maestri. Lo stesso Pastore era di una umanità e sensibilità
molto particolari. Ma ho imparato anche da alcuni amici della Cgil, persone di
cultura opposta alla mia che, però, mi hanno dato qualcosa. Penso ad Andrea
Gianfagna e a Nella Marcellino, entrambi della segreteria nazionale della
Fulziat, come allora si chiamava il sindacato degli alimentaristi nella Cgil.
Con la Cgil i rapporti erano buoni, sulle grandi vertenze c’era unità d’azione.
Ho cominciato a partecipare alle manifestazioni per il Primo Maggio quando
della Cisl eravamo in tre ad andarci. Tornando alla contrattazione, io
partecipavo anche alle trattative per i rinnovi nazionali. Si partiva in treno
da Milano e si viaggiava di notte. A Roma ci incontravamo nella sede di
Confindustria, che prima si trovava in piazza Venezia e successivamente si è
trasferita all’Eur. Si facevano le mattine a discutere. Con il tempo siamo
riusciti a scendere da diciassette contratti a tre raggruppamenti, poi ad uno
solo. In quegli anni ho poi seguito diverse vertenze esemplari, ma le più dure
sono state quelle alla Motta e Alemagna. Abbiamo fatto anni e anni di lotte
infinite, durissime, a tutela dell’occupazione. Lotte che coinvolgevano sei,
settemila persone. Con la stampa addosso, che seguiva queste vicende con un
interesse eccezionale. Alla fine un gruppo di giornalisti ne fece anche un
libro. La gente, i milanesi, era dalla nostra parte. Ricordo che arrivammo ad
occupare la fabbrica di viale Corsica, dove un giorno venne a dire messa il
cardinale di Milano Giovanni Colombo. Il regista Giorgio Strelher mise in piedi
uno spettacolo al Piccolo Teatro per sostenere la lotta dei lavoratori. Nello
stabilimento di Segrate facemmo un’esperienza di autogestione, poi ripetuta
alla Fioravanti, azienda che produceva tortellini, di Milano. La Fioravanti
riuscimmo anche a farla requisire dal sindaco Aldo Aniasi. La Cisl aveva
un’ottima rete di attivisti ed era molto apprezzata per il lavoro che faceva.
Poi iniziò il periodo delle ristrutturazioni, delle chiusure, che io seguii
anche dopo aver lasciato la categoria. Nel corso degli anni mi è capitato di
incontrare delle persone che allora persero il posto, ma che conservano un buon
ricordo di noi perché sanno che abbiamo fatto tutto il possibile per evitare i
licenziamenti. In coscienza abbiamo davvero fatto tutto quanto era in nostro
potere per tutelare i lavoratori. Il passo successivo della mia vita nel
sindacato è stato l’ingresso nella segreteria dell’Unione. Era il 1975, il
segretario generale era Mario Colombo. In segreteria c’era anche Manghi. Furono
anni difficili, erano gli anni del terrorismo. Alla Cisl di Milano ci fu una
fase di dura contestazione. Cominciava “l’era Tiboni” (Piergiorgio Tiboni era
l’allora segretario della Fim territoriale), quando vennero raccolte mille
firme contro la politica confederale portata avanti da Luigi Macario. La Cisl
si impegnò a fondo contro il terrorismo e la strategia della tensione, dando un
forte contributo alla lotta per la difesa delle istituzioni democratiche. Il
motto di allora era “la democrazia si difende con la democrazia”. Io partecipai
a tutte le manifestazioni. Ricordo ancora come fosse oggi i funerali di Walter
Tobagi. Quella fase fu anche segnata dall’incidente all’Icmesa di Seveso, nel
1976, con la fuoriuscita della diossina che contaminò e inquinò gravemente
alcuni paesi della Brianza. Una vicenda drammatica, che seguimmo da vicino.
Rimasi nella segreteria di via Tadino fino al 1980. Dal punto di vista
strettamente sindacale mi occupai di contrattazione, mercato del lavoro e
aziende in crisi. In quel periodo la Cisl milanese diede vita, da un’idea di
Manghi e con l’aiuto di Giorgio Bozzeda, un operatore di allora, ai campi scuola
autogestiti. Una grande esperienza di vita. Si alternavano attività formative
ad altre ricreative. Ne abbiamo fatti diversi, soprattutto in Valtellina e
Trentino. I partecipanti si occupavano di tutto, comprese cucina e pulizie. Da
milanese l’iniziativa ha poi assunto dimensioni sovraregionali, coinvolgendo le
Cisl della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia Romagna.
Segretario
generale della Cisl Lombardia
Da via Tadino ad
un certo punto mi chiesero di entrare nella segreteria regionale. Accettai solo
per spirito di servizio verso l’organizzazione. Era il 1980. L’idea di
trasferirmi al regionale non mi piaceva anche se poi si rivelò una buona
esperienza. Il segretario generale era Melino Pillitteri. Oltre a me c’erano
Paolo Nardini, Emilio Zeni, Gianni Bon, Antonio Gilardi e Fiorindo Fumagalli.
Io avevo la delega all’organizzazione e amministrazione. In quel periodo era in
corso un dibattito interno tra “sinistra” e “destra”, tra “carnitiani” e
“mariniani”. Ti mettevano addosso l’etichetta: quelli di sinistra dicevano che
io ero di destra, quelli di destra che ero di sinistra. Io mi consideravo
“carnitiana” ma ero anche amica di Marini. Per me al primo posto c’è sempre
stata la Cisl e basta…. e poi la nostra gente, gli iscritti certe cose non le
capivano. Nel 1983 si pose poi il problema della successione a Pillitteri, che
fu chiamato a Roma a sostituire il presidente dell’Inas, scomparso
prematuramente. Il candidato naturale era Bon, ma c’era chi non era d’accordo;
c’era Zaverio Pagani, segretario dell’Unione di Bergamo, poi si parlò di Sandro
Antoniazzi…. Il fatto è che non si trovava la quadra. Un bel giorno mentre mi
trovavo a Roma – ero lì perché, per la mia passione per le cooperative, facevo
anche parte della presidenza dell’allora nascente Cenasca – venni chiamata
nell’ufficio di Marini, con Carniti in ospedale perché aveva avuto un infarto.
Marini, senza troppi giri di parole, mi disse che insieme a Carniti avevano
deciso di affidare a me l’incarico di segretario generale della Cisl lombarda.
Lì per lì tergiversai un po’, ero perplessa, sostenni che c’erano altre
candidature, ma fu inutile. Le stesse cose me le ripetette Carniti quando andai
a trovarlo in ospedale. Come aggiunto fu designato Fiorindo Fumagalli.
L’elezione da parte del consiglio generale avvenne a Bergamo nel giugno del
1984. Io però fui molto chiara con Carniti e Marini, perché dissi subito loro
che consideravo il mio incarico a termine. Era la prima volta che una donna
raggiungeva una posizione di così alto livello nella Cisl. In quegli anni credo
di avere lavorato bene, nel solo interesse dell’organizzazione e dei suoi
rappresentati. Ho fatto le mie scelte, senza guardare agli schieramenti. Ho
trattato tutti alla stessa maniera, non ho fatto il segretario di una o
dell’altra parte. Io che ero considerata di sinistra (nel sindacato) non ho
esitato a sfiduciare due segretari di due comprensori di allora, Gianbattista
Ossola a Lodi-Crema e Luisa Cucchi a
Vigevano-Abbiategrasso, perché avevano una posizione diversa rispetto alla Cisl
sul referendum per l’abrogazione della scala mobile: l’organizzazione era
nettamente schierata per il “si”, loro per il “no”, come la Cgil e il partito
comunista. Non fu una decisione facile, con la Luisa ero anche amica, ma non
potevo permettermi deviazioni di rotta su una questione così importante. Il
referendum ci assorbì moltissime energie. La campagna referendaria fu molto
impegnativa. Prima del voto facemmo una grandissima manifestazione al palazzo
dello sport di Milano con Carniti, alla quale parteciparono migliaia di
persone. Me la ricordo ancora. Fu un momento straordinario. Non è stato un
periodo semplice. Fu il periodo in cui tirarono i bulloni a Giorgio Benvenuto,
allora segretario nazionale generale della Uil. I miei colleghi regionali erano
Antonio Pizzinato, a cui poi subentrò Pino Cova per la Cgil e Loris Zafra per
la Uil. Con Pizzinato avevo ottimi rapporti, era una brava persona, capace, ci
si trovava anche al bar, ma dopo il voto referendario ci fu qualche tensione.
Referendum a parte, durante il mio mandato gestii i rapporti con la Regione,
prima guidata da Giuseppe Guzzetti, poi da Bruno Tabacci, e mi occupai di
alcune grosse crisi industriali, soprattutto nel settore siderurgico. Come
avevo previsto, lasciai l’incarico all’assemblea organizzativa che si tenne a
Milano nel 1987 e il mio posto fu preso da Sandro Antoniazzi, anche perché nel
frattempo il mio aggiunto, Fumagalli, era andato a Roma a fare il segretario
degli elettrici. Chiuso il percorso al regionale per me si apriva una nuova
fase.
A Roma
Ormai avevo
rinunciato a ogni incarico politico, quindi nel 1988 accettai di andare a
lavorare a Roma alla confederazione come operatrice per la formazione e le
politiche giovanili. Per me significava tornare indietro negli anni, ai tempi
dei campi scuola milanesi. La formazione mi ha sempre interessato e quindi ero
contenta, ma ben presto mi disillusi. Il responsabile nazionale era Luca
Borgomeo. Io ero praticamente disoccupata. All’ufficio formazione non mi
facevano fare quasi niente. Arrivavo a Roma il lunedì e ripartivo il venerdì,
ma era tutto tempo sprecato. Ogni tanto andavo da Marini a lamentarmi, a
chiedergli di intervenire, ma lui poteva fare ben poco, nel senso che non
poteva tampinare tutti i giorni Borgomeo. Oltretutto politicamente non era un
bel periodo perché all’interno dell’organizzazione si parlava già della sua
successione a capo della Cisl. Per fortuna nel 1990 venni nominata al Cnel, il
Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Quella fu una bella esperienza.
Io facevo parte della Commissione incaricata di costruire un archivio della
contrattazione. Eravamo un bel gruppo,
con un presidente molto attivo. Lavoravamo tre giorni alla settimana molto
seriamente. Partecipavo anche a diversi convegni, ma l’impegno al Cnel non mi
occupava a tempo pieno per cui posi il problema del mio utilizzo alla
segreteria confederale, alla cui guida nel frattempo era arrivato Sergio
D’Antoni, con Luigi Cocilovo delegato alla formazione e ai giovani. Andai da
loro e gli dissi: “Non intendo più venire su al quarto piano ad occupare una
sedia, se ci sono compiti da affidarmi bene, altrimenti è meglio che me ne
vada”. E così accadde. Si trovò un accordo e tornai all’Unione di Milano, con
l’incarico di seguire il Cesil, il servizio stranieri, attività che svolgo
ancora oggi. Per tre anni ho fatto la pendolare tra Milano e Roma. Stavo due
giorni in via Tadino e tre nella capitale, al Cnel. Fu un periodo molto
intenso. Poi la mia vita nel sindacato prese un’altra strada: nel 1993 venni
infatti eletta nella segreteria regionale della Fnp, i pensionati. Il
segretario generale era Nevio Petretti, in carica dal 1985, a cui a fine anno
subentrò Luigi Battisti. L’inizio, nonostante la lunga esperienza di sindacato
che avevo alle spalle, non fu semplice, anche perché mi venne affidata la
delega alla sanità, un argomento di cui non mi ero mai occupata, se non
marginalmente. Poi con lo studio e l’attività sul campo ho cominciato ad
ingranare e ad appassionarmene. La sanità, soprattutto in un’organizzazione che
rappresenta persone anziane, è un tema fondamentale, che va seguito
attentamente. E’ stato un periodo molto intenso, di lotte, mobilitazioni e
campagne, come quella chiamata “Dare voce a chi non l’ha”, a tutela dei diritti
dei pensionati. Ci siamo occupati di salute, assistenza, case di riposo, non
autosufficienti, insomma di politiche socio-sanitarie-assistenziali a 360°. In
quegli anni abbiamo avuto una grossa interlocuzione con la Regione, anche
perché nel 1997 il Pirellone ha approvato un provvedimento, la famosa legge 31,
che ha ridisegnato e cambiato radicalmente il sistema sanitario lombardo. Ci
sono stati momenti di confronto e di scontro anche aspri. Unitariamente con
Cgil e Uil abbiamo pubblicato due “libri neri” sulle liste di attesa per gli
esami diagnostici. Con la Spi-Cgil e il suo segretario generale, Franco Rampi,
i rapporti erano buoni. Inoltre è stata avviata un’intensa fase di
contrattazione con l’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e le
amministrazioni locali, per la predisposizione di interventi di vario tipo a
favore della popolazione anziana. Insomma non c’è stato il tempo di annoiarci.
Nel gennaio del 2000, con l’elezione di Arnaldo Chianese a segretario generale,
sono diventata segretario generale aggiunto, incarico che ho mantenuto fino a
meta del 2002, quando sono tornata a Milano, questa volta a fare il segretario
generale della Fnp. L’elezione è avvenuta il 20 giugno del 2002 e adesso sono
ancora qua. E’ un’esperienza molto interessante, ma anche impegnativa. Da
Milano, in questi anni, abbiamo dato il nostro contributo alle lotte avviate a
livello nazionale dai sindacati dei pensionati a tutela delle condizioni di
vita degli anziani, a protezione del valore delle pensioni e per la
costituzione di un fondo per i non autosufficienti. La costituzione del fondo è
un po’ il mio sogno. Non si tratta di un compito semplice perché
l’interlocuzione con il governo è stata sempre problematica. Lo stesso si può
dire per ciò che riguarda i rapporti con l’amministrazione comunale milanese.
Ma noi non ci diamo per vinti. L’Italia è un Paese che sta progressivamente
invecchiando e questo è un fatto di cui
dovranno tenere conto tutti i governi che verranno. Ho iniziato la mia
attività sindacale a Milano e la terminerò a Milano. Devo dire che sono contenta
di quello che sono riuscita a fare e delle scelte che ho compiuto. Ho dedicato
la vita alla Cisl, ma in cambio ho ricevuto delle belle soddisfazioni. Anche a
distanza di tempo, come quando a Natale ti telefona l’operaio della Fioravanti,
ormai ottantenne, per gli auguri. L’impegno è stato totalizzante: ho vissuto
momenti duri, difficili, e altri straordinari, bellissimi. Ho avuto modo di
conoscere persone di eccezionale valore. Lavorare nel sindacato è un’esperienza
umana unica.