martedì 12 maggio 2020

TARCISIO SCALVINI - Industrie Pasotti Spa – Sabbio Chiese (Bs)

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Gli anni caldi dei metalmeccanici bresciani”, di Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma 2005

Sono nato il 9.3.40 a Sabbio Chiese e vivo ancora lì. Ho fatto le elementari e poi sono andato a lavorare. Il diploma di scuola media l’ho avuto con le 150 ore. Ho cominciato a lavorare a tredici anni, nel '53. Ho lavorato in nero in una ditta piccolissima, dove sono stato qualche mese, poi ho cambiato e sono andato in un’altra piccola officina. Sono stato fortunato perché era un’azienda nuova, la F.lli Ghidini, che aveva appena iniziato la propria attività da tre giorni, si era trasferita da Lumezzane a Sabbio e i primi cinque o sei operai che sono entrati li hanno assicurati. Così sono riuscito ad andare in pensione a cinquantuno anni con trentasette di contribuzione.

Era un’azienda metalmeccanica, come la precedente. Si producevano maniglie per mobili e io facevo il pulitore. Mentre la produzione iniziale era di tipo industriale, pian piano ci si è orientati sulla produzione artistica. Nel momento di maggiore espansione eravamo più di quaranta dipendenti. Oggi ci lavorano quattro o cinque persone. Io sono rimasto fino a gennaio '64, poi mi sono trasferito alla Pasotti e sono rimasto in quella fabbrica fino a quando sono andato in pensione, anche se ero in distacco sindacale, continuando sempre a fare il pulitore.
Anche la Pasotti ha avuto un’evoluzione. Un tempo era una maniglieria, poi si è spostata sugli accessori per elettrodomestici e ora lo stabilimento di Sabbio continua con questa produzione, mentre un altro stabilimento a Sopravalle costruisce caloriferi. A Sabbio c’erano circa centosettanta dipendenti, anche se quando sono entrato eravamo un po’ meno. Adesso sono oltre duecento.

Il sindacato l’ho scoperto per caso.  Alla F.lli Ghidini sono stato sospeso tre giorni per aver chiesto quanto mi era dovuto. Li c’era l’abitudine che a Natale si veniva chiamati uno alla volta in ufficio per contrattare la tredicesima. Mi ricordo che erano duecento ore e prendevo centosessanta lire all’ora e avrei dovuto prendere 32mila lire. Me ne hanno offerto 12mila e mi hanno chiesto se ero contento. Io davo del tu al padrone e gli ho risposto: “Se me ne davi di più, sarei stato più contento”. E per questo mi ha sospeso per tre giorni. La mia rabbia e la mia motivazione sindacale è nata lì. Ho litigato con mio padre per questo. Ero un ragazzino e non volevo più tornare a lavorare e mio padre mi ha detto che dovevo avere pazienza, perché anche negli altri posti la situazione non era molto diversa. Mentre ero a casa in sospensione, mi sono ammalato e così il quarto giorno non mi sono presentato a lavorare. Il padrone mi ha mandato a chiamare da un operaio che abitava vicino a noi dicendo che voleva parlarmi. Ho aspettato ancora un paio di giorni perché avevo la febbre e poi sono andato da lui. Mi ha dato ancora un po’ di soldi di tredicesima e mi ha offerto un aumento di paga oraria. A quel punto ho capito che forse valeva la pena non stare zitti. La ragione del mio impegno futuro è nata lì, anche se non mi ero rivolto al sindacato.
Solo un paio d’anni dopo ho avuto contatti con il sindacato, che a quell’epoca aveva sede solo a Brescia e fin lassù non veniva quasi mai nessuno, anche perché non c’erano iscritti. La ragione è stata ancora una volta la tredicesima. Come al solito, anche quell’anno avevamo tutti contrattato la tredicesima, ma eravamo arrivati più o meno alla metà di quello che ci spettava. Qualche mese dopo all’oratorio c’era stata una riunione dei lavoratori della Pasotti – che è accanto alla F.lli Ghidini - con un operatore sindacale, non so se fosse della Cisl o della Cgil, e tra i problemi di cui avevano discusso c’era anche quello della tredicesima. Parlando tra operai lo abbiamo saputo e allora lo abbiamo contattato. Abbiamo fatto un paio di incontri, è venuto anche a casa mia e ho rischiato un po’ perché i contatti li ho tenuti io e il padrone era venuto a saperlo. Il sindacalista è andato a parlare con il titolare e a maggio ci ha fatto prendere quello che non avevamo preso a Natale. A quel punto ero finito sul libro nero e quando c’era qualche problema il padrone se la prendeva con me. 
Ma anche dopo questa vicenda per parecchi anni non ho più visto il sindacato. Nessuno si è iscritto, anche perché era rischioso farlo, e lui non ci ha sollecitati a iscriverci. Sono stato in quella fabbrica per nove anni. E quando sono andato alla Pasotti anche lì il sindacato non c’era.

Dopo l’esperienza degli anni addietro avevano interrotto ogni contatto, ma nel ’69 l’idea delle lotte dei lavoratori e l’idea di organizzarsi sindacalmente erano nell’aria ed è nato uno sciopero spontaneo per il contratto. Avevamo sentito dai giornali e in televisione che era stato organizzato uno sciopero nazionale e in reparto avevamo parlato di questo. Nessuno però aveva proposto di aderire, ma il momento era favorevole e un fatto del tutto casuale scatenò la scintilla che diede il via allo sciopero. C’era un lavoratore tra noi, il Giovannino, che abitava in una frazione vicina e arrivava sempre molto presto. Per lui essere lì venti minuti prima dell’inizio del lavoro era già tardi. Allora si fermava sul cancello e scambiava qualche parola con tutti quelli che arrivavano. A quell’epoca tutti gli scarti e lo sporco che si producevano lavorando si buttavano nel fiume Chiese che passa li di fronte e da qualche giorno era comparso un cagnolino che andava a frugare tra quei rifiuti. Il giorno dello sciopero il lavoratore mattiniero era arriva come sempre con largo anticipo e, siccome non c’era ancora nessuno, si era fermato a osservare il cagnolino sul lato opposto all’ingresso della fabbrica. Nel frattempo era sopraggiunto un secondo operaio il quale, vedendo il Giovannino che era là si spostò anche lui in riva al fiume. E fu così anche per un altro gruppetto di lavoratori. Ad un certo punto, un nuovo arrivato, vedendoli sull'altro lato della strada, disse ad alta voce: “ma fanno sciopero quelli là?”.  Fu come un segnale, la voce si diffuse e nessuno è entrato ed è nato il primo sciopero alla Pasotti.
Il padrone, al suo arrivo, vedendo gli operai fuori dalla fabbrica ha chiesto che cosa stava succedendo, ma ormai era troppo tardi e lo sciopero era riuscito. Nessuno è entrato e dopo poco tempo è comparso davanti alla fabbrica un sindacalista. Si sono fatte le prime tessere, poi ci sono state le elezioni dei delegati ed è nato il sindacato alla Pasotti.
Io ho partecipato allo sciopero, mi sono iscritto al sindacato, ma senza alcun impegno particolare. Quando nel 1970 abbiamo votato una seconda volta non c’erano candidati e mi sono trovato eletto. Confesso che se mi avessero detto o fai il delegato o paghi, io avrei preferito pagare, anche perché ero abbastanza imbranato, timido. Ma l’operatore mi ha incoraggiato e così ho iniziato e da allora non più smesso fino all’83, quando sono uscito in distacco la prima volta.

A quell’epoca c’era la Flm, era stato costituito il comprensorio del Garda con sede a Desenzano e lì avevano fatto un accordo secondo il quale per quattro mesi usciva un delegato Fiom a gestire l’ufficio vertenze, per tre mesi uno della Fim e per due mesi uno della Uilm. Prima mi hanno chiesto se volevo uscire a fare l’operatore, ma avevo detto di no. Allora mi hanno proposto l’ufficio vertenze della Flm e io, che ho sempre avuto il pallino dei conti e delle buste, ho accettato. Mi avevano detto che prima avrei partecipato ad un corso di formazione a Brescia, invece un giorno mi hanno telefonato in fabbrica e mi hanno detto che dal lunedì successivo avrei dovuto iniziare e i tempi per il corso non c’erano. Così ho fatto i miei tre mesi e poi sono rientrato. Ma dopo quindici giorni il delegato della Uilm, che era un meridionale e siccome eravamo sotto Natale tornava a casa per le feste, mi ha chiesto se lo sostituivo e sono uscito per altri venti giorni e poi sono rientrato in fabbrica, ma solo per qualche mese. Infatti, l’accordo tra Fim, Fiom e Uilm non ha funzionato e la Fim mi ha chiesto se ero disponibile per un paio di giorni alla settimana, e così è stato. Utilizzavo le ore del consiglio di fabbrica per fare l’ufficio vertenze dell’organizzazione e non più quello unitario Sono andato avanti per alcuni anni, i giorni sono diventati tre. Nell’87 si è liberato il posto nell’ufficio vertenze della Cisl del comprensorio del Garda e sono andato lì dove sono rimasto lì fino a quando sono andato in pensione, a fine 91.
Ho continuato a collaborare con la Cisl e attualmente faccio quattro recapiti quindicinali per l‘ufficio vertenze in zona: Salò, Gavardo, Vestone, Vobarno per due pomeriggi alla settimana.

La Pasotti ha avuto dei periodi di casa integrazione, ma solo in alcuni reparti. Personalmente non ho fatto più di tre settimane in tutto. La cig è stata chiesta generalmente per difficoltà di mercato, L’azienda per un certo periodo non aveva aggiornato i propri impianti e ha rischiato. Il problema, però, è stato risolto in modo indolore, non ci sono stati licenziamenti. C’è stato qualche prepensionamento. Questo è avvenuto una prima volta nell’82, ‘83 mentre un secondo periodo di crisi l’abbiamo vissuto a cavallo tra il 1987 e il 1988. Fu necessario ricorrere ai prepensionamenti per ben due volte. Ci furono dei momenti di tensione perché proprio l’ultimo giorno dell’anno, quando i lavoratori si preparavano a lasciare la fabbrica, era arrivata la notizia che il presidente della repubblica Francesco Cossiga non aveva firmato la legge e si era diffusa molta preoccupazione. Allora il segretario generale della Fim di Desenzano mi ha spiegato la situazione e sono tornato in azienda – dalla quale in quel momento ero in distacco – per riferire ai lavoratori come stavano le cose e far capire che non c’erano problemi. Infatti poterono uscire lo stesso perché c’erano due possibilità: una per l’alluminio e l’altra per le crisi aziendali e utilizzando uno o l’altro provvedimento si poteva comunque lasciare il lavoro. Tutte queste vicende vennero affrontate senza che fosse necessario ricorrere a scioperi.

Il titolare della Pasotti non tollerava vedere gli operai fuori dal cancello e quando c’era sciopero  diceva: andate a casa vostra, ma non fatevi vedere fermi sul cancello. Allora, a volte, bastava minacciare lo sciopero per raggiungere l’intesa.
Una volta c’era un tale fumo in fonderia che non si poteva respirare, non ci si vedeva, ma i lavoratori erano indecisi sul da farsi. Noi li abbiamo sollecitati ad uscire dal reparto per cercare di risolvere il problema e questi si sono raccolti nel cortile interno. Fu uno dei pochi casi di sciopero per motivi aziendali, perché altrimenti si facevano solo gli scioperi per il contratto nazionale o generali.
Non era una fabbrica particolarmente nociva, ma problemi di difesa della salute ce n’erano. C’era la fonderia con i fumi, la cromatura dove c’era il problema degli acidi e c’era il reparto pulitori con la questione delle polveri.
Il datore di lavoro sembrava un orso, ma era una persona che ragionava abbastanza. Si doveva incalzarlo continuamente e in questo modo si riusciva ad ottenere ciò che si chiedeva, senza bisogno di arrivare agli scioperi. Siamo riusciti ad ottenere diverse modifiche nei reparti. In ogni accordo aziendale c’era sempre il capitolo ambiente, anche se erano linee di principio che non entravano nelle questioni di sostanza. La sostanza normalmente veniva discussa a parte.
Il datore di lavoro abitava fuori dall’azienda. Al mattino, quando arrivava, veniva sempre a parlare con i delegati e noi facevamo presente i problemi che c’erano, magari si doveva parlarne più volte, qualche volta si minacciava di andare in strada. In questo modo sono stati risolti moltissimi problemi concreti.
Prima che io rientrassi in azienda quelli che tenevano i contatti con il sindacato finivano puntualmente sul libro nero e all’inizio era una delle mie paure. “Se se la prende con me sono finito” dicevo, invece poi è cambiato. Secondo me è stato un datore di lavoro che ha capito la storia, aveva capito che era finito il tempo in cui di poteva discutere personalmente con ognuno.

Dopo il primo sciopero spontaneo, mentre si preparavano le elezioni del consiglio di fabbrica, venni avvicinato da un caporeparto che, per conto del padrone, mi chiese se volevo candidarmi. A me non andava di candidarmi in una lista fatta dall’azienda e dissi di no, ma quell’episodio testimonia come l’azienda fosse convinta che ormai l’interlocutore tra gli operai doveva essere collettivo. E questo è il motivo per cui la prima volta non sono stato candidato. Quella lista sponsorizzata dall’azienda venne sostenuta dalla Uilm. Poi, successivamente, è stata fatta l’elezione senza liste ne candidati e sono risultato eletto. In quel momento non avevo nessuna tessera e l’operatore che ci seguiva era della Fiom perché erano quasi tutti loro iscritti.
Alla Pasotti erano presenti solo la Fiom e la Uilm, la Fim non c’era e io sono stato il primo iscritto alla Fim. Poi è nata la Flm. Quando c’è stata la divisione, la Fim ha avuto un problema grossissimo per fare il tesseramento, perché era l’unica organizzazione che si era sciolta. Alla Pasotti invece le cose sono andate molto bene. Al momento del primo tesseramento separato hanno aderito alla Fim novantanove lavoratori, su un totale di centoquattro iscritti al sindacato (quattro Uilm e uno Fiom). A livello di comprensorio siamo usciti con le ossa rotte perché la Fiom aveva conquistato una larga maggioranza.
I risultati alla Pasotti sono stati anche una grande soddisfazione personale, perché la Fiom era praticamente sparita.

Le vicende della Fim di Brescia le conosco solo dall’esterno, non sono stato in alcun modo coinvolto. Quando è stato costituito il comprensorio del Garda ero già delegato e c’era polemica perché i sindacalisti che erano venuti a fare i segretari a Desenzano erano i “fuoriusciti” della Fim di Brescia e da parte di qualcuno c’era un po’ di prevenzione nei loro confronti perché erano stati coinvolti in quelle vicende. Mi ricordo che in una riunione un delegato della Falck ha detto: “questi sono stati dipinti come tanti diavoli, ma stando insieme ci siamo accorti che il diavolo non era così nero come lo hanno dipinto”.
Questo perché, al di là delle vicende bresciane in cui erano stati coinvolti, sul Garda si lavorava bene con queste persone.

Sono un ex Dc, ma non ho mai avuto impegni particolari in politica.
Ho sempre fatto parte dell’Azione cattolica, ho fatto catechismo per tanti anni, ho partecipato all’animazione dell’oratorio. Ho fatto il presidente per tre anni di una cooperativa sociale creata da un gruppo di lavoratori di una casa di riposo, ma era un continuo problema perché dovevo fare il padrone e il sindacalista allo stesso momento e ho deciso di lasciare perdere.
Sono maestro di un coro di montagna. Sono componente di questo coro da trent'anni e da undici anni faccio il maestro. Stiamo facendo un cd per i trent’anni. Andiamo spesso in trasferta a cantare. Ho suonato anche in banda. Sono sempre andato a caccia, ma adesso non ci vado più perché con le restrizioni che ci sono non si può più cacciare. Vado a pescare.

Sono sposato senza figli. La moglie è "figlia dell'ufficio vertenze". Il comprensorio del Garda comprendeva anche cinque comuni del Mantovano e un giorno mi è capitata in ufficio una signorina arrabbiatissima perché aveva scoperto che una sua collega appena assunta prendeva più di lei che lavorava da quasi vent'anni - faceva l'infermiera da un dentista - e allora è venuta da me per farsi controllare la sua posizione. Aveva una busta paga assolutamente irregolare per cui le ho fatto la vertenza, l’ho vinta e me la sono sposata.

Ho fatto parecchi corsi di formazione sindacali, anche residenziali. Era utile perché mi piaceva fare lavoro dell’ufficio vertenze, ma farlo con competenza. Se devo dare una risposta alla gente e non sono in grado di darla mi sento a disagio. I primi giorni all'ufficio vertenze, siccome non c'era stato il tempo di organizzare la mia formazione, ero sempre attaccato al telefono perché non sapevo un tubo. Avevo un po' di materiale da leggere e studiate e un po’ alla volta mi sono formato.
Quando ho fatto la scelta di lasciare la fabbrica per andare a lavorare al sindacato il maestro del coro mi ha detto che lo avevo deluso. Io ci sono rimasto un po’ male, ma gli ho chiesto: “Posso sapere perché? Cosa ho fatto di così grosso per averti deluso in una scelta di questo genere?”. Lui mi ha ridetto: mi hai deluso, senza aggiungere spiegazioni. Trascorso pochissimo tempo, un giorno mi disse che aveva dei problemi sul lavoro e mi ha chiesto che cosa poteva fare. Lavorava nel settore della sanità e gli ho fissato un appuntamento col segretario generale della categoria del comprensorio del Garda. Si è iscritto al sindacato, pian piano si impegnato ed è diventato un attivista. Così un giorno gli ho detto: “Non sei più deluso adesso?”. Anche quella volta non mi ha risposto.

Quando sono uscito dalla fabbrica la cosa era ampiamente prevista, tantissima gente abitava nel paese dove lavoravo e quindi sapevano delle mie scelte. Anche perché il mio impegno nel sindacato è cresciuto gradualmente e quindi non ha avuto un impatto particolare tra le persone che mi conoscevano e tra i miei amici.
Con il parroco avevo un buon rapporto, ma spesso l’ho rimproverato di non affrontare mai il problema del lavoro nelle omelie. Gli ho sempre detto: “la Chiesa non prende posizione a sufficienza su queste questioni”. Lui a volte mi diceva: “hai ragione, ma …”. Il problema era che non voleva urtarsi con gli industriali del paese. Una volta gli ho detto che lo faceva anche perché di solito il datore di lavoro della Pasotti faceva delle elargizioni alla parrocchia che venivano pubblicate sul bollettino e parlare in chiesa contro certe cose magari avrebbe fatto diminuire le offerte. Quando gli ho detto queste cose aveva reagito male. Un’altra volta gli ho riferito una cosa che mi era stata detta da un compagno di lavoro dopo aver visto il nome dell’azienda sul bollettino: “Ecco, vedi, ruba i soldi a me e si compra il paradiso”.
Nonostante queste discussioni, però, non ci sono mai stati grandi scontri in parrocchia. Forse quelli che hanno accettato male la mia scelta in un primo momento sono stati i miei famigliari, specialmente mio papà. Lui era stato vice sindaco a Sabbio e consigliere comunale per diverse legislature, lui avrebbe preferito per me un impegno in politica. E questa mia scelta per il sindacato mi ha portato anche a scontrarmi con lui. Quando aveva deciso di non candidarsi più, a quelli che sono venuti a chiedergli se si ricandidava, lui ha detto di candidare me, dando per scontato che io avrei accettato. Quando l’ho saputo gli ho detto: “se vuoi candidati tu, ma non puoi decidere per me”, e non mi sono candidato. Ma da quando è successo questo fatto, non ho più avuto contrasti e mi ha lasciato libero nelle mie scelte. Mia madre era contenta del mio impegno, ma aveva un po’ paura perché pensava che ci fossero dei rischi.