Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Gli anni caldi dei metalmeccanici bresciani”, di Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma 2005
Sono nato il
9.3.40 a Sabbio Chiese e vivo ancora lì. Ho fatto le elementari e poi sono
andato a lavorare. Il diploma di scuola media l’ho avuto con le 150 ore. Ho
cominciato a lavorare a tredici anni, nel '53. Ho lavorato in nero in una ditta
piccolissima, dove sono stato qualche mese, poi ho cambiato e sono andato in
un’altra piccola officina. Sono stato fortunato perché era un’azienda nuova, la
F.lli Ghidini, che aveva appena iniziato la propria attività da tre giorni, si
era trasferita da Lumezzane a Sabbio e i primi cinque o sei operai che sono
entrati li hanno assicurati. Così sono riuscito ad andare in pensione a
cinquantuno anni con trentasette di contribuzione.
Era un’azienda
metalmeccanica, come la precedente. Si producevano maniglie per mobili e io facevo
il pulitore. Mentre la produzione iniziale era di tipo industriale, pian piano
ci si è orientati sulla produzione artistica. Nel momento di maggiore
espansione eravamo più di quaranta dipendenti. Oggi ci lavorano quattro o
cinque persone. Io sono rimasto fino a gennaio '64, poi mi sono trasferito alla
Pasotti e sono rimasto in quella fabbrica fino a quando sono andato in
pensione, anche se ero in distacco sindacale, continuando sempre a fare il
pulitore.
Anche la Pasotti
ha avuto un’evoluzione. Un tempo era una maniglieria, poi si è spostata sugli
accessori per elettrodomestici e ora lo stabilimento di Sabbio continua con
questa produzione, mentre un altro stabilimento a Sopravalle costruisce
caloriferi. A Sabbio c’erano circa centosettanta dipendenti, anche se quando
sono entrato eravamo un po’ meno. Adesso sono oltre duecento.
Il sindacato
l’ho scoperto per caso. Alla F.lli
Ghidini sono stato sospeso tre giorni per aver chiesto quanto mi era dovuto. Li
c’era l’abitudine che a Natale si veniva chiamati uno alla volta in ufficio per
contrattare la tredicesima. Mi ricordo che erano duecento ore e prendevo
centosessanta lire all’ora e avrei dovuto prendere 32mila lire. Me ne hanno
offerto 12mila e mi hanno chiesto se ero contento. Io davo del tu al padrone e
gli ho risposto: “Se me ne davi di più, sarei stato più contento”. E per questo
mi ha sospeso per tre giorni. La mia rabbia e la mia motivazione sindacale è
nata lì. Ho litigato con mio padre per questo. Ero un ragazzino e non volevo
più tornare a lavorare e mio padre mi ha detto che dovevo avere pazienza,
perché anche negli altri posti la situazione non era molto diversa. Mentre ero
a casa in sospensione, mi sono ammalato e così il quarto giorno non mi sono
presentato a lavorare. Il padrone mi ha mandato a chiamare da un operaio che
abitava vicino a noi dicendo che voleva parlarmi. Ho aspettato ancora un paio
di giorni perché avevo la febbre e poi sono andato da lui. Mi ha dato ancora un
po’ di soldi di tredicesima e mi ha offerto un aumento di paga oraria. A quel
punto ho capito che forse valeva la pena non stare zitti. La ragione del mio
impegno futuro è nata lì, anche se non mi ero rivolto al sindacato.
Solo un paio
d’anni dopo ho avuto contatti con il sindacato, che a quell’epoca aveva sede
solo a Brescia e fin lassù non veniva quasi mai nessuno, anche perché non
c’erano iscritti. La ragione è stata ancora una volta la tredicesima. Come al
solito, anche quell’anno avevamo tutti contrattato la tredicesima, ma eravamo
arrivati più o meno alla metà di quello che ci spettava. Qualche mese dopo
all’oratorio c’era stata una riunione dei lavoratori della Pasotti – che è
accanto alla F.lli Ghidini - con un operatore sindacale, non so se fosse della
Cisl o della Cgil, e tra i problemi di cui avevano discusso c’era anche quello
della tredicesima. Parlando tra operai lo abbiamo saputo e allora lo abbiamo
contattato. Abbiamo fatto un paio di incontri, è venuto anche a casa mia e ho
rischiato un po’ perché i contatti li ho tenuti io e il padrone era venuto a
saperlo. Il sindacalista è andato a parlare con il titolare e a maggio ci ha
fatto prendere quello che non avevamo preso a Natale. A quel punto ero finito
sul libro nero e quando c’era qualche problema il padrone se la prendeva con
me.
Ma anche dopo
questa vicenda per parecchi anni non ho più visto il sindacato. Nessuno si è
iscritto, anche perché era rischioso farlo, e lui non ci ha sollecitati a
iscriverci. Sono stato in quella fabbrica per nove anni. E quando sono andato
alla Pasotti anche lì il sindacato non c’era.
Dopo
l’esperienza degli anni addietro avevano interrotto ogni contatto, ma nel ’69
l’idea delle lotte dei lavoratori e l’idea di organizzarsi sindacalmente erano
nell’aria ed è nato uno sciopero spontaneo per il contratto. Avevamo sentito
dai giornali e in televisione che era stato organizzato uno sciopero nazionale
e in reparto avevamo parlato di questo. Nessuno però aveva proposto di aderire,
ma il momento era favorevole e un fatto del tutto casuale scatenò la scintilla
che diede il via allo sciopero. C’era un lavoratore tra noi, il Giovannino, che
abitava in una frazione vicina e arrivava sempre molto presto. Per lui essere
lì venti minuti prima dell’inizio del lavoro era già tardi. Allora si fermava
sul cancello e scambiava qualche parola con tutti quelli che arrivavano. A
quell’epoca tutti gli scarti e lo sporco che si producevano lavorando si
buttavano nel fiume Chiese che passa li di fronte e da qualche giorno era
comparso un cagnolino che andava a frugare tra quei rifiuti. Il giorno dello sciopero
il lavoratore mattiniero era arriva come sempre con largo anticipo e, siccome
non c’era ancora nessuno, si era fermato a osservare il cagnolino sul lato
opposto all’ingresso della fabbrica. Nel frattempo era sopraggiunto un secondo
operaio il quale, vedendo il Giovannino che era là si spostò anche lui in riva
al fiume. E fu così anche per un altro gruppetto di lavoratori. Ad un certo
punto, un nuovo arrivato, vedendoli sull'altro lato della strada, disse ad alta
voce: “ma fanno sciopero quelli là?”. Fu
come un segnale, la voce si diffuse e nessuno è entrato ed è nato il primo
sciopero alla Pasotti.
Il padrone, al
suo arrivo, vedendo gli operai fuori dalla fabbrica ha chiesto che cosa stava
succedendo, ma ormai era troppo tardi e lo sciopero era riuscito. Nessuno è
entrato e dopo poco tempo è comparso davanti alla fabbrica un sindacalista. Si
sono fatte le prime tessere, poi ci sono state le elezioni dei delegati ed è
nato il sindacato alla Pasotti.
Io ho
partecipato allo sciopero, mi sono iscritto al sindacato, ma senza alcun
impegno particolare. Quando nel 1970 abbiamo votato una seconda volta non
c’erano candidati e mi sono trovato eletto. Confesso che se mi avessero detto o
fai il delegato o paghi, io avrei preferito pagare, anche perché ero abbastanza
imbranato, timido. Ma l’operatore mi ha incoraggiato e così ho iniziato e da
allora non più smesso fino all’83, quando sono uscito in distacco la prima
volta.
A quell’epoca
c’era la Flm, era stato costituito il comprensorio del Garda con sede a Desenzano
e lì avevano fatto un accordo secondo il quale per quattro mesi usciva un
delegato Fiom a gestire l’ufficio vertenze, per tre mesi uno della Fim e per
due mesi uno della Uilm. Prima mi hanno chiesto se volevo uscire a fare
l’operatore, ma avevo detto di no. Allora mi hanno proposto l’ufficio vertenze
della Flm e io, che ho sempre avuto il pallino dei conti e delle buste, ho
accettato. Mi avevano detto che prima avrei partecipato ad un corso di
formazione a Brescia, invece un giorno mi hanno telefonato in fabbrica e mi
hanno detto che dal lunedì successivo avrei dovuto iniziare e i tempi per il
corso non c’erano. Così ho fatto i miei tre mesi e poi sono rientrato. Ma dopo
quindici giorni il delegato della Uilm, che era un meridionale e siccome
eravamo sotto Natale tornava a casa per le feste, mi ha chiesto se lo
sostituivo e sono uscito per altri venti giorni e poi sono rientrato in
fabbrica, ma solo per qualche mese. Infatti, l’accordo tra Fim, Fiom e Uilm non
ha funzionato e la Fim mi ha chiesto se ero disponibile per un paio di giorni
alla settimana, e così è stato. Utilizzavo le ore del consiglio di fabbrica per
fare l’ufficio vertenze dell’organizzazione e non più quello unitario Sono
andato avanti per alcuni anni, i giorni sono diventati tre. Nell’87 si è
liberato il posto nell’ufficio vertenze della Cisl del comprensorio del Garda e
sono andato lì dove sono rimasto lì fino a quando sono andato in pensione, a
fine 91.
Ho continuato a
collaborare con la Cisl e attualmente faccio quattro recapiti quindicinali per
l‘ufficio vertenze in zona: Salò, Gavardo, Vestone, Vobarno per due pomeriggi
alla settimana.
La Pasotti ha
avuto dei periodi di casa integrazione, ma solo in alcuni reparti.
Personalmente non ho fatto più di tre settimane in tutto. La cig è stata
chiesta generalmente per difficoltà di mercato, L’azienda per un certo periodo
non aveva aggiornato i propri impianti e ha rischiato. Il problema, però, è
stato risolto in modo indolore, non ci sono stati licenziamenti. C’è stato
qualche prepensionamento. Questo è avvenuto una prima volta nell’82, ‘83 mentre
un secondo periodo di crisi l’abbiamo vissuto a cavallo tra il 1987 e il 1988.
Fu necessario ricorrere ai prepensionamenti per ben due volte. Ci furono dei
momenti di tensione perché proprio l’ultimo giorno dell’anno, quando i
lavoratori si preparavano a lasciare la fabbrica, era arrivata la notizia che
il presidente della repubblica Francesco Cossiga non aveva firmato la legge e
si era diffusa molta preoccupazione. Allora il segretario generale della Fim di
Desenzano mi ha spiegato la situazione e sono tornato in azienda – dalla quale
in quel momento ero in distacco – per riferire ai lavoratori come stavano le
cose e far capire che non c’erano problemi. Infatti poterono uscire lo stesso
perché c’erano due possibilità: una per l’alluminio e l’altra per le crisi
aziendali e utilizzando uno o l’altro provvedimento si poteva comunque lasciare
il lavoro. Tutte queste vicende vennero affrontate senza che fosse necessario
ricorrere a scioperi.
Il titolare della
Pasotti non tollerava vedere gli operai fuori dal cancello e quando c’era
sciopero diceva: andate a casa vostra,
ma non fatevi vedere fermi sul cancello. Allora, a volte, bastava minacciare lo
sciopero per raggiungere l’intesa.
Una volta c’era
un tale fumo in fonderia che non si poteva respirare, non ci si vedeva, ma i
lavoratori erano indecisi sul da farsi. Noi li abbiamo sollecitati ad uscire
dal reparto per cercare di risolvere il problema e questi si sono raccolti nel
cortile interno. Fu uno dei pochi casi di sciopero per motivi aziendali, perché
altrimenti si facevano solo gli scioperi per il contratto nazionale o generali.
Non era una
fabbrica particolarmente nociva, ma problemi di difesa della salute ce n’erano.
C’era la fonderia con i fumi, la cromatura dove c’era il problema degli acidi e
c’era il reparto pulitori con la questione delle polveri.
Il datore di
lavoro sembrava un orso, ma era una persona che ragionava abbastanza. Si doveva
incalzarlo continuamente e in questo modo si riusciva ad ottenere ciò che si
chiedeva, senza bisogno di arrivare agli scioperi. Siamo riusciti ad ottenere
diverse modifiche nei reparti. In ogni accordo aziendale c’era sempre il
capitolo ambiente, anche se erano linee di principio che non entravano nelle
questioni di sostanza. La sostanza normalmente veniva discussa a parte.
Il datore di
lavoro abitava fuori dall’azienda. Al mattino, quando arrivava, veniva sempre a
parlare con i delegati e noi facevamo presente i problemi che c’erano, magari
si doveva parlarne più volte, qualche volta si minacciava di andare in strada.
In questo modo sono stati risolti moltissimi problemi concreti.
Prima che io
rientrassi in azienda quelli che tenevano i contatti con il sindacato finivano
puntualmente sul libro nero e all’inizio era una delle mie paure. “Se se la
prende con me sono finito” dicevo, invece poi è cambiato. Secondo me è stato un
datore di lavoro che ha capito la storia, aveva capito che era finito il tempo
in cui di poteva discutere personalmente con ognuno.
Dopo il primo
sciopero spontaneo, mentre si preparavano le elezioni del consiglio di
fabbrica, venni avvicinato da un caporeparto che, per conto del padrone, mi
chiese se volevo candidarmi. A me non andava di candidarmi in una lista fatta
dall’azienda e dissi di no, ma quell’episodio testimonia come l’azienda fosse
convinta che ormai l’interlocutore tra gli operai doveva essere collettivo. E
questo è il motivo per cui la prima volta non sono stato candidato. Quella
lista sponsorizzata dall’azienda venne sostenuta dalla Uilm. Poi,
successivamente, è stata fatta l’elezione senza liste ne candidati e sono
risultato eletto. In quel momento non avevo nessuna tessera e l’operatore che
ci seguiva era della Fiom perché erano quasi tutti loro iscritti.
Alla Pasotti
erano presenti solo la Fiom e la Uilm, la Fim non c’era e io sono stato il
primo iscritto alla Fim. Poi è nata la Flm. Quando c’è stata la divisione, la
Fim ha avuto un problema grossissimo per fare il tesseramento, perché era
l’unica organizzazione che si era sciolta. Alla Pasotti invece le cose sono
andate molto bene. Al momento del primo tesseramento separato hanno aderito
alla Fim novantanove lavoratori, su un totale di centoquattro iscritti al
sindacato (quattro Uilm e uno Fiom). A livello di comprensorio siamo usciti con
le ossa rotte perché la Fiom aveva conquistato una larga maggioranza.
I risultati alla
Pasotti sono stati anche una grande soddisfazione personale, perché la Fiom era
praticamente sparita.
Le vicende della
Fim di Brescia le conosco solo dall’esterno, non sono stato in alcun modo
coinvolto. Quando è stato costituito il comprensorio del Garda ero già delegato
e c’era polemica perché i sindacalisti che erano venuti a fare i segretari a
Desenzano erano i “fuoriusciti” della Fim di Brescia e da parte di qualcuno
c’era un po’ di prevenzione nei loro confronti perché erano stati coinvolti in
quelle vicende. Mi ricordo che in una riunione un delegato della Falck ha
detto: “questi sono stati dipinti come tanti diavoli, ma stando insieme ci
siamo accorti che il diavolo non era così nero come lo hanno dipinto”.
Questo perché,
al di là delle vicende bresciane in cui erano stati coinvolti, sul Garda si
lavorava bene con queste persone.
Sono un ex Dc,
ma non ho mai avuto impegni particolari in politica.
Ho sempre fatto
parte dell’Azione cattolica, ho fatto catechismo per tanti anni, ho partecipato
all’animazione dell’oratorio. Ho fatto il presidente per tre anni di una
cooperativa sociale creata da un gruppo di lavoratori di una casa di riposo, ma
era un continuo problema perché dovevo fare il padrone e il sindacalista allo
stesso momento e ho deciso di lasciare perdere.
Sono maestro di
un coro di montagna. Sono componente di questo coro da trent'anni e da undici
anni faccio il maestro. Stiamo facendo un cd per i trent’anni. Andiamo spesso
in trasferta a cantare. Ho suonato anche in banda. Sono sempre andato a caccia,
ma adesso non ci vado più perché con le restrizioni che ci sono non si può più
cacciare. Vado a pescare.
Sono sposato
senza figli. La moglie è "figlia dell'ufficio vertenze". Il
comprensorio del Garda comprendeva anche cinque comuni del Mantovano e un
giorno mi è capitata in ufficio una signorina arrabbiatissima perché aveva
scoperto che una sua collega appena assunta prendeva più di lei che lavorava da
quasi vent'anni - faceva l'infermiera da un dentista - e allora è venuta da me
per farsi controllare la sua posizione. Aveva una busta paga assolutamente
irregolare per cui le ho fatto la vertenza, l’ho vinta e me la sono sposata.
Ho fatto parecchi
corsi di formazione sindacali, anche residenziali. Era utile perché mi piaceva
fare lavoro dell’ufficio vertenze, ma farlo con competenza. Se devo dare una
risposta alla gente e non sono in grado di darla mi sento a disagio. I primi
giorni all'ufficio vertenze, siccome non c'era stato il tempo di organizzare la
mia formazione, ero sempre attaccato al telefono perché non sapevo un tubo.
Avevo un po' di materiale da leggere e studiate e un po’ alla volta mi sono
formato.
Quando ho fatto
la scelta di lasciare la fabbrica per andare a lavorare al sindacato il maestro
del coro mi ha detto che lo avevo deluso. Io ci sono rimasto un po’ male, ma
gli ho chiesto: “Posso sapere perché? Cosa ho fatto di così grosso per averti
deluso in una scelta di questo genere?”. Lui mi ha ridetto: mi hai deluso,
senza aggiungere spiegazioni. Trascorso pochissimo tempo, un giorno mi disse
che aveva dei problemi sul lavoro e mi ha chiesto che cosa poteva fare.
Lavorava nel settore della sanità e gli ho fissato un appuntamento col segretario
generale della categoria del comprensorio del Garda. Si è iscritto al
sindacato, pian piano si impegnato ed è diventato un attivista. Così un giorno
gli ho detto: “Non sei più deluso adesso?”. Anche quella volta non mi ha
risposto.
Quando sono uscito
dalla fabbrica la cosa era ampiamente prevista, tantissima gente abitava nel
paese dove lavoravo e quindi sapevano delle mie scelte. Anche perché il mio
impegno nel sindacato è cresciuto gradualmente e quindi non ha avuto un impatto
particolare tra le persone che mi conoscevano e tra i miei amici.
Con il parroco
avevo un buon rapporto, ma spesso l’ho rimproverato di non affrontare mai il
problema del lavoro nelle omelie. Gli ho sempre detto: “la Chiesa non prende
posizione a sufficienza su queste questioni”. Lui a volte mi diceva: “hai
ragione, ma …”. Il problema era che non voleva urtarsi con gli industriali del
paese. Una volta gli ho detto che lo faceva anche perché di solito il datore di
lavoro della Pasotti faceva delle elargizioni alla parrocchia che venivano
pubblicate sul bollettino e parlare in chiesa contro certe cose magari avrebbe
fatto diminuire le offerte. Quando gli ho detto queste cose aveva reagito male.
Un’altra volta gli ho riferito una cosa che mi era stata detta da un compagno
di lavoro dopo aver visto il nome dell’azienda sul bollettino: “Ecco, vedi,
ruba i soldi a me e si compra il paradiso”.
Nonostante
queste discussioni, però, non ci sono mai stati grandi scontri in parrocchia.
Forse quelli che hanno accettato male la mia scelta in un primo momento sono
stati i miei famigliari, specialmente mio papà. Lui era stato vice sindaco a
Sabbio e consigliere comunale per diverse legislature, lui avrebbe preferito
per me un impegno in politica. E questa mia scelta per il sindacato mi ha portato
anche a scontrarmi con lui. Quando aveva deciso di non candidarsi più, a quelli
che sono venuti a chiedergli se si ricandidava, lui ha detto di candidare me,
dando per scontato che io avrei accettato. Quando l’ho saputo gli ho detto: “se
vuoi candidati tu, ma non puoi decidere per me”, e non mi sono candidato. Ma da
quando è successo questo fatto, non ho più avuto contrasti e mi ha lasciato
libero nelle mie scelte. Mia madre era contenta del mio impegno, ma aveva un
po’ paura perché pensava che ci fossero dei rischi.