Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Autonomia e contratti. Storie di sindacalisti della Cisl in Lombardia”, a cura di Guido Baglioni e Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma, 2006
Era il 30 dicembre 1936, avevo dieci anni ma lo ricordo come fosse ora: il padrone del podere che lavoravamo come mezzadri disse a mio padre che gli avrebbe dato la disdetta se avesse insisto nell’idea di mandare a scuola i figli. Considerava lo studio inutile per coltivare la terra, oltre che una via per allontanare i giovani dai campi.
Il “padrone”, che strana parola. In quegli anni da lui dipendeva tutto: la possibilità di mangiare, di lavorare, di avere un tetto sulla testa e anche far studiare i propri figli.
Il padrone era Corrado Carapelli proprio quello dell’olio. Il podere, di sei ettari, si chiamava Oliveto ed era a Montevarchi, nel Valdarno. Ricordo che mio padre, senza pensarci un attimo, rispose a Carapelli che i suoi figli Carlo e Roberto avrebbero studiato anche a dispetto del padrone. “Se devo proprio schiantare, mangio un rospo”, disse. Questa espressione mi è rimasta impressa nella mente e mi ha accompagnato negli anni.
La minaccia della disdetta, l’arroganza del padrone del fondo ma soprattutto il coraggio dimostrato da mio padre mi colpirono profondamente e mi hanno forse spinto nella scelta ad impegnarmi nel sindacato. Altri furono gli episodi significativi della mia infanzia: il primo riguarda la decisione presa da mio padre di ospitare nella propria famiglia due ragazzi, appena più grandi di me, rimasti orfani del padre e poi di uno zio che si erano suicidati a causa della disdetta ricevuta dal proprietario del fondo da loro coltivato. Il secondo più che un fatto è un ricordo di ciò che mio padre ci narrava in merito al suo impegno nella lotta delle leghe contadine negli anni precedenti al fascismo: partecipò a mettere il lenzuolo bianco sul pagliaio in segno di battaglia. Non tralasciava occasione per dirci: “Alla libertà bisogna innanzitutto crederci e sapere che bisogna combattere sempre per averla”.
In famiglia si raccontava che c’erano due diversi modi di reagire alla disdetta del padrone: la disperazione o la reazione con la minaccia del “pozzo”. La disperazione, in alcuni casi portava fino al suicidio; il pozzo era, al contrario, l’ultima arma possibile per convincere il padrone a ritirare la disdetta.
Ripensando a tutto questo, mi rendo conto che il mio impegno sindacale ha radici profonde: è stato in qualche modo una ricerca continua del dialogo, prima tra padroni e mezzadri, poi fra datori di lavoro e lavoratori.
La storia e la vita di tutti allora si inseriva in un momento grandioso: dopo la guerra era forte il desiderio di ricostruire e soprattutto di realizzare una società migliore di quella che la guerra aveva distrutto.
A fianco dei mezzadri
E’ difficile immaginare oggi quanto fosse forte questo desiderio e la volontà di battersi. Vi furono coloro che scelsero la militanza attiva nei partiti appena ricostituiti e chi come il sottoscritto e mio fratello decidemmo per il sindacato. Riprendemmo a studiare nel ’46 dopo la guerra, come privatisti. Intanto ci impegnavamo ad aiutare i mezzadri della zona a leggere i “libretti colonici” e individuare le irregolarità su cui aprire vertenze con i loro concedenti.
In questo periodo un grande aiuto me lo diede un giovane sacerdote, Don Guido Beccatini, sia sul piano dello studio sia nel leggere più chiaramente il nuovo contesto storico, sia esortandomi a organizzare nella zona il movimento delle Acli Terra. Se ripenso a quegli anni mi rendo conto che il desiderio di impegnarmi per la giustizia e per difendere i diritti dei lavoratori forse l’ho sentito da sempre, o forse fa parte del mio Dna. Una cosa è certa: a 20 avevo già chiaro che cosa avrei fatto da grande. Forse fu merito di mio padre, merito di Don Beccatini, merito della mia fidanzata, oggi mia moglie, anche lei impegnata come collettrice in fabbrica per la corrente cristiana della Cgil. Merito infine, al grande valore che imparai ad attribuire alla libertà, alla giustizia, alla democrazia, nel corso della lotta partigiana, alla quale anche io partecipai svolgendo un lavoro di collegamento tra quanti erano rifugiati sui monti del Valdarno e il paese, portando loro viveri, medicinali e ciò che era necessario loro per la sopravvivenza.
Alla fine del ‘47 andai a prestare servizio militare. Al ritorno a casa circa 12 mesi dopo, era già avvenuta la scissione e la costituzione della Lcgil. Ritornato dal militare mi riaccostai al vecchio impegno, ripresi i miei contatti e proseguii il mio lavoro nelle campagne, affiancando il delegato sindacale di zona ad andare dai contadini per aiutarli nella lettura dei libretti colonici. Fino alla guerra c’era stato un clima di terrore: se qualcuno si azzardava da andare dai sindacati fascisti a far leggere i libretti rischiava la lettera di licenziamento. Dopo, tutti si svegliarono e cominciarono a rivolgersi ai partiti, in particolare a quello comunista che però era visto soprattutto come uno strumento per conquistare le terre, liberarsi dai padroni. La maggioranza, quindi, si rivolgeva ai sindacati.
Nel 1950 partecipai attivamente alla nascita della Cisl montevarchina. Ricordo che ci riunimmo in assemblea al “Moderno” di Montevarchi per segnare la nascita di questo nuovo sindacato e, come noi, fecero tantissimi iscritti in tutta Italia.
Il punto di svolta del mio impegno sindacale avvenne poco dopo, quando su proposta della Cisl montevarchina fui ammesso a partecipare al secondo corso annuale della Cisl che sui tenne a Firenze in Via Gustavo Modena.
La scuola di Firenze fu un periodo eccezionale. Si studiava con una coperta addosso, non c’era ancora il moderno Centro studi di Fiesole. Gli insegnamenti di intellettuali come Mario Romani, Benedetto De Cesari ed altri, mi fecero comprendere non solo l’importanza e le novità che la Cisl introduceva nell’esperienza politica e sindacale italiana, ma anche che per affermare un nuovo modo di intendere e svolgere l’attività sindacale non si poteva essere autodidatti. La sola buona volontà non era sufficiente, occorrevano nuovi sindacalisti più preparati, più motivati e quindi più formati. Studiare voleva dire assicurarsi il successo di questa organizzazione.
L’esperienza di Perugia
Finita la scuola fui assegnato alla Cisl di Perugia, mio fratello a Siena. Due province agricole, con una rilevante presenza di contratti mezzadrili, che furono assegnate proprio ai fratelli Romei. La nuova organizzazione iniziava a farsi conoscere e forse nel modo più difficile, affrontando una realtà sociale complessa e molto arretrata che si portava dietro ancora aspetti medioevali, da servitù della gleba per intenderci. E chi meglio di due persone che avevano vissuto questa esperienza in prima persona potevano avere voce in capitolo?
Raggiunsi Perugia nel ’53, come dirigente, dopo aver allargato un bel po’ i miei orizzonti anche con stages negli Usa e in Svezia.
Gli anni in Umbria furono fondamentali per consolidare le mie convinzioni sul valore dell’autonomia sindacale e sulla potenzialità della realtà sindacale appena nata. E’ a Perugia che ho sperimentato la possibilità di estendere al tutela del lavoro oltre i confini della fabbrica e del podere.
Il primo problema che mi si pose fu trovare i quadri e formarli. Dovevo cambiare, perché con i quadri che venivano dalle vecchie esperienze e forse anche dalle ex corporazioni fasciste non era possibile introdurre un nuovo modo di intendere e di fare sindacato. Quindi dovetti compiere un grande sforzo di individuazione e formazione. Mi fu d’aiuto in questo un gruppo di intellettuali che volevano il cambiamento e videro nella Cisl qualcosa di nuovo. Creammo una bellissima rivista che oggi la Regione Umbria ha ristampato: “Presenza”. Rappresentò una voce nuova nel dibattito politico-sociale, tanto innovativa da incontrare alcune resistenze da parte del mondo cattolico: la Curia diffidò i cattolici dallo scrivere sulla rivista, che nonostante questo continuò a uscire, ad avere tanti collaboratori (anche cattolici) e ad aumentare tirature e vendite.
Il mio impegno puntò prima di tutto a radicare la Cisl nel territorio con la costituzione delle leghe contadine. Tanta fu l’adesione che si dette vita a due grandi manifestazioni, allestimmo una mostra cartellonistica sulle condizioni della gente nelle campagne e distribuimmo una serie di opuscoli. Vincemmo importanti vertenze come il riconoscimento ai contadini del plusvalore connesso al conferimento del bestiame. Altrettanto importante fu l’apertura di scuole serali per insegnare ai contadini a leggere e scrivere. Intellettuali milanesi, come la figlia del sindaco e altri, si dedicarono con noi alla lotta all’analfabetismo.
L’Umbria comunque non era solo contadina. C’erano importanti aziende come la Perugina, la Spagnoli, dove i lavoratori volevano contare di più. E non essere solo considerati meri strumenti di produzione. Da qui la necessità di conquistare il diritto alla contrattazione nei luoghi di lavoro, su tutti gli aspetti del rapporto di lavoro: organizzazione, qualifiche, formazione, inquadramenti. Purtroppo dovevamo cercare di collaborare con una Cgil che non riusciva a fare un passo in avanti verso l’idea di un sindacato libero, vedeva nella contrattazione articolata un pericolo per i contratti collettivi nazionali di lavoro e peggio ancora una fonte di diversità di trattamento tra il proletariato. La Camera del lavoro di Perugia arrivò al punto di proporre alla Confindustria locale un accordo che vietasse la trattativa aziendale!
A Milano
Il 5 gennaio del 1962, proprio il giorno in cui nacque il mio secondo figlio (la prima, Elisabetta, era nata 7 anni prima), mi arrivò un telegramma nel quale si diceva che il Consiglio generale della Cisl di Milano mi aveva cooptato nelle sue fila ed eletto alla carica di componente della segreteria per i problemi sindacali, in sostituzione di Vittorio Meraviglia che era diventato segretario nazionale dei tessili.
La notizia non fu un “fulmine a ciel sereno” perché qualcosa avevo intuito da una visita che nell’estate del 1961 mi fece visita segretario generale della Cisl milanese, Piervirgilio Ortolani, accompagnato da Sandro Pastore. Mi chiesero della mia attività a Perugia, si mostrarono molto interessati ai risultati ottenuti e poi mi dissero a bruciapelo: “Saresti disponibile a trasferiti in un’altra realtà?”. A Milano, mi lasciarono intuire, si sarebbero aperte delle opportunità in un futuro molto prossimo.
Tuttavia, posto di fronte più che ad una proposta ad una decisione già adottata, mi posi una serie di interrogativi. Intanto lasciavo una struttura ormai ben organizzata e che tante soddisfazioni mi aveva dato per trasferirmi in una realtà economica e sociale profondamente diversa. Inoltre avrei smesso di essere il segretario generale in una realtà come Perugia per andare a fare il quinto in una segreteria con gente con la quale non avevo mai lavorato. Ma dir di no, era difficile se non impossibile. Milano era una sfida che non potevo rifiutare. Era la grande città industrializzata, moderna, iperattiva, sindacalizzata, avanti anni luce rispetto ad altre realtà sindacali.
Milano era una struttura pilota, all’avanguardia: era già stata realizzata la verticalizzazione delle strutture e introdotta nello Statuto l’incompatibilità tra incarico sindacale e cariche politiche. Inoltre mi allettava il fatto che a Milano avesse operato per lunghi anni un uomo come Ettore Calvi, verso il quale nutrivo una profonda ammirazione. Per di più a Milano il sindacato aveva dato spazio ai giovani, come me provenienti dalla scuola di Firenze: Carniti, Colombo, Ballini, Antoniazzi e molti altri. Milano insomma era per me un traguardo molto importante per arricchire la mia esperienza in una realtà come quella milanese. “Chi non risica non rosica – mi dissi -. E’ arrivata l’ora di buttarmi”. E mi buttai.
Decisi di trasferirmi prima da solo e poi, chiuso l’anno scolastico, fui raggiunto da mia moglie e dai miei figli.
La realtà milanese era molto diversa da quella umbra e imparai a conoscerla, a partire dalla toponomastica. All’inizio mi portavano in giro in macchina, non sapevo orientarmi, ma feci presto a imparare.
Milano era una realtà industriale ricca di fermenti e di stimoli. Gli anni milanesi che vanno dal 1962 al 1973 poi furono importantissimi. La storia ce li ha consegnati come gli anni madre dei cambiamenti più significativi per l’intero paese. Anni di lotte, di contestazioni, di grandi manifestazioni di piazza, di grandi slogan e purtroppo di atti terroristici come quelli di Piazza Fontana.
Piazza Fontana
Ricordo che la mattina del 12 dicembre ’69 eravamo riuniti nel mio ufficio tutti e tre i segretari generali: Polotti della Uil, Bonaccini della Cgil e io. Si parlava di organizzare una manifestazione per l’antivigilia di Natale a sostegno del rinnovo dei contratti in scadenza. Doveva essere una manifestazione di pacificazione degli animi, una festa. Venivano fuori le proposte più astruse: uno, per dare visibilità e memorabilità all’evento, voleva portare sul palco i giocatori del Milan e dell’Inter. Un altro voleva la benedizione e la solidarietà dell’Arcivescovo. Altri volevano riempire i cieli di Milano di palloncini colorati. Io non riuscii a trattenere una battuta: perché allora non vestirsi da Babbo Natale, con tanto di contratto-regalo nella sacca. A un certo punto suonò il telefono. Era Pietro Roncato, addetto stampa della Cisl di Milano. <<E’ scoppiata una caldaia alla Banca dell’Agricoltura, ci sono un sacco di morti>>, mi disse. Tempo due minuti e mi richiamò: <<Ma che caldaia, è una bomba!>>. La notizia ci portò brutalmente alla realtà. Ad una realtà tremenda e sconosciuta.
Dopo un primo momento di disorientamento, scartammo l’ipotesi dello sciopero di protesta e decidemmo di chiamare i lavoratori a manifestare la loro solidarietà nel giorno dei funerali. Quella mattina del 17 dicembre gli operai, tutti uniti, uscirono dalle fabbriche con le tute ancora indosso, la città intera si fermò per tutta la mattinata.
Il clima di tensione, di rabbia per una violenza cieca e senza spiegazione si respirava, si toccava con mano. Piazza Duomo era stracolma. C’erano quelli della Pirelli in tuta, della Siemens, dell’Alfa Romeo, con facce serie, tese. Era evidente che quel loro comportamento manifestava un senso di dispiacere ma anche di forte monito contro queste forme di violenza. Era una mattina piena si smog, erano le undici ma sembrava notte tanto non si vedeva nulla. Un silenzio irreale e si contavano i morti dal rumore delle bare che venivano chiuse.
La sera la radio disse che questi fatti erano la conseguenza di troppi scioperi, ma noi non smettemmo mai di ripetere che uno degli obiettivi del terrorismo fu anche quello bloccare e danneggiare l’attività sindacale.
Qualcuno disse che il clima di contrasti sociali era il terreno più fertile sul quale far prosperare i comportamenti violenti. I lavoratori che parteciparono ai funerali furono la migliore risposta a quelle affermazioni: dissero no alla violenza, scelsero chiaramente da che parte stare.
Piazza Fontana per noi fu il punto culminante della cosiddetta strategia della violenza. Un mese prima c’erano stati gli scontri al teatro Lirico, nei quali perse la vita l’agente Annaruma. In quell’occasione avevamo fatto presente al Questore che avremmo garantito l’ordine con le mostre sole forze. Era una manifestazione degli attivisti del problema della casa e, più in generale, sui problemi della città. Al Lirico parlarono Bruno Storti per la Cisl, Agostino Novella per la Cgil e Italo Viglianesi per al Uil. Dopo la manifestazione gli attivisti uscirono dal teatro con il massimo ordine e tranquillità, poi sopraggiunse un corteo di marxisti-leninisti, seguito dalla polizia.
Gli estremisti si mischiarono ai lavoratori e al grido di: <<Ps uguale Ss>> furono lanciate monetine e altri oggetti. A quel punto la polizia decise di caricare e le camionette cominciarono il loro carosello; una camionetta urtò, senza conseguenze, un lavoratore e questa fu la scintilla dello scontro durante il quale, purtroppo, perse la vita l’agente Annarumma. Io e Sandro Pastore andammo ai funerali per rappresentare la solidarietà di tutti i lavoratori ma fummo garbatamente invitati dal commissario di polizia ad allontanarci per evitare possibili incidenti, vista la nutrita partecipazione di camicie nere con tanto di saluto romano e gagliardetto che cercarono di trasformarlo in un loro eroe. Assieme alla nostra doverosa presenza ai funerali, facemmo sentire la nostra solidarietà anche tramite una lettera scritta al padre dell’agente, sottolineando che i poliziotti sono dei lavoratori al pari di tutti gli altri, arrivati da sud alla ricerca di un’adeguata sistemazione.
La morte dell’agente Annarumma era per tutti la morte di un uomo e di un lavoratore. E poiché gli incidenti erano frequenti e ogni tanto qualche pallottola partiva, io non smisi mai di sostenere la necessità del disarmo della polizia nel corso delle manifestazioni sindacali. Il clima era troppo esasperato, al punto che un operatore della Cisl, proprio ai funerali di Annarumma, venne accusato senza alcun fondato motivo di aver lanciato sputi e quindi preso di mira e portato via da militanti di destra. Lo ritrovai solo verso sera, spaurito e confuso.
In quelle occasioni capii l’importanza che il sindacato riuscisse a interpretare quella grande inquietudine e spinta al cambiamento che veniva dalla società dimostrando di non agire a seconda che ci fosse un padrone o un governo amico o nemico, ma sulla base delle cose, dei problemi. E con proposte tangibili, con senso di responsabilità e solidarietà attiva. La mia fortuna fu che molti colleghi, quasi tutti, la pensavano così.
Fare la Cisl più forte
Allora ero segretario sindacale, informatore e coordinatore. Mi abituai a verificare con la base le nostre scelte e le iniziative, avevo un rapporto costante con gli iscritti ed ero pronto anche allo scontro duro con i padroni. Mi preoccupavo soprattutto di creare le condizioni per un’azione efficace del sindacato, compreso allestire il Centro meccanografico in via Tadino. Fu uno dei primi in Italia e serviva a tener aggiornato lo schedario dei collettori, che in azienda raccoglievano i contributi sindacali. Figure oggi forse dimenticate, quelle dei collettori, ma importantissime: attraverso l’appuntamento mensile del versamento della quota, tenevano i rapporti più diretti con i lavoratori, informavano sull’attività sindacale e raccoglievano le segnalazioni di richieste e problemi. Ma per informare il collettore doveva essere informato e formato. E quindi tutti i fine settimana, e qualche volta le pause pranzo, si passavano dentro le fabbriche insieme a chiacchierare, formare. Da qui venivano le nuove leve, direttamente dalle fabbriche, le migliori.
Furono anni duri, ma interessanti per chi voleva contribuire a costruire una società più libera, più solidale, più giusta. Furono anni che mi fecero crescere velocemente e consolidare l’impegno a partire dai luoghi di lavoro, in qualche modo specializzando il modo di fare sindacato.
Ero contento di essere entrato a far parte di una squadra di sindacalisti forte, unita e dotata di una spiccata volontà di cambiare, di innovare. Insomma il sindacato, la Cisl, nel mio caso veniva vissuta e fatta vivere come un vero soggetto politico autonomo, impegnato nella difesa e promozione degli interessi dei lavoratori all’interno e all’esterno dei luoghi di produzione. Nel ‘65 venni eletto segretario generale dell’Unione in sostituzione di Ortolani, nominato vicepresidente dell’Inam. Entrarono con me in segreteria Sandro Pastore, Romolo Arduini, Pippo Morelli e dopo le dimissioni dello stesso Morelli, Mario Colombo. Insieme formavamo una squadra davvero forte e capace di reggere scontri anche pesanti. Nell’ufficio studi c’erano Guido Baglioni. Sergio Zaninelli, Luigi Frey, Gian Primo Cella, Guido Romagnoli, Luigi Morini, Pippo Torri e altri, un pool di studiosi che avevano fatto del sindacato la loro materia preferita. La lotta politica in quegli anni era ideologizzata e assumeva spesso posizioni radicali. E più forte si faceva sentire la necessità di un sindacato davvero autonomo. Ricordo che un giovane dell’Isa, Istituto sociale ambrosiano, venuto a moderare gli animi, sposò talmente l’idea dell’autonomia da volere prendere le distanze anche dal Padreterno!
Non si sa come, ma in alcune sedi Cisl della Brianza cominciarono a sparire i crocifissi, a noi toccò di andare a rimetterli al loro posto. Sempre in tema di unità ed autonomia ricordo un evento importante. Per tanti anni abbiamo marciato separati, ma al Vigorelli, nel ‘63, ci ritrovammo uniti in una grande manifestazione organizzata da Fim, Fiom e Uilm per vincere le resistenze dell’Assolombarda sulla contrattazione aziendale. Il comizio lo tenne Pierre Carniti, ed io ne feci la presentazione, sottolineando che quel ritrovarsi insieme era l’inizio di una nuova unità dei lavoratori italiani sotto la bandiera dell’autonomia sindacale. Quello fu il punto di partenza. Da allora, nelle fabbriche gli accordi aziendali si moltiplicarono e raggiunsero tutte le categorie: grafici, metalmeccanici, tessili e abbigliamento, chimici, alimentaristi, autoferrotranvieri e altri. Addirittura c’era una sorta di gara tra i segretari delle varie categorie a chi realizzava più accordi e quelli più innovativi. I miglioramenti più apprezzati non erano solo quelli relativi al trattamento economico ma più in generale, quelli legati ai vari aspetti del rapporto di lavoro: orari, cottimi, qualifiche, libertà sindacali.
Il territorio
Ma non potevamo limitarci solo a tutelare le condizioni di lavoro. E il mio impegno sindacale sul territorio fu condizionato fortemente dai problemi sociali. In Lombardia arrivavano più di 300mila persone ogni anno in cerca di lavoro. Avevano bisogno di tutto: asili, strade, case, trasporti, istruzione ed assistenza. A questo punto dovemmo uscire dai cancelli della fabbrica, per avviare un’azione sindacale sul territorio.
Dovevamo fare nostri i bisogni di queste persone e dovevamo diventare il motore di un’azione più globale, oltre i confini della contrattazione, fuori dall’orario di lavoro e dai cancelli delle fabbriche. Non c’erano padroni e imprenditori con i quali contrattare orari di lavoro o trattamenti economici. L’immigrazione imponeva alla nostra attenzione ben altri problemi e ben altra controparte. Oggi sembra ovvia l’idea di un sindacato in grado di intervenire in tutti i settori della vita dei cittadini, istruzione compresa, ma negli anni ’60 quest’idea era tutt’altro che scontata. Il nostro punto di riferimento erano le amministrazioni pubbliche, erano gli anni del primato della politica sul sociale e dovevamo faticare non poco per affermare il primato di quella politica che è fatta per l’uomo e non per i partiti.
Organizzammo una serie di manifestazioni: per la casa, i servizi, i trasporti. E tutto questo lo facemmo all’insegna dell’autonomia, senza porci il problema se l’amministratore fosse di un partito amico oppure no. Per quest’impegno “cittadino”, con i segretari della Cgil e della Uil, ricevetti dalla Provincia di Milano una medaglia, che voleva premiare il ruolo e il contributo del sindacato per migliorare la qualità della vita nel territorio. Ma il vero premio per me fu la possibilità di rappresentare la Cisl lombarda nel Comitato regionale per la programmazione economica, presieduto da Piero Bassetti. Il comitato si rivelò un terreno di confronto prezioso con i rappresentanti delle forze sociali e anche delle istituzioni.
L’unità sindacale
Il lavoro sul territorio fece nascere la grande spinta che portò sempre di più a porsi il problema di superare l’unità d’azione, una costante del mio periodo milanese, per arrivare all’unità organica. Un obiettivo non facile da realizzare, ma che andava perseguito fino in fondo. Costruire l’unità non era semplice; richiedeva un salto di scala e di mentalità. Doveva morire l’idea del sindacato cinghia di trasmissione del partito verso le masse e doveva nascere un’idea di sindacato libero da governi, amici o nemici, e senza ombre sul proprio operato. Quante discussioni… trovavamo nella corrente socialista della Cgil una certa disponibilità ad affermare l’incompatibilità tra cariche sindacali e politiche e quindi l’autonomia. Trovavamo invece resistenze nella Cisl, a livello nazionale, ad affermare lo stesso principio, nonostante i nostri continui tentativi di ribadirne la necessità. Eppure dovevamo saltare ed eravamo pronti a giocarci tutto su questa scommessa, pronti a sciogliere le strutture esistenti per dare vita a strutture unitarie.
Come altre strutture sul territorio, come Cisl Milano, convocammo un congresso straordinario sul tema dell’unità sindacale. L’83% dei delegati votò una risoluzione nella quale si affermava che la Cisl era pronta a sciogliersi e a confluire in una nuova organizzazione unitaria fondata sull’autonomia e su una reale democrazia interna. Senza queste condizioni non si sarebbe fatto un passo in avanti. E infatti non se ne fece nulla, poiché nella Cgil l’idea dell’autonomia del sindacato dalla politica, non fu accettata globalmente, come sarebbe stato necessario.
Fare formazione
Un altro “fil rouge” che lega tutta la storia della mia esperienza sindacale, dalle scuole contadine di Perugia in avanti, è la formazione. Negli anni milanesi, con il sostegno della segreteria, cercai di rafforzare l’impegno per la formazione sindacale diffusa e costante, cercando di coinvolgere e di stimolare anche le singole federazioni. La necessità di una formazione continuata e puntuale era tangibile. Dovevamo misurarci con posizioni radicali come “il capitalismo non si cambia, si abbatte”, “il proletariato prende, non chiede”, “il contratto è un compromesso far capitalismo e lavoro”.
Per contrastare le posizioni estreme avevamo bisogno di affinare le nostre armi, compresa la capacità di sostenere un confronto impegnativo anche dal punto di vista culturale, e le nostre tecniche di contrattazione. In altre parole dovevamo diventare un punto di riferimento anche culturale per i nostri iscritti e per tutti i lavoratori. Dalle fabbriche arrivavano le nostre migliori leve: i “giovani leoni!”, li chiamavamo. Da loro ho imparato a non avere paura del confronto duro con matrici ideologiche estreme e a fronteggiare, con l’arma della democrazia e della preparazione, anche le posizioni più radicali. Quanti fine settimana passati negli alberghi sui laghi o in montagna con gli attivisti a studiare come far crescere il sindacato in fabbrica, come far crescere la coscienza di poter cambiare la realtà senza ricorrere alla violenza!
Ricordo un episodio accaduto in una fabbrica occupata: un lavoratore, parlando dei sacrifici necessari per mantenere il posto di lavoro, mi disse che il prezzo della lotta sindacale “democratica” era troppo alto e, forse, improduttivo. Concluse dicendo che tutto questo, comunque, lo faceva per i figli. Replicai che, così facendo, difendeva non solo il suo posto di lavoro, ma anche quello dei suoi figli. Mi rispose di no e disse che se la lotta democratica si fosse rivelata inefficace per i suoi figli, non sarebbe rimasta altro che la P38. Un’affermazione che allora mi colpì molto e che ancora oggi a ricordarla mi da i brividi.
Decisamente più leggero, invece, il ricordo del fatto che i primi corsi di formazione erano organizzati in modo da tenere rigorosamente separati uomini e donne. Questa procedura vittoriana fu presto abbandonata, grazie anche all’impegno di tante attiviste, e si optò per una più democratica e moderna promiscuità.
Una leva importante, sul fronte della formazione, fu l’attività continua e puntuale dell’ufficio studi dell’unione, coordinato dal professor Guido Baglioni. Tra le molteplici iniziative mi piace ricordare le settimane di studio a Loano e la rivista “Prospettiva sindacale”, due appuntamenti vitali per il nostro impegno di sindacalisti: a Loano si riuniva ogni anno il gruppo dirigente per approfondire tematiche connesse all’attività sindacale e la rivista Prospettive ci aiutava pensare e progettare il futuro. Il contributo degli intellettuali, a cominciare da Baglioni, si ritroverà poi lungo la storia del sindacato poiché è diventato patrimonio di tutta l’organizzazione.
Oltre i cancelli delle fabbriche…
In questi anni si andò progressivamente delineando un sindacato che voleva superare i cancelli della fabbrica, per guardare anche alle scelte di politica economica e sociale, per esercitare la tutela degli interessi dei lavoratori ovunque, senza deleghe o meri atti di fede. Nasce proprio dall’impegno della Cisl milanese l’idea di un sindacato che, proprio in virtù della sua natura di soggetto autonomo e realmente libero, vuole dare un contributo fattivo al dialogo, al confronto e alla ricerca di soluzioni ispirate ai principi della solidarietà sociale, dell’uguaglianza e della difesa della democrazia.
Non fu certo un passaggio facile, molte critiche ci furono rivolte e i contrasti con la confederazione si fecero sempre più forti. Ma il gruppo della Cisl milanese non fermò, andò avanti nella sua azione per affermare nella prassi l’idea di un sindacato sempre più presente e attivo nella vita sociale.
Resto convinto che il contributo fornito dalla Cisl milanese alla crescita dell’esperienza sindacale nel nostro paese sia stato importante. “Gli anni ’60 – ha scritto Antonio Pizzinato, già dirigente sindacale della Cgil a Sesto San Giovanni, oggi senatore Ds – rappresentano un momento alto della storia sindacale italiana”. E nel richiamarne gli aspetti salienti afferma “ritengo che Cgil, Cisl e Uil abbiano anticipato di almeno dieci anni quello che sarebbe poi avvenuto a livello delle confederazioni nazionali…”.
Tutto ciò va attribuito certamente ad un grande lavoro di squadra fra il gruppo dirigente della Cisl milanese, i quadri, gli attivisti nei luoghi di lavoro fortemente coesi e preparati.
Un’esperienza di amicizia
L’esperienza milanese non fu comunque ricca solo di episodi drammatici o dolorosi. Anzi. Fu ricca di tanti insegnamenti, sotto tutti gli aspetti. Fu prima di tutto un’esperienza di amicizia. Nel nostro lavorare assieme c’era la voglia di aiutarci l’un l’altro; c’era “fair play” nei contrasti politici e anche un po’ di sana ironia sulle vicende interne.
Emblematico in questo senso, fu un episodio accaduto nel ’68, a seguito di un incontro col governo sulla riforma delle pensioni cui partecipai anch’io, poiché da Milano mi avevano inserito in questo gruppo. Il governo presentò delle offerte nient’affatto convincenti e la delegazione confederale propose di andare in esecutivo. Nonostante il rifiuto della Cgil si andò in esecutivo e la segreteria confederale propose il sì alle proposte del governo. Macario, io e qualcun altro della Lombardia votammo contro.
La Cgil dichiarò lo sciopero e ci fu una pressione interna, nella Fim e in particolare in quella di Milano, per aderire. “Avete votato contro, dicevano, a questo punto affianchiamo la Cgil nello sciopero”. Io assunsi una posizione di cui ancora oggi non mi pento: rifiutai e addirittura mi dichiarai pronto a dare le dimissioni. <<Non aderisco allo sciopero – dissi – perché danneggia il principio della democrazia. Noi siamo andati in minoranza nell’esecutivo, ma se anche non andrò certo a sostenere chi non sciopera non posso scindermi dall’organizzazione>>. Non accettai nessun compromesso: non dieci, non cinque, neanche un minuto di sciopero. <<Se decidete anche un minuto di sciopero – dissi – nel momento che votate l’ordine del giorno sappiate che votate l’accettazione delle mie dimissioni>>. Carniti a questo punto chiese la sospensione, mi chiamò e mi chiese cosa volessi fare. Finì che non aderimmo allo sciopero, ma una conseguenza ci fu. Pippo Morelli, che era con me in segreteria, una persona eccezionale, non condivise questo mio rifiuto e mandò una lettera di dimissioni aperta in cui teorizzava il dovere di dissentire. Io non ho mai contestato il dovere di dissentire, ma in questo caso non lo condividevo. Questo però non influì sui nostri rapporti di amicizia, né con Morelli né con altri. Proprio a Milano lanciammo l’iniziativa di incontrarci ogni anno a Natale per scambiarci gli auguri e avere l’occasione di ritrovarci con tutti i segretari della Cisl di via Tadino: da Ettore Calvi a Maria Grazia Fabrizio.
La grande amicizia dei milanesi si dimostrò anche quando mi trasferii a Roma. Nel 1973, con l’elezione alla segreteria confederale, terminò infatti il mio periodo milanese. Arrivai a Roma ricco solo della mia esperienza sindacale in quanto il camion che trasportava arredi e suppellettili, tutte le nostre cose persino i vestiti e la biancheria, non arrivò mai a destinazione. Quello che invece mi arrivò in quell’occasione fu tanta solidarietà e amicizia dai miei amici di Milano. Chi una lampada, chi addirittura il letto: tutti ci portarono qualcosa per sistemare la casa di Roma. Per questo e per tante altre cose non li ringrazierò mai abbastanza.