Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Gli anni caldi dei metalmeccanici bresciani”, di Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma 2005
Abito a
Frontignano di Barbariga. Dopo la quinta elementare ho fatto i tre anni di
avviamento a Bargnano e due di
specializzazione nella meccanica. Sono andato in pensione al 1° gennaio del
2004 con quarantuno anni e mezzo di contributi. Mia moglie lavora ancora.
Ho lavorato per
vent’anni alla Argenterio, che produceva macchine agricole a Corticella. Negli
anni del boom dell’agricoltura siamo arrivati ad essere quasi cento operai.
Quello è stato il mio secondo lavoro, sono entrato a 17 anni.
In precedenza
avevo lavorato per sei mesi a Brescia, ma dovevo alzarmi ad orari impossibili
perché per andare dalla bassa in città gli unici mezzi di trasporto erano le
corriere e dovevo alzarmi alle cinque del mattino per lavorare otto ore e
arrivare a casa alle otto di sera. Così, quando ho trovato quel lavoro vicino a
casa, circa sette chilometri, ci sono andato.
A Corticella ho
lavorato vent’anni, poi sono andati in crisi, un po’ come tutte le aziende del
settore, come la Scalvenzi e la Omas di Pontevico e altri. Dopo che me ne sono
andato, l’azienda ha continuato la produzione ancora per qualche anno, ma era
diventata una situazione precaria, non bella da vivere. A Natale dell’82
l’azienda è entrata in amministrazione controllata, io ero rappresentante
sindacale, c’era la cassa integrazione a rotazione e quando è toccato a me
stare a casa per quindici giorni mi sono dato da fare per trovare un posto e me
ne sono andato.
Fino al ’69 in
Argenterio non c’era sindacato, poi hanno iniziato a formarsi i rappresentanti
sindacali. In occasione del rinnovo del contratto nazionale di quell’anno, non
essendo un’azienda sindacalizzata, quando gli altri scioperavano noi entravamo
a lavorare. Lì vicino, però, c’erano fabbriche sindacalizzate e in occasione
degli scioperi venivano a fare i picchetti davanti ai nostri cancelli e in
questo modo è nato il nostro rapporto con il sindacato. Venivano degli
operatori con alcuni operai per convincerci a non entrare.
Io sono stato in
Azione cattolica, in quell’ambito ho acquisito l’idea dell’impegno sociale, mi
piaceva partecipare, discutere, capire perché si facevano alcune scelte
piuttosto che altre e quasi naturalmente mi sono ritrovato a fare il delegato.
Negli anni della mia formazione lo scontro ideologico era molto forte. Chi
andava in chiesa si sentiva dire che i
comunisti “mangiavano i bambini”.
Il clima in
azienda, nei primi anni di sindacato, era pesante. I proprietari erano contrari
perché non essendoci mai stato il sindacato avevano paura che la sua presenza
portasse delle tensioni, degli squilibri, non potessero più fare quello che
volevano. Poi, pian piano, con il trascorrere del tempo anche loro hanno capito
che c’era nulla di così drammatico nella presenza sindacale.
Nel ’64, ero lì
sa poco, c’era stata una piccola crisi e avevano lasciato a casa sei o sette
lavoratori, e lo stesso nel ’68, e tutto era avvenuto senza alcuna discussione
o contrasto, di cassa integrazione nemmeno a parlarne. Poi ci siamo organizzati
e le cose sono cambiate. A me piaceva partecipare, andavo a tutte le riunioni di zona, si
discuteva e ci si confrontava. Spesso e volentieri non ero d’accordo, ma molte
volte condividevo le proposte.
Nella fase della
Flm si stava insieme, si pensava che i problemi fossero uguali per tutti e
tutti dovevano contribuire alla loro soluzione, però purtroppo le soluzioni
possibili sono differenti, con percorsi diversi.
Alla Ocean è
stata un’esperienza diversa. Già in precedenza, prima di essere assunto, nelle
riunioni che si facevano con delegati delle diverse aziende, io avevo avuto
modo di dissentire con le posizioni dei rappresentanti sindacali della Ocean,
sulle proposte che facevano per risolvere i problemi che dovevamo affrontare.
Non ero ancora nel direttivo, ma spesso si facevano riunioni dei delegati a
Orzinuovi, a Bagnolo o altrove. Poi sono finito proprio alla Ocean.
Per entrare in
azienda sono stato aiutato da Martino Troncatti, segretario della Fim, che mi
disse che mi mandava in quell’azienda perché non avevano un riferimento forte e
avevano bisogno di un buon delegato.
Sono entrato
alla Ocean l’11 aprile 1983. E’ stata una buona esperienza. Lavoravo in un
reparto di stampaggio plastica. Erano circa settecento dipendenti in quel
momento ed erano cresciuti a quasi ottocento quando sono venuto via. Sono stati
anni di acquisizioni della ex Zanussi ed ex fabbriche del settore dell’Iri.
Abbiamo avuto rapporti con i cdf della Samek di Bassano del Grappa, con il cdf
della San Giorgio di La Spezia. Il gruppo si stava espandendo, poi è esploso.
Io però non ho vissuto il periodo della crisi ma quello della crescita.
Non ho condiviso
le scelte degli autoconvocati di Brescia, con il Pci che cavalcò la loro
protesta. Sul punto di contingenza già nel ’72 io sostenevo che non si
potessero introdurre degli automatismi, mentre in Europa alcuni paesi li
stavano togliendo. In un’assemblea a Milano sul punto unico di contingenza, io
intervenni a sostenere questa tesi e Bruno Trentin mi disse che io e quelli che
la pensavano come me erano dei reazionari. “Questo era l’atteggiamento che non
condividevo: se non eri d’accordo eri contro. Non è vero: erano visioni diverse
che si confrontavano, ma questo non veniva accettato”.
In Ocean
inizialmente nessuno si preoccupava di questa questione, poi si fecero delle
riunioni con gli autoconvocati a Brescia, e le tre confederazioni, che avevano
firmato l’accordo interconfederale, parteciparono. Io non volevo andarci perché
così facendo le confederazioni legittimavano gli autoconvocati, ma Troncatti mi
spinse ad andarci e alla fine cedetti. In verità ero anche curioso di vedere
come andava a finire. Alla riunione presso la Camera di commercio c’era ancora
Trentin, quello che dodici anni prima sosteneva che la scala mobile e il punto
di contingenza dovevano essere uguali per tutti. Iniziò il suo intervento verso
mezzogiorno e lo concluse verso la una e venti, in tutto parlò forse cinque o
sei minuti. Lui era venuto a sostenere e a spiegare l’accordo di San Valentino,
solo che gli autoconvocati guidati da Paletti, Landi, Rossignoli lo hanno
contestato in continuazione. Alla fine dell’incontro io gli dissi: hai raccolto
quello che hai seminato, dodici anni fa mi hai detto che ero un reazionario.
Durante tutta la
vicenda della scala mobile la Fiom organizzò degli scioperi e delle
manifestazioni. In un’occasione io non aderii dicendo che avrei chiesto anche
ai miei iscritti di non farlo e nel mio reparto lo sciopero fallì. Io finii su
tutti i muri con volantini che mi attaccavano per le mie scelte.
In occasione
delle vertenze aziendali, appena definita e presentata la piattaforma, si
cercava immediatamente di capire quale fosse il punto di caduta sul quale ci si
poteva incontrare per fare l’accordo. Avevamo nella direzione alcuni impiegati
che ci informavano sulle disponibilità dell’azienda e ci aiutavano a capire fin
dove l’Aib avrebbe accettato l’intesa. Ma per arrivare a firmare gli accordi
bisognava sempre fare ore e ore di sciopero. Una volta scrissi su un foglietto
come si sarebbe conclusa la vertenza aziendale e lo consegnai ad un altro
delegato della Fim. Finì come avevo previsto, ma dopo cento ore di sciopero.
Però era indispensabile fare vedere ai lavoratori che era una conquista con
forti tensioni in azienda, con blocchi dei camion e scontri con gli autisti,
poter dire che la lotta aveva portato a quei risultati. Senza gli scioperi,
l’accordo, anche se era uguale, non valeva niente. Questo è ciò che a volte io
contestavo al sindacato. Il sindacato ha delle grosse colpe, perché a volte
ingannava la gente. Siamo tra persone civili e credo ci si possa confrontare
senza esasperare per forza la situazione.
Anche la vicenda
degli autoconvocati è un po’ il frutto di questo genere di comportamento. Per
anni il sindacato aveva sostenuto che si doveva andare in quella direzione, poi
improvvisamente decise che si doveva cambiare e molti lavoratori ritennero di
essere stati in qualche modo ingannati o traditi e cercarono di proseguire per
la vecchia strada. E all’inizio la Cisl ha dato spazio agli autoconvocati.
Dall’Ocean sono
venuto via nell’87. Era arrivato un caporeparto con cui ho avuto una
discussione e si era creato un clima poco piacevole. Lui andò subito dal
direttore del personale, il quale informò la Fim provinciale. Io ho spiegato
che avevo semplicemente sostenuto la mia posizione, ma le gerarchie di
un’azienda difendono sempre i propri quadri. Fui chiamato dal capo del
personale, con cui avevo rapporti costanti per il mio impegno nel sindacato e
che mi conosceva bene. Mi disse che doveva mandarmi una lettera di richiamo, ma
che me l’avrebbe consegnata a mano e non l’avrebbe spedita a casa perché mia
moglie non si preoccupasse. Gli ho risposto che gliel’avrei detto io la sera
stessa. Mi diede anche una sanzione di tre ore, e allora decisi di andarmene.
In verità ci stavo già pensando, ma quella fu l’occasione che mi spinse ad
accelerare il passo e me ne andai rilevando un negozio di ferramenta da un mio
zio.
Quando gli altri
delegati hanno saputo che me ne andavo e le ragioni del provvedimento volevano
organizzare una protesta, ma io li ho bloccati perché era una mia questione
personale, non volevo coinvolgere nessuno.
Nel ’62 sono
entrato nella Dc e ci sono rimasto fino all’epoca di mani pulite. Sono stato
segretario della sezione del mio paese che ha cinquecento abitanti, con
Barbariga arriviamo a duemila, e per vent’anni ho fatto l’assessore. Non sono
più impegnato in prima persona. Attraverso il mio impegno sindacale e politico
ho avuto modo di conoscere persone, procedure, stabilire contatti e se posso
sfrutto queste conoscenze per aiutare le persone che ne hanno bisogno e si
rivolgono a me.
In famiglia a
volte si lamentavano del mio impegno perché ero sempre in giro, ma a volte gli
faceva piacere vedere che ero conosciuto e cercato.
Appena arrivato
al sindacato ho partecipato ad un corso di formazione a San Pellegrino che è
durato cinque o sei settimane, il sabato e la domenica. Un’altra volta ho
partecipato ad un corso a Misurina. Tra gli appuntamenti che mi sono rimasti
impressi c’è un seminario nazionale di studio di una settimana fatto ad Asiago
nel 1971 organizzato dalla Flm. Allora lavoravo ancora all’Argenterio e con me
era venuto un altro che non conoscevo, era un comunista, ma volle partire prima
delle conclusioni perché, disse, “domattina questi ci danno in mano il mitra”.
Durante tutta la settimana si parlava esplicitamente di rivoluzione,
evidentemente alcune cose succedono perché si creano le premesse.
Nelle fabbriche
dove ho lavorato fortunatamente non è masi successo niente, ma nella zona i
brigatisti erano presenti. In particolare c’era un postino di cui si
conoscevano bene le simpatie, noi pensavamo che facesse da tramite tra Milano e
il Veneto. Una sera, tornando da Orzinuovi, era il ‘75 o ’76, mi trovai
improvvisamente in una piccola rotonda in mezzo a un gruppo abbastanza numeroso
di persone e mi sono un po’ preoccupato, ma non si poteva passare e mi sono
fermato chiedendo se era successo qualcosa. Mi venne vicino quel tipo e mi
disse: “Ricca, mena”. Io capii che c’era qualcosa in ballo e me ne andai
rapidamente.
Sono stato nel
direttivo della Fim e ho fatto anche l’operatore per tre mesi per sostituire un
sindacalista che doveva andare a fare un corso ad Amelia. E’ stato quando ero
in Ocean e me lo hanno chiesto perché conoscevo bene la zona. In quel periodo
ho avuto modo di entrare nelle fabbriche, di parlare con la gente. Ho
sindacalizzato due o tre fabbriche, ma senza riuscire a fare nemmeno una
tessera.
Quando sono
entrato alla Ocean la Fim c’era poco, nell’ultimo tesseramento che ho seguito
io eravamo arrivati a centocinquanta circa contro i quattrocento iscritti della
Fiom.