lunedì 11 maggio 2020

GIUSEPPE RICCA - Ocean – Verolanuova (Bs)

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Gli anni caldi dei metalmeccanici bresciani”, di Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma 2005

Abito a Frontignano di Barbariga. Dopo la quinta elementare ho fatto i tre anni di avviamento  a Bargnano e due di specializzazione nella meccanica. Sono andato in pensione al 1° gennaio del 2004 con quarantuno anni e mezzo di contributi. Mia moglie lavora ancora.

Ho lavorato per vent’anni alla Argenterio, che produceva macchine agricole a Corticella. Negli anni del boom dell’agricoltura siamo arrivati ad essere quasi cento operai. Quello è stato il mio secondo lavoro, sono entrato a 17 anni.
In precedenza avevo lavorato per sei mesi a Brescia, ma dovevo alzarmi ad orari impossibili perché per andare dalla bassa in città gli unici mezzi di trasporto erano le corriere e dovevo alzarmi alle cinque del mattino per lavorare otto ore e arrivare a casa alle otto di sera. Così, quando ho trovato quel lavoro vicino a casa, circa sette chilometri, ci sono andato.
A Corticella ho lavorato vent’anni, poi sono andati in crisi, un po’ come tutte le aziende del settore, come la Scalvenzi e la Omas di Pontevico e altri. Dopo che me ne sono andato, l’azienda ha continuato la produzione ancora per qualche anno, ma era diventata una situazione precaria, non bella da vivere. A Natale dell’82 l’azienda è entrata in amministrazione controllata, io ero rappresentante sindacale, c’era la cassa integrazione a rotazione e quando è toccato a me stare a casa per quindici giorni mi sono dato da fare per trovare un posto e me ne sono andato.
Fino al ’69 in Argenterio non c’era sindacato, poi hanno iniziato a formarsi i rappresentanti sindacali. In occasione del rinnovo del contratto nazionale di quell’anno, non essendo un’azienda sindacalizzata, quando gli altri scioperavano noi entravamo a lavorare. Lì vicino, però, c’erano fabbriche sindacalizzate e in occasione degli scioperi venivano a fare i picchetti davanti ai nostri cancelli e in questo modo è nato il nostro rapporto con il sindacato. Venivano degli operatori con alcuni operai per convincerci a non entrare.

Io sono stato in Azione cattolica, in quell’ambito ho acquisito l’idea dell’impegno sociale, mi piaceva partecipare, discutere, capire perché si facevano alcune scelte piuttosto che altre e quasi naturalmente mi sono ritrovato a fare il delegato. Negli anni della mia formazione lo scontro ideologico era molto forte. Chi andava in chiesa si sentiva dire che  i comunisti “mangiavano i bambini”.

Il clima in azienda, nei primi anni di sindacato, era pesante. I proprietari erano contrari perché non essendoci mai stato il sindacato avevano paura che la sua presenza portasse delle tensioni, degli squilibri, non potessero più fare quello che volevano. Poi, pian piano, con il trascorrere del tempo anche loro hanno capito che c’era nulla di così drammatico nella presenza sindacale.
Nel ’64, ero lì sa poco, c’era stata una piccola crisi e avevano lasciato a casa sei o sette lavoratori, e lo stesso nel ’68, e tutto era avvenuto senza alcuna discussione o contrasto, di cassa integrazione nemmeno a parlarne. Poi ci siamo organizzati e le cose sono cambiate. A me piaceva partecipare,  andavo a tutte le riunioni di zona, si discuteva e ci si confrontava. Spesso e volentieri non ero d’accordo, ma molte volte condividevo le proposte.

Nella fase della Flm si stava insieme, si pensava che i problemi fossero uguali per tutti e tutti dovevano contribuire alla loro soluzione, però purtroppo le soluzioni possibili sono differenti, con percorsi diversi.
Alla Ocean è stata un’esperienza diversa. Già in precedenza, prima di essere assunto, nelle riunioni che si facevano con delegati delle diverse aziende, io avevo avuto modo di dissentire con le posizioni dei rappresentanti sindacali della Ocean, sulle proposte che facevano per risolvere i problemi che dovevamo affrontare. Non ero ancora nel direttivo, ma spesso si facevano riunioni dei delegati a Orzinuovi, a Bagnolo o altrove. Poi sono finito proprio alla Ocean.
Per entrare in azienda sono stato aiutato da Martino Troncatti, segretario della Fim, che mi disse che mi mandava in quell’azienda perché non avevano un riferimento forte e avevano bisogno di un buon delegato.  
Sono entrato alla Ocean l’11 aprile 1983. E’ stata una buona esperienza. Lavoravo in un reparto di stampaggio plastica. Erano circa settecento dipendenti in quel momento ed erano cresciuti a quasi ottocento quando sono venuto via. Sono stati anni di acquisizioni della ex Zanussi ed ex fabbriche del settore dell’Iri. Abbiamo avuto rapporti con i cdf della Samek di Bassano del Grappa, con il cdf della San Giorgio di La Spezia. Il gruppo si stava espandendo, poi è esploso. Io però non ho vissuto il periodo della crisi ma quello della crescita.

Non ho condiviso le scelte degli autoconvocati di Brescia, con il Pci che cavalcò la loro protesta. Sul punto di contingenza già nel ’72 io sostenevo che non si potessero introdurre degli automatismi, mentre in Europa alcuni paesi li stavano togliendo. In un’assemblea a Milano sul punto unico di contingenza, io intervenni a sostenere questa tesi e Bruno Trentin mi disse che io e quelli che la pensavano come me erano dei reazionari. “Questo era l’atteggiamento che non condividevo: se non eri d’accordo eri contro. Non è vero: erano visioni diverse che si confrontavano, ma questo non veniva accettato”.
In Ocean inizialmente nessuno si preoccupava di questa questione, poi si fecero delle riunioni con gli autoconvocati a Brescia, e le tre confederazioni, che avevano firmato l’accordo interconfederale, parteciparono. Io non volevo andarci perché così facendo le confederazioni legittimavano gli autoconvocati, ma Troncatti mi spinse ad andarci e alla fine cedetti. In verità ero anche curioso di vedere come andava a finire. Alla riunione presso la Camera di commercio c’era ancora Trentin, quello che dodici anni prima sosteneva che la scala mobile e il punto di contingenza dovevano essere uguali per tutti. Iniziò il suo intervento verso mezzogiorno e lo concluse verso la una e venti, in tutto parlò forse cinque o sei minuti. Lui era venuto a sostenere e a spiegare l’accordo di San Valentino, solo che gli autoconvocati guidati da Paletti, Landi, Rossignoli lo hanno contestato in continuazione. Alla fine dell’incontro io gli dissi: hai raccolto quello che hai seminato, dodici anni fa mi hai detto che ero un reazionario.
Durante tutta la vicenda della scala mobile la Fiom organizzò degli scioperi e delle manifestazioni. In un’occasione io non aderii dicendo che avrei chiesto anche ai miei iscritti di non farlo e nel mio reparto lo sciopero fallì. Io finii su tutti i muri con volantini che mi attaccavano per le mie scelte.

In occasione delle vertenze aziendali, appena definita e presentata la piattaforma, si cercava immediatamente di capire quale fosse il punto di caduta sul quale ci si poteva incontrare per fare l’accordo. Avevamo nella direzione alcuni impiegati che ci informavano sulle disponibilità dell’azienda e ci aiutavano a capire fin dove l’Aib avrebbe accettato l’intesa. Ma per arrivare a firmare gli accordi bisognava sempre fare ore e ore di sciopero. Una volta scrissi su un foglietto come si sarebbe conclusa la vertenza aziendale e lo consegnai ad un altro delegato della Fim. Finì come avevo previsto, ma dopo cento ore di sciopero. Però era indispensabile fare vedere ai lavoratori che era una conquista con forti tensioni in azienda, con blocchi dei camion e scontri con gli autisti, poter dire che la lotta aveva portato a quei risultati. Senza gli scioperi, l’accordo, anche se era uguale, non valeva niente. Questo è ciò che a volte io contestavo al sindacato. Il sindacato ha delle grosse colpe, perché a volte ingannava la gente. Siamo tra persone civili e credo ci si possa confrontare senza esasperare per forza la situazione.
Anche la vicenda degli autoconvocati è un po’ il frutto di questo genere di comportamento. Per anni il sindacato aveva sostenuto che si doveva andare in quella direzione, poi improvvisamente decise che si doveva cambiare e molti lavoratori ritennero di essere stati in qualche modo ingannati o traditi e cercarono di proseguire per la vecchia strada. E all’inizio la Cisl ha dato spazio agli autoconvocati.

Dall’Ocean sono venuto via nell’87. Era arrivato un caporeparto con cui ho avuto una discussione e si era creato un clima poco piacevole. Lui andò subito dal direttore del personale, il quale informò la Fim provinciale. Io ho spiegato che avevo semplicemente sostenuto la mia posizione, ma le gerarchie di un’azienda difendono sempre i propri quadri. Fui chiamato dal capo del personale, con cui avevo rapporti costanti per il mio impegno nel sindacato e che mi conosceva bene. Mi disse che doveva mandarmi una lettera di richiamo, ma che me l’avrebbe consegnata a mano e non l’avrebbe spedita a casa perché mia moglie non si preoccupasse. Gli ho risposto che gliel’avrei detto io la sera stessa. Mi diede anche una sanzione di tre ore, e allora decisi di andarmene. In verità ci stavo già pensando, ma quella fu l’occasione che mi spinse ad accelerare il passo e me ne andai rilevando un negozio di ferramenta da un mio zio.
Quando gli altri delegati hanno saputo che me ne andavo e le ragioni del provvedimento volevano organizzare una protesta, ma io li ho bloccati perché era una mia questione personale, non volevo coinvolgere nessuno.

Nel ’62 sono entrato nella Dc e ci sono rimasto fino all’epoca di mani pulite. Sono stato segretario della sezione del mio paese che ha cinquecento abitanti, con Barbariga arriviamo a duemila, e per vent’anni ho fatto l’assessore. Non sono più impegnato in prima persona. Attraverso il mio impegno sindacale e politico ho avuto modo di conoscere persone, procedure, stabilire contatti e se posso sfrutto queste conoscenze per aiutare le persone che ne hanno bisogno e si rivolgono a me.
In famiglia a volte si lamentavano del mio impegno perché ero sempre in giro, ma a volte gli faceva piacere vedere che ero conosciuto e cercato.

Appena arrivato al sindacato ho partecipato ad un corso di formazione a San Pellegrino che è durato cinque o sei settimane, il sabato e la domenica. Un’altra volta ho partecipato ad un corso a Misurina. Tra gli appuntamenti che mi sono rimasti impressi c’è un seminario nazionale di studio di una settimana fatto ad Asiago nel 1971 organizzato dalla Flm. Allora lavoravo ancora all’Argenterio e con me era venuto un altro che non conoscevo, era un comunista, ma volle partire prima delle conclusioni perché, disse, “domattina questi ci danno in mano il mitra”. Durante tutta la settimana si parlava esplicitamente di rivoluzione, evidentemente alcune cose succedono perché si creano le premesse.
Nelle fabbriche dove ho lavorato fortunatamente non è masi successo niente, ma nella zona i brigatisti erano presenti. In particolare c’era un postino di cui si conoscevano bene le simpatie, noi pensavamo che facesse da tramite tra Milano e il Veneto. Una sera, tornando da Orzinuovi, era il ‘75 o ’76, mi trovai improvvisamente in una piccola rotonda in mezzo a un gruppo abbastanza numeroso di persone e mi sono un po’ preoccupato, ma non si poteva passare e mi sono fermato chiedendo se era successo qualcosa. Mi venne vicino quel tipo e mi disse: “Ricca, mena”. Io capii che c’era qualcosa in ballo e me ne andai rapidamente.

Sono stato nel direttivo della Fim e ho fatto anche l’operatore per tre mesi per sostituire un sindacalista che doveva andare a fare un corso ad Amelia. E’ stato quando ero in Ocean e me lo hanno chiesto perché conoscevo bene la zona. In quel periodo ho avuto modo di entrare nelle fabbriche, di parlare con la gente. Ho sindacalizzato due o tre fabbriche, ma senza riuscire a fare nemmeno una tessera.
Quando sono entrato alla Ocean la Fim c’era poco, nell’ultimo tesseramento che ho seguito io eravamo arrivati a centocinquanta circa contro i quattrocento iscritti della Fiom.