giovedì 7 maggio 2020

ANTONIO GILARDI 1 - Fim, Cisl - Lecco

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Autonomia e contratti. Storie di sindacalisti della Cisl in Lombardia”, a cura di Guido Baglioni e Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma, 2006 

Sono rimasto orfano presto, all’età di sei anni, primo di tre fratelli piccoli. Vivevamo in una numerosa famiglia agricola a Consonno, nella collina sopra Olginate, con i problemi e le difficoltà dell’essere in tanti. Da bambino ho fatto la quinta elementare. La media inferiore l’ho frequentata più avanti, da privatista. Mia mamma ha fatto un po’ di lavori: la bidella e varie altre occupazioni, per portare avanti la famiglia. 
Quando avevo 12 anni mia mamma da Consonno è scesa a Olginate. E ho dovuto cominciare a lavorare per sostenere la famiglia. Ho cominciato in un’aziendina metalmeccanica che produceva tappi automatici per la chiusura delle bottiglie, a Maggianico. Pur iniziando a 12 anni avrei potuto essere assunto a libro paga, perché facevano eccezioni per i sostegni di famiglia: anticipavano il libretto di lavoro. 

Mia mamma mi aveva preparato fotografie e documenti per fare il libretto. Ma non è mai stato possibile perché l’azienda avrebbe dovuto assumermi con un contratto regolare.
Trovare qualcuno disposto ad assumermi sarebbe stato importante perché avrei preso gli assegni familiari per le due sorelline. Ma non ne ho beneficiato. Il lavoro era regolare per quei tempi, nel senso che si facevano dieci ore al giorno, per non dire di più, dal lunedì al sabato sera. Eravamo ragazzini. Qualche volta, specialmente a noi giovanissimi, veniva chiesto di lavorare anche la domenica. Era il cruccio di mia mamma perché perdevo la messa.
Rimasi due anni e mezzo in questa azienda per poi entrare, a 14 anni, in una grande fabbrica: la Sae a Lecco. 
Per altri due anni ho lavorato con contratto a termine. Di tre mesi in tre mesi. Era la prassi usata in questa azienda con i giovani neo-assunti. Ed erano molti: il giorno che sono stato assunto io, siamo entrati in 30. Ero manovale al reparto “Serie” dove si realizzavano i tralicci. 
Allora la fabbrica era veramente una palestra di vita e un luogo di formazione professionale. Per la prima volta entravo in contatto con il mondo degli adulti e lavoravo accanto ai reduci della guerra. Quando si lavorava non si parlava perché il rumore era talmente forte che non ci si sentiva. Tra noi ragazzi il discorso cadeva sullo sport, ciclismo e calcio soprattutto. Erano gli ultimi anni del dualismo tra Coppi e Bartali ed il ricordo del grande Torino era ancora fresco. Anche se erano anni di forti passioni, la politica restava spesso fuori dai cancelli. C’era il timore di ritorsioni da parte dei capi che non gradivano che si parlasse di queste cose. I più coraggiosi si facevano vedere con l’Unità, ma erano pochi. Ricordo, però, che quando morì De Gasperi, fecero suonare la sirena e tutto si fermò per un minuto di silenzio. Un altro tema su cui ci si divideva era la corsa per la conquista dello spazio tra Stati Uniti e Unione Sovietica: anche qui le tifoserie rispecchiavano la fede politica. 
Lavorando sempre, gli unici momenti di svago erano quelli all’oratorio, che era insieme luogo di svago ed educativo. 
L’avvio del mio impegno sociale avviene con l’iscrizione alle Acli. Era il 1956 o 1957. Avevo 17 anni e credo di essere il più vecchio iscritto del circolo di Olginate. 
In quel periodo le Acli organizzavano dei corsi di preparazione sociale per i giovani. Si parlava e si affrontavano i problemi del mondo del lavoro. 
Ho frequentato presso la sede di Lecco della Acli un corso che è durato due anni. Da Olginate eravamo in quattro. Le tematiche trattate erano: storia del sindacato, problemi economici ed economia politica, i contratti di lavoro. Il percorso di formazione ci impegnava per due sere alla settimana, da ottobre a marzo. Per il secondo anno erano previsti incontri alla domenica mattina con approfondimenti maggiori sulle stesse tematiche. Ci davano anche i primi rudimenti di politica economica. Era un corso ben strutturato. 
Partecipando a questi corsi, l’ovvia conseguenza è stata iscrivermi al sindacato. Avevo 18 anni. 
Gli incontri continuavano. L’assistente ecclesiale don Aldo Farina ogni 15 giorni ad Acquate aveva dei gruppi di giovani che incontrava per fare riflessioni di carattere vario, ma anche per vedere quali problemi si incontravano in fabbrica. C’era il gruppo Sae, ma c’erano anche vari altri gruppi aziendali. Si faceva qualche preghiera e qualche momento di riflessione e si parlava dei problemi sociali. 
Questi incontri miravano a dare una preparazione di base per stimolare i giovani a impegnarsi nel sindacato o nel partito, a secondo di cosa era più naturale per ciascuno. Per me era più naturale l’impegno sindacale, perché in fabbrica c’erano tanti problemi da risolvere. 
In quel periodo iniziai a impegnarmi di più. Dal ’60 al ’62 fui anche responsabile del movimento giovanile Cisl lecchese. 
Ovviamente le iscrizioni al sindacato erano semiclandestine. C’era la paura. Non lo si doveva far sapere. 
Il mio primo sciopero è stato per il contratto del 1959, mi sembrava una scelta coerente con la formazione ricevuta alle Acli. Su 1.500 dipendenti siamo rimasti fuori dai cancelli in 90. Come cislini saremo stati 25. Mia mamma era preoccupata: «Va che ti fai licenziare… cosa stai combinando?». Conosceva un signore di sinistra che avrebbe dovuto apprezzare questa mia scelta, ma, invece, anche lui diceva di stare attento. «Se lo dice anche lui» chiosava mia mamma. Ma prima di arrivare ad altre prove e scioperi si è dovuto aspettare fino al 1963. 

In commissione interna 
Il mio impegno nel sindacato dei giovani era fuori dalla fabbrica, perché dentro non si riusciva a combinare niente. Nel 1961 costituimmo la sezione sindacale aziendale per preparare le elezioni della commissione interna, dove fui eletto lo stesso anno. Ero il più giovane componente. Ho avuto delle difficoltà e ho dovuto anche un po’ difendermi. La Sae era un ambiente oltre che maschilista, anche molto duro. Ci si può immaginare le battute: «Adesso mettiamo anche i ragazzi nella commissione interna?». 
La Cisl era debole alla Sae. Gli iscritti erano pochi. La Fiom era sicuramente molto più forte, ma era timorosa. Come tutti. Avevano avuto delle batoste negli anni Cinquanta. Avevano fatto parecchi scioperi politici sul Patto atlantico e su altre questioni ideologiche che erano andati male. Se agli scioperi del 1959 eravamo usciti in 90, gli anni precedenti era andata ancora peggio: non erano molti quelli che scioperavano. C’era una paura tremenda e molta di prudenza. 
Io ero giovane e avevo l’incoscienza dell’età. Questo mi aiutò ad essere più spregiudicato. Creai qualche problema in commissione. Un esempio? A quei tempi ai membri di commissione interna davano la tessera per andare a vedere le partita di calcio del Lecco. Lo dissi ai miei colleghi in reparto e venne fuori un casino. «Cosa faccio? La ridò indietro» chiedevo. «Oh bene, meno male che ci sono i giovani – mi dicevano –. No, la facciamo girare». Naturalmente oltre che girare la tessera, è girata anche la voce. La Fiom è stata costretta a fare un volantino che invitava anche i suoi a restituire la tessera. Anch’io ho avuto problemi con gli altri due nostri delegati (alle elezioni eravamo stati eletti in due più il rappresentante degli impiegati). Paolo Nardini, allora segretario della Fim, ha dovuto fare una riunione per cercare di uscire dalla situazione. 
La commissione interna non aveva il compito di contrattare, ma doveva vigilare per fare applicare il contratto e porre un po’ di questioni. Ci si incontrava una volta alla settimana. Prima ci vedevamo fra di noi per vedere quali problemi porre. Di seguito si chiamava il capo del personale e gli si sottoponevano le questioni. 
Io, rispetto agli altri miei colleghi di commissione, avevo l’abitudine di frequentare tutte le sere, uscito dalla fabbrica, prima di andare a casa, la sede sindacale. Incontravo le esperienze dei componenti di commissione interna degli altri stabilimenti. E cercavo di imparare. 
Così posi subito il problema della necessità di fare un verbale delle riunioni della commissione. Il capo del personale disse: «Arrivati i giovani, arrivate le novità. E chi farebbe questo verbale?». Io risposi: «se non lo fa nessuno, lo faccio io». Per me allora era un grosso problema scrivere, ma avrei preso gli appunti e sarei andato al sindacato a farmi aiutare. «No – disse lui – lo scrivo io». E di rimando: «Però prima di metterlo fuori, me lo fa leggere». 
Con i primi anni Sessanta cominciò a cambiare il clima. I giovani che erano entrati con me a metà degli anni Cinquanta erano cresciuti, avevano meno paura e respiravano meno l’oppressione. Infatti gli scioperi del 1962/1963 erano andati meglio: la partecipazione era migliore. Si vivevano di riflesso le lotte degli elettromeccanici di Milano che erano lotte unitarie. 
I rapporti con la Cgil erano competitivi. Erano basati più che altro su scelte ideologiche, piuttosto che su problemi concreti. Anche perché, in effetti, non è che si affrontassero grandi problemi alla Sae. 
Noi cominciammo a porre come Cisl la richiesta di inserire in busta paga il premio che veniva distribuito. Alla Sae c’era un premio, che veniva pagato in tre tranche annuali regolari (Natale, Pasqua, Ferragosto). Era abbastanza consistente. Ma non c’erano dei parametri. Era frutto di una valutazione degli amministratori dell’azienda, che traducevano l’andamento aziendale in un premio: «Quest’anno è andata bene, paghiamo tanto…». 
La nostra proposta pratica era di mettere in busta paga questa fetta consistente di retribuzione in modo che anche questa parte avrebbe inciso sulla futura pensione. Non era così semplice, perché si trattava di far maturare questa proposta tra la gente. La risposta aziendale è stata che avrebbero dato gli stessi soldi decurtati, ovviamente, dei contributi da versare. E si son creati un po’ di problemi. 
All’inizio anche dentro la Cgil aziendale non erano d’accordo. Anche se poi siamo riusciti a far passare questo principio e qualche anno dopo il premio fu messo in busta. 
All’interno della Sae avevamo il vantaggio, come Fim, di poter contare su un gruppo di giovani che avevano meno remore, meno preoccupazioni, meno paure rispetto al passato. Eravamo un po’ più spregiudicati. Nel frattempo tra Fim e Fiom ci si rubava un po’ di iscritti e aumentammo di molto i nostri. Fino a che nel 1966/1967 arrivammo a pareggiare gli iscritti con la Fiom. 

Alla Fim 
Nel congresso del 1962 venni eletto nel direttivo Fim provinciale. 
Nel 1964 la Fim aveva necessità di potenziare e aumentare i dirigenti sindacali a pieno tempo. Dato che si era allargato il numero degli iscritti, c’era bisogno di seguire più realtà. Mi hanno proposero di uscire dalla fabbrica in aspettativa sindacale. Allora infatti il contratto prevedeva un’aspettativa che sospendeva il rapporto di lavoro e non sarebbero maturati i contributi. Durava per sei mesi ed era ripetibile per altri sei. Poi si decideva di rientrare o ci si licenziava. Dopo il primo semestre ho voluto proseguire, chiedendo di andare al Centro studi. 
Non fu facile uscire dalla fabbrica per entrare nel sindacato. Per mia mamma abbandonare la fabbrica era un rischio. La Sae, allora, era il posto di lavoro migliore che c’era a Lecco. Mentre ero già in commissione interna, inoltre, ero andato a fare la scuola di saldatore serale a Merate. Mi sono anche diplomato, ma non ho mai esercitato perché gli ultimi due mesi del corso coincidessero con l’aspettativa sindacale. Mia mamma diceva: «Hai fatto sacrificio per andare a imparare a saldare e adesso ti metti a fare questo lavoro qui?». Qualche problemino sorse anche con mia moglie. Mentre eravamo ancora fidanzati le dissi che prima di sposarci avrei dovuto andare sei mesi a Firenze. Devo dire che è stata bravissima e comprensiva. Non è stato molto facile per lei, nemmeno spiegarlo ai suoi. 
La procedura di selezione per il Centro studi partiva con le lezioni per corrispondenza. Arrivava un fascicolo a casa che andava studiato. Poi si faceva un compitino, una relazione da spedire. A primi di settembre andammo due giorni a Firenze per gli esami e i colloqui orali. Mi interrogò il professor Mario Romani. Già allora era considerato un luminare, metteva soggezione. Ricordo che mi chiese come avvenivano gli scambi internazionali e il ruolo dell’immigrazione collegata ad essi. Credo di aver risposto bene perché superai la selezione. 
Dopo le prime edizioni annuali, il corso durava da quell’anno sei mesi, da ottobre a marzo. 
C’erano quattro materie: storia del sindacato, contrattazione, economia e politica economica, diritto. Il primo mese di lezione dedicammo una settimana ad ogni materia, con un esamino alla fine della settimana che costituiva un’ulteriore selezione. Qualcuno fu mandato a casa. E il corso proseguì. 
Per seguire le lezioni bisognava dichiarare la disponibilità a trasferirsi. Era stata chiesta anche a me. Ma certo fui avvantaggiato dal fatto di provenire da un territorio in cui la base diceva: «Vai, impara qualcosa e torna». Da Firenze tornai a Lecco qualche giorno prima del congresso nazionale della Fim, che si teneva a Brescia. 
Alla Fim di Lecco eravamo quattro operatori a tempo pieno. Io seguivo la zona di Merate e Barzanò. 
Sono stato fortunato perché la prima zona era molto bella per poter lavorare. Barzanò era più difficile e molto chiusa. Per gli scioperi del 1965/66 a Barzanò abbiamo fatto una fatica enorme, non c’era l’influenza del milanese. Invece molti meratesi che lavoravano nelle fabbriche di Arcore e Sesto San Giovanni, per cui c’erano maggiori informazioni. Erano più aperti, partecipavano alle riunioni alla sera. 
Nel meratese poi c’erano personaggi storici del sindacalismo milanese. Ho avuto la fortuna di incontrare una figura come Giancarlo Cogliati che era un milanese anche se lavorava a Merate. Veniva ad aiutarmi a dare i volantini, ma non sopportava di fare i picchetti. Nella sua fabbrica faceva lui il picchetto. Lui salutava tutti ad uno a uno quelli che entravano con il sorriso. Eccezionale. 
Per fare i picchetti bisognava essere un gruppetto. Cercavi di fare pressione sui lavoratori. Ognuno aveva le sue strategie. Don Milani scriveva che quella del picchetto era una pressione contro la pressione che i lavoratori subivano in fabbrica. Se c’era la paura, bisognava fare la contropaura. Si andava lì per cercare di far sì che la gente non entrasse. Per intimorire un po’. 
A Merate, durante uno sciopero per il contratto del 1969, emerse un problema. Avvenne che all’uscita dal lavoro alcuni crumiri, 30 su 200 lavoratori, trovarono cappotto e impermeabile con le maniche tagliate. I carabinieri, il giorno di san Giuseppe che era festa, con la jeep scoperta sono andati a prelevare tre donne della commissione interna e le hanno portate in caserma, passando in mezzo al paese. Scoppiò un bel caos. 
Io avevo qualche sospetto, anche se non ho mai saputo cosa fosse successo. Lo spogliatoio, che era al di fuori dell’ingresso della portineria, veniva chiuso dal portinaio dopo che tutti erano entrati. Probabilmente qualcuno si era fatto chiudere dentro. Il lavoro era stato fatto con calma perché hanno tagliato le maniche e sono state messe nelle tasche. I crumiri hanno cominciato a mettere il cappotto e non c’erano più le maniche C’è stato anche un processo, che però si è sgonfiato. L’azienda cercò di calmare la cosa e anche l’Unione industriali invitò i dirigenti a stemperare la vicenda. 
Eravamo in una fase di passaggio in cui cercavano di intimidire chi non partecipava alle lotte. In un’altra occasione invece una delegata è stata prelevata dai carabinieri. Ma anche in questo caso, come ogni volta, la cosa rientrava. 
Le assemblee con i lavoratori venivano fatte alla sera fuori orario o alla domenica. Si trovava qualche bar, qualche bettola vicino all’azienda. Altrimenti si chiedeva ospitalità presso qualche oratorio o presso i circoli Acli. Quasi tutti davano la sala, anche se c’era qualche parroco restio. La Cgil contava di più sui circoli rossi. 
A un certo punto però cominciammo a dire che bisognava conquistare il diritto di fare l’assemblea in fabbrica. Vi sono stati anche dei tempi in cui gli operai venivano sul cancello e ti portavano dentro per l’assemblea. Mi ricordo che alla Fiocchi il senatore Fiocchi in persona si era inalberato perché avevamo violato la proprietà privata. In quel periodo si correva molto spesso il rischio della denuncia e sono stato chiamato un po’ di volte dai carabinieri. 
La nostra attività sindacale era un continuo volantinaggio fuori dal cancello delle fabbriche. 
Avevo un programma per la distribuzione dei volantini. Il momento ideale era da mezzogiorno alle due. Si partiva con l’uscita di chi faceva giornata, poi si andava nelle aziende che cominciavano alla una del pomeriggio e da chi partiva alla una e mezza. Poi alle due al cambio del turno. Per cui mangiavo alle 11.30 o al termine del giro al pomeriggio. Altre volte portavo dei panini. 
Così giravo con la 500 per quelle stradine della Brianza e ne facevo di tutti i colori. 
Nel 1966 sono anche andato a Torino due giorni a sostenere gli scioperi alla Fiat. Ero partito da Lecco con la 500, gli altoparlanti e l’attrezzatura per manifestare… 
Siamo andati avanti fino al 1968, anno in cui Nardini è passato a fare il segretario dell’Unione ed è arrivato Rino Caviglioli, che era il responsabile del settore giovani nazionale della Fim. C’è stata un po’ di competizione con Primo Negri su chi doveva fare il segretario. Quell’anno eravamo in quattro a farci chiamare segretari. 
Un giorno con Caviglioli organizzammo un picchettaggio duro fuori dalla Black e Decker. Erano gli anni della contestazione, c’erano tante di quelle ragazzine scatenate in quella fabbrica… A noi andava bene, perché era un clima dove potevi lavorare bene, anche dal punto di vista del proselitismo. A volte, però, bisognava frenarle. 
Quel giorno eravamo lì dalle 4,30 per evitare che entrassero. Un carabiniere voleva fare un po’ il gradasso, pensando di spaventare, tirò fuori la pistola, ignorando che un atto del genere avrebbe creato problemi, e ci invitò a lasciar passare. Allora tutti siamo andammo indietro. 
A seguito di questi fatti stampammo un manifesto contro la benemerita Arma dei Carabinieri. Automaticamente scattò la denuncia per vilipendio. In quel momento chi rappresentava la Fim? Io, in quei giorni, ero via per un corso nazionale di formazione. Negri si chiamò fuori. Allora Caviglioli disse: «rappresento io la Fim». Mi ha telefonò e mi spiegò la situazione. Così divenne segretario generale della Fim di Lecco. Poi la denuncia andò a finire in niente. 
A Negri, per evitare ulteriore competizione con Caviglioli, venne proposto di passare agli alimentaristi, una categoria che a Lecco era importante per il fatto che c’era la Vismara. 
Dopo il Congresso del 1969 mi spostai a seguire la zona di Lecco, che permetteva di collaborare direttamente con il segretario generale. 

Trattative 
La contrattazione a Lecco cominciò a decollare nel 1968. Il contratto del 1966 era andato male. Nel 1967 c’erano stati dei problemi. Nel meratese qualche piccola fabbrica era andata un po’ in crisi e aveva chiuso. C’era un po’ di paura. Anch’io mi trovavo in difficoltà. 
Nel 1968 cominciò la ripresa. Gli echi della contestazione studentesca diedero un po’ di respiro. 
Al Centro studi di Firenze la Cisl avevano elaborato una linea politica fondata sulla richiesta del “p su h”, il premio di produttività che derivava dal valore della produzione diviso le ore di lavoro. Ci avevano indottrinato a fare questo tipo di richieste. Alcuni accordi su questa scia erano stati fatti. 
Il contratto sbagliato del 1966 aveva allentato il potere d’acquisto dei salari che non contavano più niente. I lavoratori dicevano: «No! Basta! Chiediamo 30 lire, chiediamo 50 lire». E si partiva con le richieste. La Cgil aveva un po’ forzato su questa posizione. 
Mi ricordo bene la trattativa alla Italgru a Lecco, come esempio della situazione. Dovetti lavorare per convincere la commissione interna che era giusto chiedere 65 lire e che non era troppo, dati gli accordi fatti in altri contesti. Poi all’Unione industriali trovammo il principale, che mise subito in chiaro che non intendeva perdere tempo e che avrebbe potuto dare 65 lire. Ci prese in contropiede. Aveva già la giacchetta sulla spalla e ripeteva che non aveva tempo da perdere. Così chiudemmo l’accordo non con le classiche tre tranche, ma con due. Il problema è che stavamo andando a chiedere di meno… Erano cose che succedevano, nella contrattazione che ogni giorno ci trovavamo a fare. 
Sempre tra il 1969 e il 1970, alla Bessel di Santa Maria Hoè si era creato un gruppo dove c’era un sardo che ogni tre per due bloccava la catena e faceva casino. Un giorno alle sette di sera telefonarono, dicendo che avevano deciso di occupare la fabbrica. Allora prendemmo la macchina e andammo a vedere. «Perché occupare la fabbrica? », chiedemmo. «Allora – dissero – non occupiamo, ma stiamo qui fuori fino a quando non…». Sinceramente non ricordo più cosa chiedevano, ma mi è rimasta impressa quella serata. Intervenne il prete di Santa Maria Hoè a fare la mediazione. Così i lavoratori uscirono, piantarono la tenda fuori e preparano la minestra per tutti. Io non avevo né telefono, né niente. Mia moglie non seppe nulla di me fino alle otto del mattino dopo, quando sono arrivai a casa stravolto e con l’impermeabile bruciato. Perché con il fuoco che andava avevo preso una fiamma… 
La cosa bella di quella fabbrica è che pian piano avevo raccolto gli iscritti: tutti i giorni andavo giù, finché non abbiamo raccolto le prime tessere. E tutti i giorni mi vedeva il prete di Santa Maria Hoè. Siccome avevo una camicia scozzese di montagna prevalentemente rossa, il parroco andava alle Acli e diceva che c’era sempre qualcuno della Cgil alla Bessel. Perciò telefonavano in Cisl e chiedevano se alla Candy non c’era nessuno della Fim ad andare. Risposi io: «Ma come? Sono presente io tutti i giorni!». Andavo a chiacchierare con chi c’era a mezzogiorno. Non avevano la mensa perciò portavano la “schiscetta” e mangiavano fuori dal cancello e io lì a parlare e a dare i volantini. Ed il parroco segnalava che c’era qualcuno della Cgil perché avevo la camicia rossa. Per dire i tempi… 

Rapporti con la Cgil 
Nardini arrivò da Brescia con un ricco bagaglio di esperienza unitaria e portò a Lecco la disponibilità a dialogare con la Cgil. Noi giovani non aspettavamo altro. 
La competizione c’era sempre, ma avevamo rapporti di buona convivenza. Gli scioperi del 1966 erano già scioperi programmati e partecipati unitariamente. Dove riuscivano scioperavano quelli della Cisl e della Cgil, dove non riuscivano non scioperavano né gli uni né gli altri. 
È stato con il 1968 che cominciammo a organizzare attività unitarie vere e proprie. Fino a che, più avanti, abbiamo cominciato a dividere le aziende come Fim e Fiom. Un sindacalista seguiva un’azienda per conto di tutti e due. 
Lecco è stato uno dei territori che per primo ha fatto la tessera unitaria Flm. Era il 1970. Fermo restando che tra Fim e Fiom i rapporti erano buoni, la Uilm è nata dopo. È arrivata nel 1977/1978 a Lecco. Questo ci ha agevolato nel fare la tessera unitaria, poiché tra Fim e Fiom c’era un rapporto di parità di forze che rendeva tutto più facile. Quando li abbiamo uniti c’erano solo 30 o 40 iscritti di differenza. 
A fine gennaio 1971 fu eletto in segreteria nazionale Caviglioli. E io subentrai come segretario generale della Fim, fino al 1976. 
Nel 1973 convocammo il congresso di scioglimento. Spingevamo, insieme alla maggioranza della Fim a livello nazionale, per l’unità sindacale. Abbiamo sempre cercato di proseguire su questa strada nonostante le frenate degli anni successivi. Abbiamo costituito la Flm a Lecco e gestito unitariamente per parecchio tempo la comunicazione, abbiamo fatto anche dei momenti di formazione unitaria, fino a quando è cominciato il raffreddamento e il riflusso… 
Nel 1972 a Lecco due grosse vertenze ci impegnarono molto: una con la Sae e una con la Moto Guzzi. 
Alla Sae rifiutammo la mediazione del ministero. La seguivamo io e Gennaro Pannozzo per la Cgil. 
Quella alla Moto Guzzi era gestita da me per conto della Flm. C’erano in questione il superamento del cottimo, dei problemi di qualifica e altre cose. Abbiamo avuto uno scontro duro, ma la mediazione di Donat Cattin al ministero del Lavoro ci aiutò. Ne abbiamo fatte di tutti i colori anche lì. Occupammo anche la sala del municipio di Mandello per 40 giorni. 
Alla fine sia alla Sae, sia alla Guzzi avemmo la meglio e cambiarono i responsabili aziendali che avevano gestito male entrambe le vertenze: alla Sae andò via il responsabile delle relazioni sindacali e alla Guzzi il direttore. 
Un altro episodio ci impegnò alla Guzzi. Ricordo che una mattina i lavoratori uscirono dalla fabbrica e bloccarono la statale e tutto il traffico. Mi chiamarono. Arrivato alle Caviate c’erano tutte le macchine ferme, così mi feci dare un passaggio da uno con il motorino. C’erano tutti i camionisti nervosi che imprecavano contro i sindacalisti: ovviamente era già girata la voce del blocco. Con Viganò della Fiom cominciammo a lavorare per convincerli che bisognava liberare la strada. L’alternativa era di andare a occupare la fabbrica, ma era chiusa. Viganò prese due o tre persone e si fece alzare per scavalcare. Se saltava lui, non potevo non saltare io, la Fim. E così entrammo. Le guardie ci chiesero: «Cosa fate qui?». E noi: «State tranquilli: dove si apre il cancello?». Entrammo liberammo la strada. Anche lì scattò una denuncia per violazione di proprietà privata. Erano una di quelle denunce che finivano in niente. Poi la vertenza partì e fu dura arrivare alle conclusioni. 

Dalla Fim all’Unione e poi al regionale 
Nel 1976 fui eletto segretario generale della Cisl. Come avveniva da qualche tempo il segretario Fim diventava segretario dell’Unione. 
Il mio ruolo cambiò molto. Dovetti assumere la responsabilità di rappresentare tutte le categorie, i pensionati, quindi svolgere un lavoro di coordinamento e mediazione tra posizioni, aspirazioni e linee diverse. Questa fase richiese molto lavoro, ma devo dire che a Lecco non ebbi avuto grandi difficoltà. C’era un buon consenso. Abbiamo celebrato il trentennale con l’arrivo di Pierre Carniti. C’era un buon clima generale. 
Un lavoro importante che ho cercato di fare ed ho vissuto con grande impegno, con peso, ma anche con grande soddisfazione, è stata la costruzione della sede unitaria. Abbiamo chiesto risorse al nazionale, abbiamo fatto una sottoscrizione che ci ha dato un bel contributo. Poi la sede è stata inaugurata nel 1981. 
Sei mesi dopo sono andato in segreteria regionale Cisl, dove seguivo i problemi sociali e la parte internazionale, fino all’inizio del 1993, quando mi hanno chiesto di andare a Monza a fare il segretario, perché non avevano altre soluzioni. Io ero già vicino alla pensione e sono andato lì per creare le condizioni per un nuovo segretario. A Monza ho, comunque, fatto in tempo a costruire un’altra sede sindacale. E dal 1996 sono andato in pensione e ho staccato dalla Cisl. Per tre mesi non ho fatto niente. Poi Matteo Ripamonti, a quel tempo segretario della Cisl, mi chiese di dare una mano al Consorzio cooperative lavoratori. Ed così è cominciato l’impegno nel mondo delle cooperative. Ed eccomi qui a presiedere la neonata Confcooperative di Lecco.