Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Gli anni caldi dei metalmeccanici bresciani”, Edizioni Lavoro, Roma 2005
Sono nato nel 36 a Brozzo di Marcheno, ho 67 anni compiuti,
da dieci sono in pensione. Ho iniziato a lavorare 21 anni nell’edilizia come
manovale. In quel periodo era difficile trovare lavoro. Prima ho fatto dei
lavori saltuari. Siamo nella valle delle armi, si faceva quel che capitava. Poi
ho travato un lavoro vero come manovale e ho imparato a fare il muratore e
quello mi ha permesso di costruirmi la mia casa, ma ho lavorato quasi sempre in
nero. Nel 1959 sono entrato in Beretta, al posto di mio padre che è andato in
pensione. Allora si usava fare il cambio tra genitori e figli. In Beretta sono
stato 34 anni e 11 mesi. Avevo anche 8 mesi di contributi dell’edilizia e nel
'94 ho potuto andare in pensione.
Sono stato inserito in un reparto di lavorazioni meccaniche
nell’agosto del 59 e sono uscito da quel reparto nel giugno del '94, senza mai
cambiare, lavorando alle macchine utensili: fresatrici e brocciatrici. Prima
come operaio comune e poi come operaio specializzato.
In Beretta sono entrato digiuno di ogni esperienza sindacale.
In azienda sono stato avvicinato da Cominati e Alfredo Franceschetti, che pian
piano mi hanno inserito nel sindacato. C’erano ancora le commissione interne e
c’era la sezione sindacale aziendale ed ho iniziato ad impegnarmi, ma la mia
prima esperienza diretta l’ho fatta nel ‘70/71 quando sono stato eletto
delegato di reparto nel primo consiglio di fabbrica, e da allora sono sempre
stato rieletto.
Quattro anni prima della pensione ho deciso di farmi da parte
per inserire una persona nuova e permettere un ricambio. Sono sempre stato al
vertice del consiglio di fabbrica. Sono stato anche nel consiglio provinciale
della Fim, nell’esecutivo, una volta anche nel consiglio nazionale della Fim,
ma il mio impegno è sempre stato in azienda.
Ho avuto la fortuna di trovare dirigenti come Castrezzati,
che ritengo sia il stato il mio maestro. Ho trovato il sindacato giusto. Per me
è stato una scuola di vita perché mi ha fatto maturare, mi ha fatto capire cosa
vuol dire impegnarsi per gli altri. Ho sempre scelto di stare in fabbrica,
anche se saltuariamente si usciva per dare una mano nelle piccole aziende.
Però, anche per ragioni familiari, non ho mai lasciato la Beretta. Debbo
ringraziare mia moglie perché non ha mai protestato. I primi tempi le riunioni
si facevano sempre di sera e lei non si è mai lamentata. La famiglia è sempre
stata la mia priorità, ho quattro figli, (tre maschi e una femmina, oggi due
sono in casa e due sono sposati) e non era facile conciliare impegno e
famiglia, ma è stato possibile grazie alla disponibilità di moglie e figli.
Così, quando mi venne proposto di fare il sindacalista a tempo pieno ho
rifiutato, anche perché per fare certi passi occorre avere una cultura diversa,
si deve essere preparati. Io ho studiato solo fino alla quinta elementare e per
il resto sono autodidatta.
Negli ultimi anni in fabbrica mi sono occupato dei servizi:
patronato, servizi fiscali. Poi ho continuato anche fuori. Grazie al nostro
lavoro oggi in Beretta c’è ancora una buona presenza Fim.
Anche ora che sono in pensione il mio impegno continua. Mi
occupo ancora dei servizi e faccio dei recapiti per i pensionati a Gardone,
anche se nell’ultimo periodo per ragioni di salute ho dovuto rallentare un po’.
La Beretta è una grande azienda, anche se non come l’Om.
Però, mentre il cervello della Om è a Torino, il cervello della Beretta è a
Gardone. Il sindacato della Beretta ha avuto sempre un ruolo forte, anche per
il fatto che l’industriale dott. Beretta è stato presidente dell’Associazione
industriali di Brescia così come Gussalli. Tutte le vertenze Beretta erano
sempre vertenze difficili e si concludevano quasi normalmente con l’intervento
delle istituzioni. Sottosegretari, sindaco di Gardone, sindaco di Brescia,
ministero del Lavoro sono stati coinvolti, ora l'uno ora l'altro, nelle nostre
vertenze aziendali..
La vertenza più difficile è stata quella del ’77, quando
abbiamo voluto intervenire sul lavoro esterno. La Beretta dava molto lavoro
all’esterno a un sacco di aziendine. Fu una vertenza che durò dieci mesi, molto
forte sul piano dei principi, ma anche dura, in certi momenti cattiva. Abbiamo
tenuto bloccato le portinerie per vari mesi, impedendo l’entrata e l’uscita
delle merci. Io ero in prima fila, anche durante il periodo delle ferie. In quei
giorni abbiamo montato una tenda e tutti i giorni, dalla mattina alle cinque
fino alla sera, si stava lì mentre gli altri erano in ferie. La vertenza si è
conclusa in settembre, con l’intervento costruttivo dell’onorevole Padula, che
era sottosegretario al lavoro. L’intesa è stata firmata nella Prefettura di
Brescia e lui rappresentava il governo. Per arrivare alla firma è stato
necessario l’intervento anche dei segretari confederali.
In ballo c’erano gli investimenti, che la Beretta non faceva
da tempo, rischiando di vedere invecchiare gli impianti, e la questione del
lavoro esterno. Anche le altre vertenze non erano mai facili, ma quella è stata
particolarmente dura.
Sul piano dei rapporti unitari noi in Beretta abbiamo sempre
tenuto, ma in quell’occasione ci sono state divisioni all’interno della
delegazione sindacale. Da una parte c’era Castrezzati e dall’altra Pedò. In
zona il responsabile era Armando Scotuzzi. Però in fabbrica toccava a noi. Ci
furono manifestazioni, scioperi articolati linea per linea, presidi della
portineria. E’ stato un lavoro che ha fatto maturare, ma molto faticoso. La
struttura sindacale interna in quell’occasione si è dimostrata all’altezza, sia
Fim che Fiom.
Anche nella stagione dei grandi contrasti sindacali, dopo il
1984, si rompeva esternamente ma all’interno, sui problemi concreti, si
trovavano le intese. Anche perché anche nella Fiom c’erano persone che capivano
che era interesse di tutti restare uniti.
Fim e Fiom avevano la stessa forza, in azienda era presente
anche la Uilm ma era molto debole. Dopo la fine della Flm, quando si riprese il
tesseramento per organizzazione, la Fiom aveva qualche iscritto in più, ma la
Fim ha sempre tenuto.
Nella mia attività sindacale non ho mai avuto problemi con
l’azienda. Il mio metodo era quello di distinguere i due momenti: come
dipendente e come rappresentante sindacale. Come dipendente rispettavo le
gerarchie aziendali e facevo al meglio il mio lavoro. Da delegato rivendicavo
il mio ruolo di rappresentante sindacale. Ci sono stati momenti difficili nel
rapporto tra sindacato e azienda, ma personalmente non ho mai subito pressioni,
anzi proprio per il modo che adottavo nel tentativo di risolvere i problemi,
anche l’azienda capiva il mio impegno. Essendo nell’esecutivo avevo contatti
quasi giornalieri con la direzione. Come in ogni consiglio di fabbrica anche lì
c’erano quei due o tre che si impegnavano maggiormente e io ero uno di quelli,
per cui vedevo quasi giornalmente il capo del personale, ma non ho mai dovuto
subire pressioni particolari.
Non è sempre facile intendersi con i lavoratori. Ci sono due
modi di rapportarsi a loro: dargli sempre ragione o fargli capire le difficoltà
e la complessità dei problemi. Io usavo dire che ci sono diritti e doveri, noi
dobbiamo fare il nostro dovere per rivendicare i nostri diritti.
Nel reparto dove lavoravo c’è sempre stato il problema dei
tempi e dei cottimi. Quando dovevo chiamare il tempista per modificare la
tariffa dovevo sapere dove intervenire per cambiare i tempi e quindi era importante
capirsi con i lavoratori. C’erano anche momenti in cui c’erano tensioni, allora
tutto era molto più difficile. Complessivamente, però, grazie anche al buon
accordo tra Fim e Fiom abbiamo sempre potuto governare tutte le situazioni.
Nella massa ci sono sempre persone con cui è più difficile rapportarsi. Noi
rappresentavamo lavoratori forse un po’ più moderati e con i nostri era più
facile intendersi, ma generalmente i lavoratori capivano perché ci si
presentava quasi sempre con una linea unitaria. Facevamo lunghe discussioni
all’interno del consiglio di fabbrica, perché non era sempre facile trovare il
punto d’equilibrio, però, trovato il compromesso, anche la Fiom manteneva gli
impegni e si andava dai lavoratori senza particolari problemi.
E’ capitato anche di fare uno sciopero separato il mattino e
il pomeriggio andare in trattativa insieme. Ovviamente ognuno doveva sostenere
la propria organizzazione, ma senza inasprire i contrasti più di tanto. Dopo la
rottura della Flm, quando in fabbrica entravano nuovi lavoratori li
avvicinavamo per proporgli l’iscrizione. Era compito del delegato di reparto e
c’erano reparti più facili e altri più difficili. Il mio era un reparto
tranquillo: eravamo in due, io e uno della Fiom, e non abbiamo mai avuto problemi.
Avevo la maggioranza, ma non ho mai fatto pressione eccessiva per farli
iscrivere al sindacato. Mi è capitato qualcuno che mi diceva: se non mi fai
passare di categoria non faccio la tessera. A quel punto rispondevo che poteva
fare a meno di farla. Io faccio quello che posso, ma non ti assicuro nessun
passaggio di categoria perché fai la tessera.
Ho sempre avuto un modo molto aperto di rapportarmi con i
lavoratori e anche quelli che non volevano iscriversi mi rispettavano. Si
cercava di convincerli, ma gli operai non iscritti non erano molti. Tra gli
operai, tra Fim Fiom e Uilm avevamo una percentuale quasi del 100%. Tra gli
impiegati eravamo la netta maggioranza, ma la maggior parte non erano iscritti,
però ci rispettavano.
Per il tipo di politica che facevamo in azienda, che non era
una politica di rottura, non abbiamo mai avuto episodi di lavoratori
esplicitamente contro il sindacato.
In azienda erano diffusi gli aumenti di merito ma attraverso
una politica oculata siamo riusciti a farli entrare nella contrattazione.
C’erano anche dei reparti come quelli degli incisori, dei livellatori, reparti
speciali della meccanica, che erano dei privilegiati e anche quelli siamo
riusciti a ricondurli dentro un unico criterio. Anche sui passaggi di categoria
riuscivamo sempre ad intervenire, discuterli e trovare un equilibrio. I
passaggi di categoria erano un momento delicato del rapporto con i lavoratori,
perché le aspettative erano molte, ma le possibilità scarse.
Avevamo un sistema di cottimo molto favorevole per i
lavoratori, poi ad un certo punto l’azienda ha introdotto dei correttivi, dando
un premio speciale a chi faceva un numero maggiore di pezzi rispetto a quello
programmato. Abbiamo tentato di intervenire, ma i lavoratori che guadagnavano
di più non erano d’accordo e non siamo riusciti a modificare questo sistema.
Come Fim rappresentavamo anche molti impiegati. Non li
tesseravamo tutti, ma erano tanti e Marco Cominassi era il loro delegato,
seppure con qualche difficoltà.
Ci fu un periodo in cui c’era una spaccatura forte tra operai
e impiegati perché abbiamo fatto una vertenza in cui abbiamo rivendicato un
aumento solo per gli operai. Poi l’azienda lo ha dato anche agli impiegati. Fu
un errore madornale. Era prima del ’77. Allora si facevano vertenze aziendali
senza l’intervento del sindacato esterno, naturalmente eravamo collegati al
sindacato, ma la trattativa era autonoma, anche se interveniva sempre il
sindaco di Gardone. Nel ’77 la situazione è cambiata e Sabatini ha voluto
mettere sotto controllo i suoi della Beretta.
Nell’81 per concludere la vertenza siamo andati a Roma, al
ministero del Lavoro. Nel '91 la mediazione è stata fatta dal senatore Elio
Fontana e dal professor Boni alla Camera di commercio di Brescia. La Beretta
voleva sempre concludere alla presenza delle istituzioni. Io ero sempre in
prima fila, anche negli incontri ristretti, quello era il mio ruolo e quando
toccava ad uno solo dei tre ero sempre io. Ero un leader, mi ero conquistato il
mio spazio, però ero sempre attento a far partecipare tutti gli altri
sindacati. La gestione doveva essere collettiva, e se toccava ad uno solo
partecipare agli incontri, gli altri dovevano essere informati.
All’interno della Fim ci sono stati momenti di tensione e il
congresso di Manerbio è stato un momento di svolta. Lì c’era in gioco
l’autonomia della Fim . Alla Beretta abbiamo fatto i precongressi e stranamente
quasi 60 lavoratori, dalle 8 mezza di sera a mezzanotte, sono venuti al
precongresso che si svolse nella sede di Enzino. In gioco c’erano due liste: la
nostra, che era quella di maggioranza, che faceva capo a Castrezzati, e quella
di minoranza che era capeggiata dagli amici della Om. La questione di fondo era
quella dell’autonomia e il rapporto con la politica. Il vero nodo del
contendere era il rapporto con la Dc. Se passava la linea della Om il sindacato
sarebbe stato una specie di cinghia di trasmissione dei partiti, mentre per noi
l’autonomia era determinante. Quella sera era presente Gianni Italia, che poi è
diventato segretario generale della Fim, che mi chiese quanti erano quelli
della lista uno e quanti quelli della lista due. Su cinquantasette, eravamo
quaranta della lista uno, allora ha fatto in modo di prendere tutti e sei i
delegati che si eleggevano presentando due liste collegate alla maggioranza di
Castrezzati. Il voto della Beretta ha condizionato tutto il resto perché
politicamente era molto importante, anche per il ruolo che l’azienda e gli
industriali Beretta giocavano a Brescia. In fabbrica in quel momento eravamo
1200 dipendenti, inoltre c’erano le consociate di Roma, Garda e Riva.
Nella fase di preparazione del congresso in azienda ci furono
dei contrasti tra i rappresentanti delle due liste, ma presto si capì che non
era il caso di farsi la guerra all'interno della Fim. Dopo le prime tensioni i
rapporti si sono appianati.
Problemi ci sono stati anche con la Cisl. L’impressione era
che si cercasse sempre di sminuire l’importanza della Fim all’interno della
Cisl. C’è sempre stata un po’ di competizione ed era difficile che un
segretario della Fim diventasse segretario della Cisl in qui momenti.
Ho fatto l’esperienza di otto anni nel consiglio generale
della Cisl e lo dicevo tranquillamente, si discuteva a volte aspramente con i
sindacati del pubblico impiego. Poi fortunatamente la situazione è cambiata.
Ho partecipato a molte iniziative di formazione organizzate
dalla Fim, ma la formazione vera era quando ci si riuniva come sezione
sindacale aziendale. Lì si discuteva dei problemi pratici, quella era la
formazione di base. La segreteria della Fim periodicamente organizzava dei
seminari di studi per il direttivo, venivano il professor Baglioni, il
professor Treu. Ma c’erano anche dei corsi per i delegati e anche per i
lavoratori che volevano avvicinarsi al sindacato. A me piaceva molto leggere e
partecipavo quasi sempre.
Sono in pensione da dieci anni, ma ancora oggi mi telefonano
molti miei ex compagni di lavoro per chiedermi delle informazioni. Spesso ci
troviamo anche con gli ex colleghi della Fiom perché, pur nelle differenza di
idee, c’era un rapporto di fiducia reciproca e ho ancora tantissimi amici che
incontro spesso. Venti anni al vertice del consiglio di fabbrica mi hanno
consentito di conoscere tutti i lavoratori dell’azienda.
Facevamo molte riunioni del consiglio di fabbrica e assemblee
di tutti i lavoratori, ma soprattutto facevamo molto contatto diretto. Avevamo
un bella libertà di movimento, potevamo andare in tutti i reparti, potevamo
parlare liberamente. La Beretta non ci ha mai creato impedimenti, ma lo
strumento più utilizzato erano le assemblee di reparto. In un paio di giornate,
con assemblee di due ore, si informava tutto lo stabilimento. Poi c’erano
quelle generali, solitamente per la ratifica degli accordi. Ma quando c’erano
le vertenze si convocavano i lavoratori sui cancelli. Facevamo volantini, ma
l’importante era il contatto diretto. Ogni volta che si scendeva dalla
direzione i lavoratori ci bloccavano per chiederci. “Cosa avete fatto?”.
I lavoratori partecipavano sempre numerosi alle
manifestazioni. Nei momenti più significativi delle vertenze abbiamo fatto
grosse manifestazioni a Gardone. I picchetti erano all’ordine del giorno, a
volte anche pesanti, ma non abbiamo mai avuto episodi di violenza.
Ci fu un periodo in cui se uno faceva il crumiro ed entrava a
lavorare durante lo sciopero, la sera lo si accompagnava a casa, con un codazzo
di operai che lo seguivano per tutto il paese. Io mi sono rifiutato di fare
queste cose e ho detto che non si dovevano fare. Mi sono battuto contro dicendo
che si doveva cercare di convincere le persone, ma non era possibile umiliarle
in quel modo. Lo facevano tutti, anche la Fim e la cosa continuò a lungo
nonostante il mio disaccordo.
Nel ‘77 abbiamo avuto anche dei problemi con una frangia di
lavoratori estremisti, probabilmente legati al terrorismo, e alcuno sono stati
anche arrestati. Durante quella vertenza hanno lanciato una bomba molotov sul
cancello di entrata degli impiegati e della direzione e ne abbiamo trovato
un’altra già pronta nel giardino. Una notte è intervenuta la Digos. Mi ricordo
che ero in ferie e mi hanno chiamato per dirmi che avevano fatto delle
perquisizioni. Lo stesso avvocato del sindacato ci disse che c’erano dei
problemi e che bisognava stare attenti a difendere persone che avevano
comportamenti non chiari. Sembra che in un covo delle Brigate Rosse o di altri
gruppi simili avessero trovato una piantina dell’abitazione dei Beretta. Poi
questo gruppetto di tre quattro lavoratori è scomparso e non li abbiamo più
visti.
La gran massa dei lavoratori erano contrari alla violenza. Al
momento del rapimento Moro si è constatato veramente quanto la gente fosse
contraria al terrorismo. Qualche volta, durante le assemblee, abbiamo dovuto
intervenire a calmare gli animi, perché quando si fanno gli scioperi, si
perdono soldi e non si vedono i risultati, gli animi si esasperano, ma sempre
dentro limiti accettabili. Fatti eclatanti non ne sono mai accaduti.
Ero in Piazza della Loggia il giorno dell’attentato. E’ stato
un brutto momento. Io ero in una zona tranquilla, perché quando andavo alle
manifestazioni preferivo sempre stare ai lati per evitare di essere coinvolto
in eventuali tensioni. Mi ricordo che in occasione della manifestazione per il
primo anniversario della strage, quando in piazza sono arrivate le bandiere
della Dc, le hanno bruciate tutte, ma anche in quell’occasione sono riuscito a
stare fuori dalla ressa. Sono stati momenti molto difficili.
Sono sempre stato impegnato in politica, iscritto prima alla
Dc e poi al Ppi, ma ho sempre voluto distinguere l’impegno politico da quello
sindacale, anche perché il nostro (Marcheno) è un comune piccolo e c’era un
problema di incompatibilità. Fino a quando sono stato in azienda non mi sono
mai impegnato attivamente. Quando sono andato in pensione, invece, ho fatto
l’esperienza di consigliere comunale e ho fatto anche il capogruppo in una
lista civica (eletto nelle elezioni del ’95) di orientamento moderato
cattolico. E’ stata una bella esperienza perché ne facevano parte tanti giovani
e ho stabilito un buon rapporto con tanti di loro. Nella seconda tornata non mi
sono più candidato perché mi chiedevano di entrare in giunta e io non ho dato
la mia disponibilità. In precedenza avevo fatto anche il segretario cittadino
della Dc, ma è stata un’esperienza che più che altro mi ha divertito perché era
il momento della crisi del partito, quando si stava frantumando. Ho collaborato
alla costituzione del circolo della Margherita a Marcheno, allargando anche la
visuale per evitare che fossimo soltanto quelli del Partito popolare. Sono
sempre stato nel direttivo della Margherita fino a quando ho dovuto dimettermi
per ragioni di salute.
Mentre ero impegnato in Beretta lavoravo molto anche in
parrocchia, ero segretario della scuola materna, sono sempre stato impegnato
nel volontariato.
Molti si rivolgono a me per informazioni sulle pensioni e su
tante questioni, in paese per molti sono un punto di riferimento, impegnato nei
servizi Cisl. Mi mantengo aggiornato per poter rispondere agli anziani e a loro
fa molto piacere.
Facevo recapito a Marcheno e tutte le settimane andavo alla
sede di zona di Gardone. Ancora adesso nell’ultima campagna fiscale mi sono
impegnato molto, tenendomi sempre aggiornato, andando in sede quasi tutti i
giorni.
Non mi
piace chiudermi in casa. L’impegno sociale e politico è la mia seconda vita.