venerdì 8 maggio 2020

PAOLO NARDINI 2 - Cisl - Lecco

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Autonomia e contratti. Storie di sindacalisti della Cisl in Lombardia”, a cura di Guido Baglioni e Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma, 2006 

Non ho rovesciato il mondo, non ho fatto nulla di straordinario, ma cose normali. E non sono stato nemmeno l’unico a farle. Penso che altri possano vantare più episodi, più vicende interessanti. Ma io, quello che ho fatto, è stato questo. 
Sono nato a Forte dei Marmi il 9 giugno 1934. Mio papà era maestro di scuola e dirigente locale della Democrazia cristiana. Mia mamma curava la famiglia. Avevo un fratello che è morto. 

La nostra vita era della medio-basso borghesia: gente che lavora. Ho frequentato le scuole a Forte dei Marmi fino alle medie, poi sono andato a Livorno in una camera d’affitto a studiare all’Istituto nautico. Era l’unico di tutta la Toscana. Lì ottenni il titolo di capitano di lungo corso. Dopo il diploma mi imbarcai ed navigai per un po’ di anni. Contemporaneamente mi iscrissi all’università presso la facoltà di Economia e commercio a Pisa, anche se non l’ho finita. Navigando non era possibile fare tanti esami, perciò ero fuori corso. 
Navigare è una vita speciale. Una volta si diceva che è una vita da «sbolinati». Si sta lontano da casa lavorando 24 ore su 24: si fanno le guardie; si guida la nave; la vedetta; si segue la cambusa. E si sta sempre in piedi. Si deve pitturare, pulire dalla ruggine, lavare: c’è sempre da fare. Ho sempre lavorato per una compagnia di Venezia, trasportando carbone per le acciaierie dall’America all’Europa (Trieste, Rotterdam, Siracusa, Napoli…). Il rapporto di lavoro non era da dipendente. Ogni volta si veniva licenziati totalmente e poi riassunti. Solo le grandi compagnie, quelle delle navi passeggeri, avevano i dipendenti. Le altre avevano questo tipo di rapporto. Si sbarcava per qualche mese e poi si ripartiva. 
A quei tempi ero iscritto alla Fegemare (Federazione gente del mare), i marittimi della Cisl. Ho sempre avuto questa tendenza. Era un sindacato che curava molto il mercato del lavoro. Dato che per imbarcarsi bisognava essere iscritti all’albo, per avere maggior tutela si passava dalla Fegemare. Anche perché il primo imbarco era a chiamata. La Fegemare controllava quale posizione avesse il nome dell’aspirante lavoratore all’interno dell’albo che era a Genova. C’era anche un contratto nazionale che regolava alcuni trattamenti. 
L’ambiente familiare in cui vivevo era socialmente sensibile. Il primo contatto con le tematiche sociali infatti è avvenuto in famiglia. Nel periodo in cui stavo a casa dalla navigazione, andavo ad aiutare (un po’ perché mio padre era impegnato politicamente, un po’ per il gusto di farlo) alla sede della Cisl vicina a casa mia: a Pietrasanta. Il primo contatto vero con la Cisl è avvenuto lì, non in mare. C’era una stanza che puzzava di vecchio. Comunque si lavorava. C’era la gente che aveva bisogno. Davamo una mano, trovavamo delle risposte. Era un impegno che mi piaceva. Un po’ quello che succede adesso nelle sedi periferiche. Anche se quella era una sede più “scassata”. Ho conosciuto così i dirigenti della Cisl. 
Lucca era una provincia bianca, ma la Versilia era la zona rossa della provincia bianca. Il dibattito politico era elevato. A quel tempo le divisioni erano nette. Se uno era cattolico era democristiano. La Cisl in Toscana non si distingueva molto in quel tempo dalla Dc, come accadeva un po’ ovunque. Ma lì in modo ancora più forte. In Versilia c’erano forti venature della vecchia anarchia, che davano una colorazione speciale a tutto il quadro. C’erano gli anarchici seri, quelli con il fioccone nero. Nelle edicole si trovava un giornale che si chiamava “l’Anarchico”, che la gente comperava. È sempre stata una zona dagli istinti anarchici e si sentivano anche nell’attività sindacale. Quando si faceva lo sciopero dei lapidei tiravano anche qualche bomba carta. Non faceva danni. Oppure lanciavano le catene sui fili della luce per fare corto circuiti e far smettere di lavorare. 
Il fatto che mio padre fosse dirigente della Dc mi permise di conoscere il senatore Angelini (anche perché gli davo una mano a fare la campagna elettorale), che era segretario della Cisl di Lucca negli anni cinquanta. È stato proprio lui a propormi il passaggio alla Cisl, dandomi una spinta e organizzando un incontro con il professor Saba. Ha scelto me perché ero un diplomato, universitario, cattolico…Fu Saba poi a mettermi in circolo, dandomi accoglienza al Centro studi di Firenze. 
Ho seguito un corso di tre mesi di preselezione al Cnp (Centro nazionale della produttività). Era un centro, cui collaborava la Cisl, finanziato dagli Stati Uniti in gran parte, per fare formazione. 
Di seguito andai al Centro studi, non a seguire il classico Corso annuale, ma per il corso «Esperti della contrattazione». Era il 1958/1959. 
Nel momento in cui si iniziavano questi corsi si firmava una lettera con la quale si accettava qualunque destinazione finale. E mi mandarono a Brescia a fare l’esperto della contrattazione. 
In realtà ero incardinato nei metalmeccanici, perché erano gli unici a fare vera contrattazione in quegli anni. C’erano già degli accordi su una specie di cottimo alla Beretta. O altri premi concordati sull’idea della produttività. Anche altri si spingevano verso la contrattazione dei cottimi, ad esempio in Ideal Standard. Insomma, Brescia era un luogo dove si poteva contrattare a livello aziendale. Andai lì con il compito di sviluppare un ambiente che sembrava favorevole a queste iniziative. Invece sono stato preso dalle vicende bresciane. 

A Brescia 
C’era stato, da poco, il congresso del 1959. Franco Castrezzati aveva vinto il congresso dei metalmeccanici. L’attacco per la conquista dell’Unione da parte di quel gruppo di cui faceva parte anche Baglioni era, però, fallito. Perciò c’era un clima di guerra. 
In verità in tutte le categorie dei metalmeccanici in generale cresceva la voglia di autonomia, di verticalizzazione. Quindi questi dissensi e difficoltà con le Unioni si registravano un po’ dappertutto. Ma a Brescia era proprio dura. Lì bisognava scegliere. Non potevo andare a fare il contrattualista neutro… non potevo. Per cui ho scelto di stare con Castrezzati, con cui siamo diventati molto amici. Un’amicizia che continua ancora adesso. 
Quando sono arrivato a Brescia facevo attività sindacale come operatore. Andavo alle trattative e facevo il sindacalista. A pieno tempo, come operatori, eravamo io e Castrezzati. Un altro si occupava delle vertenze individuali, cui si aggiungevano altri componenti di segreteria non a pieno tempo. Il lavoro era molto: la provincia di Brescia è piuttosto grossa. 
Quello, per me, è stato il periodo di maggior sacrificio. Quando navigavo, guadagnavo molto di più. Invece lì mi avevano assunto a forfait. Prendevo 70 mila lire al mese senza contributi, né niente. Ero già sposato con una figlia. Non sempre si prendeva lo stipendio a fine mese. Se non si erano raccolti abbastanza soldi, c’era il sistema degli acconti. 
In quel periodo non c’erano gli assegni o le deleghe sindacali. C’erano i collettori che raccoglievano i soldi, mensilmente, dagli iscritti, in cambio mettevano i bollini. Lì a Brescia era dura. Non abbiamo fatto la fame, ma grossi sacrifici sì. Con Castrezzati mangiavamo spesso insieme. Lui aveva una stanza riscaldata da una bella stufa. Passavo le serate a casa sua, prima di andare da me a dormire. 
Erano i tempi del sacrificio, ma anche dell’entusiasmo. Il sacrificio si accettava perché si credeva di fare una cosa importante per i lavoratori. C’era una forte carica etico-morale e ideale. 
Brescia era all’avanguardia in quel periodo. La guerra era dura, ma vincente. A tal punto che la segreteria dell’Unione non resse agli attacchi del gruppo legato a Castrezzati: era fuori tempo. 
La proposta della Fim piaceva ai lavoratori. Ne uscì sconfitto invece l’atteggiamento del vecchio gruppo dirigente ha perso. Castrezzati era molto bravo, perché aveva colto bene la situazione. Io ero l’allievo, lui il maestro. Il nostro gruppo aveva dietro le spalle il professore e sociologo Guido Baglioni. Organizzavamo riunioni con lui a Gardone, dove aveva la casa. 
Prima andò via il segretario generale aggiunto, poi il segretario. Era Angelo Gitti, un personaggio che era stato partigiano, pieno di prosopopea. Nell’andare via attribuì a me delle colpe. E pose come condizione che io fossi fatto fuori. Macario, che allora era segretario organizzativo confederale nazionale, pur essendo un po’ dalla nostra parte, mi ha fatto capire come dovevano andare le cose. Se volevo rimanere, dovevo accettare una riduzione di stipendio forfettaria da 70 a 50 mila lire. Era chiaro l’intento: dovevo andarmene. Ha cominciato a offrirmi vari posti: Terni, Livorno… 
Mi dispiaceva andar via perché l’esperienza che avevo fatto lì era buona, a parte i soldi e le difficoltà. Si faceva attività in molte aziende e si lavorava bene: all’Ideal Standard si contrattavano i cottimi, in diverse aziende i premi di produttività. Era un’attività in cui si sentiva che si otteneva qualcosa d’importante. Mi dispiaceva. 

A Lecco 
Mi proposero di guidare la Fim di Lecco. C’erano 1.500 iscritti. Era appena andato via un segretario di origini emiliane ed era provvisoriamente seguita da Primo Negri. 
Prima di accettare feci un minimo di esame della situazione. A Lecco, la Dc negli anni sessanta si avvicinava al 35%. Era un collegio sicuro per tutti i senatori. Ma non corrispondeva la faccia sindacale. La Fiom aveva 7 mila iscritti, con un Pci che non arrivava al 15% e un Psi che non era un granché forte. Le Acli di Lecco erano molto vicine alla Cisl. Non mi sembrava possibile che questi fossero i dati. La situazione era talmente contraddittoria… La Dc aveva una massa di voti, ma la Fim era poca cosa. Ho ritenuto che spostarmi a Lecco fosse come andare a pescare in riserva. Allora accettai di trasferirmi. Era il periodo tra il 1961 e il 1962. 
Ci mettemmo ad organizzare bene la Fim. Con Primo Negri cercammo di attirare la gente migliore, pur non avendo molti soldi. Gli iscritti cominciarono ad aumentare costantemente e molto bene. Ci impegnavamo nell’elezione delle commissioni interne e cominciavamo a prendere molti più voti. 
La nostra proposta di sindacato, che avevo imparato a maneggiare e proporre a Brescia, e che a Milano era portata avanti da Carniti, era un discorso sindacale vero. E la gente lo capiva. Per questo le iscrizioni erano consistenti. Siamo riusciti ad allargare il numero delle persone che lavoravano alla Fim. C’era Antonio Gilardi, poi è arrivato Pierangelo Farina. Abbiamo creato un gruppetto e siamo arrivati presto oltre i 5 mila iscritti. Siamo diventati il quinto o sesto sindacato dei metalmeccanici in Italia. Milano arrivava a 15 mila. Torino a 10 mila. Brescia a 7/8 mila. 

Unità d’azione 
Ho cominciato a parlare di rapporti unitari con la Cgil a Brescia. In quel periodo non era solo una novità, ma era anche un problema di teorizzazione. C’era un atteggiamento ostile anche da parte di alcuni membri della Curia. 
L’unità d’azione a Brescia è partita in sordina. Quando ci si incontrava con quelli della Cgil, con i segretari della Fiom, lo si faceva in modo clandestino, di sera, al ristorante, perché era considerato contrario alla linea ufficiale della Cisl. Ma anche la Cgil era contraria. Non eravamo solo noi quelli controllati. La Cgil però ha pagato quelle prime attività unitarie: il segretario della Cgil è uscito dall’organizzazione ed è andato a vendere abrasivi per le aziende. L’altro è stato mandato ai portuali di Genova. 
Noi sull’unità d’azione avevamo bisogno di lavorare anche dal punto di vista della teoria. C’era un giornaletto (Impegno sindacale) edito dalla Fim di Brescia. Le prime teorizzazioni, le prime prese di posizione scritte, credo che siano venute fuori da quel giornale. Lo facevamo (anch’io aiutavo a farlo) e lo stampavamo presso una cooperativa: oltre a scrivere realizzavo anche i disegni. 
A Brescia l’unità d’azione si portava avanti con dei trucchi. Si andava in piazza a fare il comizio unitario. Noi lo fissavamo alle 16.30 e la Fiom alle 17 o viceversa. In modo che erano due comizi separati, anche se il microfono era uno solo. Erano trucchi perché effettivamente si andava contro le linee ufficiali dell’organizzazione. In ogni caso a Brescia siamo arrivati molto avanti nell’unità d’azione. 
Arrivato a Lecco mi sono portato dietro questo bagaglio di esperienze. Con la difficoltà che a Lecco la Cgil non era ancora maturata su questi temi. 
Era un po’ arretrata anche sull’idea di una nuova contrattazione aziendale. 
Ricordo una vicenda accaduta alla Moto Guzzi di Mandello del Lario su una rivendicazione legata al pacco di Pasqua. A quel tempo infatti si chiedeva in premio il pacco di Natale e di Pasqua: c’erano una serie di richieste economiche fatte con questa modalità. La Cgil aveva impostato uno sciopero per chiedere il pacco di Pasqua. Come Fim prendemmo la decisione di non seguire la Fiom. Non eravamo d’accordo: non volevamo quattro soldi tutte le volte, ma un premio di produzione vero e proprio. Dicemmo che se si andava avanti a chiedere in quel modo quei pochi soldi, che erano un’elemosina, noi non avremmo scioperato. La Fiom programmò uno sciopero e noi invitammo i nostri ad entrare in fabbrica. Endri Bettiga, il nostro delegato, ci rimase male perché erano entrati solo in 13 con fischi e urla… un casino. Però da quella vicenda la gente cominciò a capire che c’era anche un altro sindacato che portava avanti le lotte. 
A quei tempi la Cisl era considerata un sindacato moderato rispetto alla Cgil. Quando, poi, si è cominciato a vedere che era un sindacato che faceva sul serio, che non solo impostava le lotte, ma proponeva anche delle soluzioni, come un premio di risultato, l’ambiente politico è diventato più favorevole a noi. Così la gente veniva da noi e cominciava a darci fiducia. 
Alla Fim, a quel tempo, eravamo tutti giovani, meno che trentenni. Io ero il più anziano. E anche tra gli iscritti c’erano dei giovani in gamba, pieni di entusiasmo sindacale. Inizialmente non ci vedevano bene con la Fiom. Da piccolo sindacatino, diventammo grandi. Certo, qualche tessera gliela abbiamo portata via. Così, in poco tempo, a Lecco abbiamo ribaltato la situazione. 
Ci si presentava come un gruppo di giovani che proponeva delle cose nuove, che avevano anche una formazione. Eravamo in quattro operatori e ho voluto che tutti, a turbo, seguissimo i corsi il Centro studi.. L’idea era quella di lavorare in tre, mentre uno andava a Firenze. Per me la formazione era indispensabile. Finché sono stato segretario Fim, sono andati tutti. 
Dopo queste prime esperienze di conoscenza tra i due sindacati, anche a Lecco abbiamo cominciato a lavorare per l’unità d’azione. E una volta stabilizzate le rispettive forze, abbiamo fatto un sacco di cose insieme. Quando arrivai a Lecco, il segretario della Camera del Lavoro era Pio Galli e segretario della Fiom era un certo Riva, poi passato alla confederazione. Hanno avuto un po’ di avvicendamenti finché alla Fiom è arrivato Remo Viganò. Nacque un’amicizia. Viganò era bravissimo, un dirigente sindacale con un grande intuito. Capiva bene lo stato d’animo della gente. Per questo ci si integrava. Io, avendo una professionalità contrattuale per i miei studi e grazie all’esperienza bresciana, portavo avanti la trattativa. Ma Viganò aveva l’intuito di capire quando era il momento di chiudere. Aprire le vertenze era facile, ma chiuderle con soddisfazione della gente la cosa più delicata e difficile. Si faceva tanta contrattazione sul premio di produttività e abbiamo lavorato molto insieme. 
Quindi l’unità d’azione è stata ben stabilita tra Fiom e Fim. Non c’era la Uilm perché la Uil non c’è stata per tanto tempo. Tanto è vero che la sede sindacale unitaria a Lecco è solo Cisl e Cgil. La Uil non c’era fisicamente, non l’abbiamo esclusa. E’ nata dopo, sulla spinta dei socialisti, dell’onorevole Pier Luigi Polverari, che era stato inizialmente un iscritto alla Cisl. Tanto è vero che il fratello Maurizio è stato giornalista a Conquiste del lavoro. La Uilm è nata quando Fim e Fiom hanno deciso di fare le tessere unitarie nel 1970. Unificandosi ed essendo unitari, hanno incluso anche la Uil. E abbiamo inventato le loro tessere. La Uil a Lecco è nata così. Fino a quando sono stato a Lecco nella metà degli anni Settanta, di Uil non si è mai parlato. 

Cottimi: le vertenze 
I miei compagni a Firenze, al corso per «Esperti di contrattazione» sono andati a finire quasi tutti fuori della Cisl: chi all’Eni, chi all’Iri. Li hanno presi tutti gli enti pubblici. Perché venivano considerati utili e la formazione era buona. Oltre alla formazione politica, infatti, c’era una solida preparazione scientifica: venivano ad insegnare i professori dell’università. 
Ci avevano insegnato la tecnica del cottimo, che noi non conoscevamo. Di fronte alla nuova organizzazione bisognava dare una risposta. Sui cottimi o la classe operaia riusciva ad appropriarsene come conoscenza e la combatteva oppure rimaneva fottuta. Agli operai insegnavano a come muovere la mano, gli occhi, tutti movimenti già predeterminati, la persona non poteva allargare le braccia… era l’esasperazione. 
Introducevano il cottimo in un’azienda e guadagnavano il 25-30-% in produttività in un colpo solo. Le medie di produttività si alzavano, poi si fermavano, ma intanto il colpo lo davano. E se non eravamo in grado di contrattare, l’azienda poteva fregarci in un modo enorme. A seconda dei sistemi e dei meccanismi di retribuzione del cottimo c’erano anche meccanismi di sfruttamento disumani. Il conoscere queste cose, controllarle e saperle contrattare, a quel tempo, era indispensabile. È stata una delle scelte buone che ha fatto il sindacato. E la Cisl è stata la prima a pensarci, a mettere sul mercato gente capace di contrattare: gli esperti di contrattazione, appunto. 
Ho anche insegnato come professore un po’ di queste tecniche agli operai, perché non venissero fregati. Intendiamoci: gli operai avevano capito subito come si faceva, però un conto era la risposta pratica e un altro quella basata su una formazione tecnica. 
«La bolla larga» e «Non dare tutto il tempo»: queste erano le parole che si usavano. La bolla larga era quella che permetteva un avanzo di tempo. Non sempre li calcolavano bene i tempi. Uno poteva, se era furbo, metterne da parte per quando capitavano lavori più difficili. Era un meccanismo così. E in alcune situazioni l’azienda poteva tagliare i tempi. E realizzare guadagni. 
Già a Brescia avevo contrattato la riduzione dei tempi all’Ideal Standard. Fra l’altro il tecnico che seguiva il sistema dei cottimi in quell’azienda era stato mio professore al Centro studi. Un aumento del 10% nella produzione di radiatori era stata ottenuta per l’introduzione di un pezzettino che si chiamava “cavaliere”. 
Per realizzare i radiatori di ghisa serviva una colata. Occorreva un’anima interna che rimanesse staccata dalla base, per farla. Per tenerla sollevata dovevano mettere dei “tre zampe” su cui poggiasse. Il tempo era calcolato in modo che un operaio li posizionasse. Avevano inventato un meccanismo per cui questo “cavaliere” prendeva posto automaticamente. Il tempo quindi era stato tagliato, dando la possibilità di abbassare tutti gli altri tempi. Con questa macchinetta i radiatori raddoppiarono. 
In quella fabbrica il lavoro era bestiale. Operai in pantaloncini corti, a torso nudo, sudati, pieni di carbone: sembrava di essere all’inferno. Fatiche enormi, gente che faceva chilometri ogni giorno avanti e indietro. Così abbiamo fatto la trattativa su questo “cavaliere”. Toglierlo quanti radiatori dava in più? Tira e molla. 
È stata una delle prime trattative sui cottimi prima ancora che sapessimo come stavano le cose. Poi ci siamo preparati e quando ci siamo messi a contrattarli, abbiamo cominciato a controllarli. La contrattazione dei cottimi è stata importante proprio per quello. 
A Brescia le trattative duravano anche di notte, a Lecco no. Nel capoluogo bresciano l’Unione industriali aveva la sede vicina ad un albergo in piazza della Vittoria che aveva delle porte interne. Le trattative a volte duravano giorni interi. E tra gli industriali ogni tanto qualcuno si alzava per andare in albergo a riposare. 
A Lecco avveniva tutto in modo molto più signorile. Un funzionario che trattava spesso con noi si chiamava Salvarani. Era un anziano: quando arrivava l’ora di cena si andava a casa. Poteva arrivare anche un po’ più tardi, ma anche loro non avevano voglia di fare molte maratone. Quindi si rinviava al giorno dopo. Potevano esserci trattative che duravano più di un giorno. Ma la trattativa a ciclo continuo l’ho fatta solo a Brescia. 
A Lecco ci si rispettava molto. A Brescia invece c’è stato un momento in cui abbiamo rotto tutti i rapporti con l’Unione industriali perché volevano decidere loro la delegazione sindacale trattante. I rapporti erano più difficili, tanto è vero che Melino Pillitteri o Castrezzati andavano a fare le trattative dal sindaco. 
A Lecco non abbiamo mai avuto mediazioni. Alcune volte siamo andati all’ufficio del lavoro a Como. Con la Moto Guzzi abbiamo avuto un po’ di problemi quando è arrivato l’argentino De Tomaso, si dava un sacco d’arie, non aveva molta esperienza nei rapporti con noi e faceva il duro. Siamo andati dal prefetto. Abbiamo fatto la trattativa. Viganò della Fiom ad un certo punto disse che eravamo in Italia e non come in Argentina. Allora De Tomaso si è inalberato, ha preso e se n’è andato. Un carabiniere gli è andato dietro e il prefetto per calmare gli animi ha regalato una bottiglia di vino. Così Viganò si è guadagnato il vino speciale della cantina del prefetto. 
Normalmente i rapporti contrattuali non erano violenti o tirati. L’Unione industriali di Lecco era un avversario tosto, ma la stima e il rispetto reciproco ci sono sempre stati. 
Poi ci fu un periodo un po’ più duro che non ho vissuto direttamente. C’è stato Franco Giorgi e un altro segretario della Cgil che sono anche stati arrestati. Giorgi è stato una notte in galera. Noi abbiamo fatto un casino, convocando tutti i lavoratori davanti alla prigione. L’avevano arrestato per non so quale motivo. D’altra parte una volta bastava poco. I carabinieri arrivavano, intimavano di sgomberare. Se non lo facevi subito arrivavano con i manganelli e te li davano sulla schiena. Menavano. E se uno si ribellava, veniva denunciato per resistenza a pubblico ufficiale. 
Facevamo dei picchettaggi forti. Non c’erano atti di violenza. A parte episodi singoli: ruppero la spalla a uno davanti alla Fiocchi, ci fu un inchiesta e le indagini. Nei picchettaggi dovevamo essere duri, nel senso di minacciosi, non di violenti. Siccome a quel tempo c’era la possibilità se non di essere licenziato, certamente di essere messi in condizione di non fare carriera, chi aveva tanti figli e aveva bisogno e non voleva subire ricatti dal padrone voleva una giustificazione plausibile. Il nostro picchettaggio minaccioso li giustificava: «C’era il picchettaggio. Come facevo a entrare?». Non c’erano violenze, ma poteva esserci il matto che faceva qualche cretinata. Non perché noi davamo l’ordine, ma perché preso dal clima. 
L’Unione industriali tendeva a fare le mediazioni per chiudere. Lecco infatti ha avuto sempre una classe imprenditoriale di piccoli imprenditori che prima erano operai. Negli anni della crescita industriale a Lecco una parte di operai specializzati si mise in proprio. C’era anche gente nostra che di giorno lavorava in azienda e la sera andava nella sua aziendina perché voleva mettersi in proprio e poi crescevano. Perciò molti industriali erano ex operai. 
Una volta a Bosisio Parini in un’azienda i sindacalisti erano andati a distribuire volantini e li avevano accolti con i bastoni e minacciati. Sono dovuti scappare. Allora i nostri sono andati lì e gli hanno spaccato tutti i vetri della facciata. Però non era la normalità, erano episodi eccezionali. 

All’Unione 
Nel 1968 il segretario dell’Unione Vittorio Panzeri se ne è andato. Anche a Lecco è successo un po’ come a Brescia e da altre parti. La forza del cambiamento è passata. Alla Fim è arrivato come segretario generale Rino Caviglioli, che era responsabile nazionale dei giovani. 
Ho fatto il segretario dell’Unione a Lecco fino al 1976. Come segretario dell’Unione avevo poco da fare. La funzione del segretario dell’Unione non è quella di fare attività diretta, perché tocca alla categoria. La centralità era la classe operaia, la contrattazione, il conflitto di classe. E quindi l’Unione appoggiava, coordinava, faceva il raccordo, teneva i rapporti con le istituzioni. Inizialmente di grandi attività non ne avevamo. Certo c’erano le attività extracontrattuali, come si chiamavano. Ma il segretario dell’Unione non aveva il rilievo che ha adesso. In quel periodo erano il contratto, la contrattazione, il conflitto con i padroni, l’elemento centrale e principale. 
A volte capitavano alcuni episodi. 
Una volta alla Vismara di Casatenovo, mentre ero già segretario dell’Unione, ero andato a parlare con il padrone per segnalare che non potevano assumere i quattordicenni, perché la legge non lo permetteva. Lì il paternalismo era di casa. Un paternalismo che significava far passare l’idea che il padrone è il padre di famiglia da amare come si ama il padre. La risposta ottenuta era stata: «Va bene li lascio a casa, ma io gli facevo un favore…». Gli scioperi alla Vismara partivano bene. All’inizio si rimaneva fuori dai cancelli, poi arrivava il Vismara anziano e chiamava per nome gli operai, che non resistevano e cominciavano ad entrare. Entrato uno, entrati tutti. 
Al lunedì mattina girava con i soldi in tasca e distribuiva: «ieri sei a messa? Come sta tua figlia?». E con queste scuse dava dei soldi. Noi, avevamo bisogno di un sistema contrattuale al posto di un contatto umano siffatto che preludeva alla fregatura. E il nostro lavoro è continuato così in tutte le categorie anche gli anni successivi. 
Durante la mia segreteria abbiamo comperato, insieme alla Cgil di Viganò, il terreno per la sede unitaria. L’acquisto è avvenuto dal comune, mentre era sindaco della città Puccio. Poi è stato in sonno per diverso tempo, perché ha cominciato Gilardi a costruire la sede, inaugurata nel 1981. 

Al regionale 
Sono rimasto a Lecco fino al 1976 per passare alla segreteria regionale, ove sono rimasto fino al 1985. 
Con il mio lavoro al regionale credo di aver svolto una funzione importante e utile. Le Regioni nascevano in quel momento. C’era tutta una politica da costruire: trasporti, politica industriale… Io seguivo la parte dell’agricoltura, dei trasporti, dei servizi. Era un momento in cui si costruiva molto per cui i nostri rapporti e l’interlocuzione con la Regione erano molto intensi. 
La Regione stava definendo se stessa. E noi definivamo il sindacato regionale, perché prima era solamente un coordinamento dei segretari generali delle Unioni. La Regione doveva darsi un identità, noi ugualmente. Il clima era molto collaborativo. È stato un lavoro intenso di costruzione, anche teorica, oltre che organizzativa. 
Abbiamo avuto anche qualche scontro. C’è stato lo sciopero degli abbonamenti sul finire degli anni settanta. Non si pagava l’abbonamento settimanale per gli operai, siccome il servizio era disastroso. E sulla base di queste lotte abbiamo fatto una contrattazione positiva che ci ha portato alla riforma delle autolinee. Allora poi la Regione diede finanziamenti per rinnovare il parco pullman. Furono riorganizzati gli orari. 

A Como 
Nel 1985 sono stato chiamato a fare il reggente a Como, per qualche mese, per essere poi eletto nel Congresso dello stesso anno. Me lo aveva chiesto Franco Marini. E ho fatto il segretario a Como fino al 1993. 
Lo scopo della mia presenza a Como era di fare un lavoro di ricostruzione, dopo i problemi organizzativi, gestionali e anche di collocazione della Cisl nell’ambiente culturale e politico. Era un’Unione distrutta dalle lotte interne e senza più un’amministrazione organizzata. 
Ho lasciato Como in buone condizione poco prima della fine del secondo mandato, quando era ormai esaurito il mio compito, in accordo con la segreteria regionale e nazionale. 
Dato che avevo ancora qualche anno di lavoro prima della pensione, sono stato nominato nel gruppo di ispettori confederali, una funzione che adesso non c’è più. Eravamo quattro o cinque in Italia che andavamo a fare ispezioni non finanziarie, ma di tipo organizzativo e politico. Dopo una buona partenza l’attività si è ridotta quasi a niente. Per cui ero pagato per non fare niente. Luigi Battisti, allora segretario Fnp regionale della Lombardia, ha chiesto il mio utilizzo da parte della Fnp Lombardia. Così ho cominciato la collaborazione con la categoria dei pensionati. Facevo formazione, coordinavo ricerche, facevo un po’ di assistenza alla segreteria della Fnp regionale. La data della pensione poi è arrivata nel 1995. E ancora oggi sto continuando a fare queste cose.