Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Gli anni caldi dei metalmeccanici bresciani”, di Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma 2005
Sono nato e vivo a Nave, il 23.12.39.
Dopo le elementari ho frequentato tre anni di scuola professionale serale dai
Salesiani in paese. Il primo lavoro l’ho iniziato a 13 anni, in nero, e sono
andato avanti per tre, quattro mesi. Era un’officina meccanica che ora non c’è
più e al suo posto hanno costruito delle case. Ci lavoravano una ventina di
persone. Eravamo due ragazzi e lavoravamo di notte, solo noi due, su un tornio
e una fresatrice, perché di giorno le macchine erano occupate da altri.
Centravamo i perni, facevamo un buco nel pezzo che serviva per la lavorazione
dei tornitori il giorno successivo. In quell’officina sono tornato da
sindacalista a fare delle assemblee.
Poi sono andato in un’altra
aziendina che era stata avviata dal capo che lavorava nella prima fabbrica dove
avevo iniziato la mia esperienza di operaio. Dal primo posto ero quasi scappato
perché nei primi quindici giorni avevo preso trecento lire, senza busta, quasi
fossero un regalo. Facevo lo stesso lavoro alla fresatrice, ma la situazione
era forse ancora più disastrosa. Il padrone era tremendo e appena si rompeva
una punta ci terrorizzava. Lì sono rimasto per un anno circa.
Successivamente sono andato
in un’altra officina di avvolgimenti elettrici, sempre di Nave. Mi hanno
assunto mettendomi in regola, guadagnavo molto di più, mille lire alla
settimana. Questo datore di lavoro era preparato tecnicamente e dal punto di
vista dei rapporti mi sembrava di essere passato dall’inferno al paradiso. Era
il 1955. Quando ho preso per la prima volta la busta sono andato in ufficio da
lui e gli ho detto: “ma non si è sbagliato?”. “Ma che sbagliato, via via, sono
tuoi quei soldi”. Lì sono rimasto fino al 1960. Era una piccola officina con
dieci persone. Si realizzavano avvolgimenti elettrici di motori ma si faceva
anche il lavoro di elettrauto, riparando motociclette e automobili. Facevamo
anche interventi all'esterno su impianti industriali. Io ero il
"piccolo" e accompagnavo gli operai specializzati che andavano a
riparare i motori sul posto.
Infine sono passato alla
Stefana, che è una ferriera, un'azienda siderurgica di Nave che possiede uno
stabilimento anche a Ospitaletto, ma io sono andato a fare lo stesso lavoro di
manutentore elettricista. Lo stabilimento aveva al suo interno officina
meccanica, officina elettrica, riparazione macchine. Il padrone, il signor
Stefana voleva avere in azienda tutte le competenze. Sono rimasto in officina
per un paio d'anni, poi sono passato a fare l'elettricista di turno, anche si
faceva un po’ di tutto, si saldava, si facevano anche manutenzioni meccaniche.
Ho fatto i turni per circa dieci anni, poi sono passato al turno centrale,
perché il responsabile del reparto diceva che avendo i permessi sindacali per i
direttivi e le riunioni - facevo parte anche del direttivo provinciale della Fim
- dovevo essere sostituito nel turno e i miei compagni di lavoro si
lamentavano, così mi ha sostituito. Così negli ultimi cinque o sei anni di
lavoro ho sempre fatto il turno centrale fino a quando il 31.12.1990 sono
andato in pensione.
Alla Stefana, nel ‘68 ci
lavoravano più di cinquecento persone. Quando sono venuto via saranno stati
circa quattrocento. L'azienda non ha mai vissuto grandi crisi, c’è stata un po’
di cassa integrazione, ma non ci sono stati momenti traumatici, al contrario di
altre aziende che sono arrivate alla chiusura. Probabilmente anche grazie alla
nostra iniziativa. Ho fatto più di duecento cause per l'ambiente e la nostra
spinta in questa direzione aveva sollecitato l'azienda a intervenire, a
modificare gli impianti, e quindi a poter reggere meglio il mercato al
contrario di altre che non avevano ristrutturato. Non produceva solo tondino
per il cemento armato, ma anche acciai con una qualità maggiore. Questo ha
sicuramente aiutato l'azienda a sopravvivere.
Non abbiamo mai avuto licenziamenti.
Con le trattative e la cassa integrazione si riusciva sempre a evitare problemi
drammatici. Qualche problema è sorto con l'apertura degli impianti di
Ospitaletto e il conseguente trasferimento di alcuni lavoratori da una fabbrica
all'altra, che abbiamo gestito attraverso le trattative sindacali.
L'azienda era gestita dalla
famiglia Stefana, poi sono subentrati altri imprenditori. Un momento di
difficoltà si è avuto nel 1970 quando la proprietà aveva deciso di introdurre
una nuova tecnologia che consentiva di ottenere prodotti di qualità maggiore
con meno scarto. Sfortunatamente questo sistema è stato immediatamente superato
dalla colata continua proprio poco tempo dopo che erano stati appena acquistati
i macchinari, che quindi non sono stati neppure installati. L'azienda ha
adottato immediatamente i nuovi impianti, ma la spesa è stata enorme. E la
Stefana ha vissuto un momento non facile dal punto di vista finanziario. Si
parlava di chiusura, ma poi si è ripresa.
Un altro momento difficile,
dovuto però alla situazione economica generale, è stato nel 1973.
Stefana era un padrone duro,
abituato a fare quello che voleva senza avere il sindacato tra i piedi. Nel
momento in cui abbiamo iniziato ad organizzarci ha fatto di tutto per chiuderci
la porta in faccia. In fabbrica c'erano circa duecento scritti alla Fiom e
cinque o sei della Fim, ma non c'era nessuna organizzazione.
Quando sono entrato alla
Stefana, il sindacato non solo non c'era in fabbrica, ma nemmeno nella zona.
Prima avevo fatto un po’ di attività sindacale, ma in quasi clandestinità,
perché i sindacalisti erano visti con il fumo negli occhi, e non solo dai
padroni. Il primo contatto l'ho avuto con Franco Castrezzati, che faceva
l'operatore di zona. Era stato in portineria della Stefana e si era presentato
come sindacalista. Il portinaio aveva capito male e aveva riferito al signor
Stefana che c'era uno dell'ispettorato. Così, mentre aspettava in portineria,
aveva visto diversa gente scappare su per la montagna a fianco della ditta e
non aveva capito il perché.
Lui aveva iniziato a fare
delle riunioni di gruppetti molto ridotti di lavoratori a Nave e in una di
queste occasioni ci sono andato e l'ho incontrato. Mio papà, che lavorava alla
Orlandi, spingeva in questa direzione, era della Cgil ed era favorevole
all'organizzazione del sindacato nelle fabbriche. Era una formazione che avevo
dentro di me. Avevo sentito che c'erano questi incontri e così ci sono andato.
Ho fatto l'apprendista della situazione, ma sempre in segreto. Dopo queste
riunioni ho cercato anch'io di fare delle tessere, più all'esterno della
fabbrica che all'interno. Avevo paura che qualcuno mi vedesse e lo riferisse al
padrone. A quel tempo si rischiava anche il licenziamento, non c'era lo Statuto
dei lavoratori. Nel 1963 non avevamo neppure la busta paga e allora siamo
andati a piedi in Prefettura a Brescia, bloccando le strade, sostenuti dal
sindacato esterno. La mia prima busta paga regolare è dell’1.1.1964.
La Fim aveva aperto una sede
in zona, nel tentativo di sfondare in un territorio dove il sindacato faceva
ancora paura. Nel 1965 è stato fatto il primo tentativo di creare la
commissione interna alla Stefana. Era stato chiesto anche a me di partecipare,
ma io non accettai. Ci furono le elezioni ma poi la commissione non fece alcuna
attività. Durò tre o quattro mesi e si annullò da sola. I commissari appena
eletti si incontrarono con il padrone, ma visto che questi non voleva concedere
nulla, la cosa morì e non si fece niente.
Quella nata alla Stefana è
stata la prima commissione interna eletta nella zona, prima non c’era nulla.
Ci fu un vuoto dal ‘65 al
’69, quando si ricominciò a discuterne, anche fuori dai cancelli, e si decise
di fare le elezioni e trovare le persone da presentare in lista. Nell'aprile
del '69 si votò nuovamente per l'elezione della commissione interna. Nel
momento di fare le liste intervenne il padrone che chiamò in direzione alcuni
di quelli che si erano candidati costringendoli in qualche modo a ritirarsi,
dicendogli: “ma tu, proprio tu, sei anziano, ascolti quei ragazzi, sei matto,
ma cosa stai facendo?”.
Le liste erano appese in
portineria e alcuni si cancellarono con la matita. Io ero riuscito a fare più
di cento tessere della Fim contro quasi il triplo della Cgil. I risultati
furono due commissari Fim, uno dei quali fui io, e quattro Fiom. Fu un buon
risultato, anche perché noi non avevamo nessuna sponda, l'autonomia per noi era
evidente, mentre la Cgil era collegata al partito e questo l'aiutava. Dopo la
commissione interna si è arrivati all’elezione dei delegati su scheda bianca
per gruppo omogeneo. Io sono sempre stato eletto senza bisogno di fare campagna
elettorale. (di fatto il leader del cdf)
Pochi prima dell’elezione
della commissione interna c’era stato un accordo di zona tra Fim, Fiom e Aip
che concedeva un aumento di 27,50 lire ai lavoratori di tutte le fabbriche
metalmeccaniche della zona.
Un mese dopo ci fu una
riunione della nuova commissione interna presso la sede della Cisl di Brescia,
che era stata appena aperta, per decidere che cosa rivendicare in azienda e
abbiamo scelto di ritoccare il premio produzione, trasformandolo da premio
orario di poco più di quattro lire a premio annuale di 100mila lire pagato in
più rate. Costruita la nostra piccola piattaforma siamo andati in direzione a
presentarla. Il datore di lavoro ci accolse dicendo che eravamo matti, “vi ho
appena dato 27,50, non vi do niente”. In quell'occasione è nato il primo
sciopero dell'azienda. Lui non se l'aspettava, forse pensava che anche questa
commissione avrebbe fatto la fine della precedente. Invece abbiamo fatto
sciopero. Quel giorno un iscritto della Fiom stava distribuendo dei volantini
sul cancello e lui, pieno di rabbia, lo ha preso per il collo. Era uno anziano,
che lavorava lì da tanto tempo. Quando più tardi sono entrato in fabbrica mi ha
fatto vedere, aveva i segni delle mani con cui era stato stretto. A me lo
Stefana disse: “dì al tuo amico sindacalista (era Pannella della Cgil) che
prima che il sindacato entri in fabbrica io dovrò chiudere gli occhi”. Alla fine,
però, dopo più di cento ore di sciopero, la vertenza si concluse con la
conquista di un premio di 80mila lire annui.
Nel contratto nazionale del
‘69 si chiedevano le dieci ore di assemblea e mi ricordo che in occasione di
uno sciopero, prima che si concludesse la vertenza, sono entrati in fabbrica
Castrezzati e Gianfranco Caffi, accompagnati dai lavoratori senza permesso
attraverso i cancelli aperti. E sotto un capannone abbiamo fatto la prima
assemblea di fabbrica in quella zona.
In quel periodo in un'altra
azienda della zona, la Stefana Antonio, un'altra ferriera, si fecero i primi
picchetti. Allora i picchetti erano pesanti e il padrone aveva chiamato un
pugile, che era loro parente, per fare paura ai lavoratori. Ma la gente che
partecipava al picchetto era numerosa e decisa e il picchetto non ha ceduto.
In quel periodo nella zona
gli industriali avevano pagato gruppi di fascisti che arrivavano in zona e
affiggevano cartelli contro i lavoratori, contro le nostre lotte e noi pian
piano andavamo a strapparli. Era un clima pesantissimo. Nella zona faceva
campagna elettorale Almirante, che veniva finanziato dagli industriali. In
tutta la zona c'è stata una spinta di questo tipo per bloccare le nostre
iniziative, il movimento, le manifestazioni. C'era una tipografia che stampava
i volantini per i fascisti e che aveva collegamento con il gruppo della Fenice.
Anche questo padrone aveva dato un pugno ad un delegato e lo aveva mandato
all'ospedale. Dopo quel fatto venne organizzato uno sciopero di zona contro la
violenza e contro il sostegno degli industriali ai fascisti.
Quello è stato un periodo di
lotte pesantissime perché gli industriali di Nave erano stati abituati a non
avere nessuno all'interno delle loro aziende e fare tutto quello che volevano e
conseguentemente c'è stato una sorta di blocco nei nostri confronti. Alla
Stefana, nei primi anni ’70, abbiamo fatto vertenze aziendali con quasi 300 ore
di sciopero. Poi la situazione si è risolta pian piano con risultati abbastanza
positivi.
Abbiamo raggiunto degli
obiettivi senza un’ora di sciopero: mensa, tempi e pause, vestiario, cottimi.
“La loro cultura era il padrone sono io e voi accettate ciò che decido,
altrimenti fuori dalle scatole, poi un po’ hanno capito e un po’ li abbiamo
educati”.
Con le nostre battaglie
abbiamo modificato l'ambiente di lavoro, portando in azienda dei giudici del
lavoro per eliminare i rischi, per fare mettere delle protezioni, anche perché
gli infortuni erano sempre molto gravi. Ci sono stati numerosi morti alla
Stefana in quegli anni, c’era il problema delle malattie professionali, delle
sordità. Ho fatto più di duecento cause e le abbiamo vinte tutte. Le facevo io
perché facevo parte della commissione ambiente. In Tribunale ormai mi
conoscevano e il giudice un giorno mi disse che potevo fare a meno di giurare
visto le tante volte che l’avevo fatto. Come mi presentavo in Tribunale, la
segretaria sapeva a memoria il mio nome, il mio indirizzo e tutti i miei dati.
Si dovevano fare le cause perché l’Inail non riconosceva il rischio
professionale per i lavoratori dei laminatoi, mentre lo riconosceva per
l’acciaieria. Il problema era il rumore, che nel laminatoio era forse meno
forte ma continuo, mentre in acciaieria era più forte, ma con dei periodi di
pausa. Nell’acciaieria il rumore era fortissimo quando c’era la fusione degli
elettrodi. A metà degli anni ‘80 ci fu anche un’indagine dell’Asl.
Quando Lama era
vicepresidente della Camera e presidente della Commissione ambiente era venuto
anche alla Stefana Fratelli per una loro inchiesta.
C’era anche il problema dei
baraccati. Siccome avevano bisogno di operai li avevano fatti arrivare dal sud
ma poi avevano cercato di sfrattarli.
Ho partecipato alla
formazione di una lista per le elezioni amministrative nel comune di Nave, ma
dovevo fare una scelta perché ero nel direttivo della Fim e allora ho deciso di
non candidarmi, pur essendomi impegnato per la sua formazione. Si chiamava
Alternativa Popolare e aveva preso un seggio a metà degli anni ’70.
Prima di entrare attivamente
nel sindacato ero impegnato nell’oratorio. Non sono sposato. “Ho sposato il
sindacato”. In paese molti non vedevano di buon occhio il mio impegno nel
sindacato e qualcuno ha cercato anche di contrastarmi. Mi etichettavano come
comunista, anche se andavo in chiesa ed ero vicino al mondo cattolico. Anzi,
ritenevo che fosse proprio dal messaggi evangelico che trovavo la spinta per il
mio impegno.
A Nave abbiamo dato vita a
un consiglio di zona dei metalmeccanici e anche intercategoriale. E’ stata
un’esperienza positiva, durata per alcuni anni e ne ha fatto parte per un certo
periodo anche l’attuale sindaco di Brescia Corsini, che era insegnante a Nave.
C’era la figlia di Gitti, che fu il primo segretario della Cisl di Brescia,
anche lei insegnante.
Nel consiglio di zona
interconfederale si discuteva delle 150 ore, dei problemi del territorio, si
tenevano i collegamenti con il Comune. Si stabilì un rapporto con l’Università
di medicina che organizzò degli incontri con gli studenti di medicina del
lavoro.
In zona c’era anche
un’esperienza di preti operai, alla Comini e alla Busseni. Venne anche la Rai,
per fare un servizio su di loro per il programma “Turno C”, anche se poi la mia
intervista venne censurata. Uno di questi è andato missionario in Brasile e
l’altro ha realizzato la comunità di recupero dei tossicodipendenti “Il
Calabrone” di Brescia.
Queste persone, che erano
culturalmente più preparate, ci aiutavano ad andare avanti nei momenti più
difficili del nostro impegno sindacale. Perché c’erano situazioni in cui ci si
sentiva tra l’incudine e il martello. Non c’era solo il padrone che ti
contrastava, ma anche gli operai a volte si lamentavano perché gli scioperi
erano molti, le vertenze si protraevano nel tempo. Per qualcuno la famiglia
pesava e per chi aveva più figli gli scioperi incidevano sulla busta paga in
modo significativo. Il padrone cercava di approfittare di queste difficoltà,
diffondendo anche dei volantini e tentando con tutti i mezzi di far fallire la
nostra iniziativa sputtanando il sindacato e i delegati: “Loro se la spassano
mentre voi siete costretti a fare sacrifici”.
Andato in pensione mi sono
impegnato con i pensionati, faccio l’agente sociale con patronato e caf in
zona. Mi conoscono tutti, mi fermano per strada.
Ho un po’ di nostalgia della
mia fabbrica. Sento raramente i miei ex compagni di lavoro. Ma qualche tempo
fa, in occasione di una vertenza aziendale mi sono fermato davanti alla
portineria a scambiare quattro chiacchiere con alcuni operai e mi sono reso
conto che in quindici anni l’azienda ha cambiato faccia e non conosco quasi più
nessuno. Sono passato lì davanti ed ho sentito come una calamita che mi
attraeva verso quel cancello.
Nelle vicende della Fim mi
sono schierato con Castrezzati.
Ho partecipato al congresso
di scioglimento della Fim al teatro San Babila di Milano. In quei giorni era
stato ucciso il commissario Calabresi e c’era il suo funerale e ci avevano
consigliato di stare sempre in gruppo perché il clima era pesante.
Ero presente in Piazza della
Loggia il giorno dell’attentato. Ero a pochi metri dal luogo dell’esplosione e
ho visto il mucchio delle persone a terra. Pochi attimi prima ero passato
proprio davanti al cestino dove c’era la bomba. A mio giudizio era
telecomandata. Mi ricordo, Castrezzati stava dicendo “Almirante vive e vegeta
nel Parlamento” e in quel preciso momento c’è stata l’esplosione. Ho cercato di
aiutare le persone ferite, coperte di sangue, alcune le abbiamo accompagnate a
delle automobili per portarle in ospedale. Poi sono tornato in fabbrica dove
abbiamo organizzato un’assemblea aperta ed è venuto il segretario della Cisl
Gavioli.