domenica 10 maggio 2020

RINALDO PRATI - F.lli Stefana – Nave (Bs)

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Gli anni caldi dei metalmeccanici bresciani”, di Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma 2005

Sono nato e vivo a Nave, il 23.12.39. Dopo le elementari ho frequentato tre anni di scuola professionale serale dai Salesiani in paese. Il primo lavoro l’ho iniziato a 13 anni, in nero, e sono andato avanti per tre, quattro mesi. Era un’officina meccanica che ora non c’è più e al suo posto hanno costruito delle case. Ci lavoravano una ventina di persone. Eravamo due ragazzi e lavoravamo di notte, solo noi due, su un tornio e una fresatrice, perché di giorno le macchine erano occupate da altri. Centravamo i perni, facevamo un buco nel pezzo che serviva per la lavorazione dei tornitori il giorno successivo. In quell’officina sono tornato da sindacalista a fare delle assemblee.

Poi sono andato in un’altra aziendina che era stata avviata dal capo che lavorava nella prima fabbrica dove avevo iniziato la mia esperienza di operaio. Dal primo posto ero quasi scappato perché nei primi quindici giorni avevo preso trecento lire, senza busta, quasi fossero un regalo. Facevo lo stesso lavoro alla fresatrice, ma la situazione era forse ancora più disastrosa. Il padrone era tremendo e appena si rompeva una punta ci terrorizzava. Lì sono rimasto per un anno circa.
Successivamente sono andato in un’altra officina di avvolgimenti elettrici, sempre di Nave. Mi hanno assunto mettendomi in regola, guadagnavo molto di più, mille lire alla settimana. Questo datore di lavoro era preparato tecnicamente e dal punto di vista dei rapporti mi sembrava di essere passato dall’inferno al paradiso. Era il 1955. Quando ho preso per la prima volta la busta sono andato in ufficio da lui e gli ho detto: “ma non si è sbagliato?”. “Ma che sbagliato, via via, sono tuoi quei soldi”. Lì sono rimasto fino al 1960. Era una piccola officina con dieci persone. Si realizzavano avvolgimenti elettrici di motori ma si faceva anche il lavoro di elettrauto, riparando motociclette e automobili. Facevamo anche interventi all'esterno su impianti industriali. Io ero il "piccolo" e accompagnavo gli operai specializzati che andavano a riparare i motori sul posto.
Infine sono passato alla Stefana, che è una ferriera, un'azienda siderurgica di Nave che possiede uno stabilimento anche a Ospitaletto, ma io sono andato a fare lo stesso lavoro di manutentore elettricista. Lo stabilimento aveva al suo interno officina meccanica, officina elettrica, riparazione macchine. Il padrone, il signor Stefana voleva avere in azienda tutte le competenze. Sono rimasto in officina per un paio d'anni, poi sono passato a fare l'elettricista di turno, anche si faceva un po’ di tutto, si saldava, si facevano anche manutenzioni meccaniche. Ho fatto i turni per circa dieci anni, poi sono passato al turno centrale, perché il responsabile del reparto diceva che avendo i permessi sindacali per i direttivi e le riunioni - facevo parte anche del direttivo provinciale della Fim - dovevo essere sostituito nel turno e i miei compagni di lavoro si lamentavano, così mi ha sostituito. Così negli ultimi cinque o sei anni di lavoro ho sempre fatto il turno centrale fino a quando il 31.12.1990 sono andato in pensione.

Alla Stefana, nel ‘68 ci lavoravano più di cinquecento persone. Quando sono venuto via saranno stati circa quattrocento. L'azienda non ha mai vissuto grandi crisi, c’è stata un po’ di cassa integrazione, ma non ci sono stati momenti traumatici, al contrario di altre aziende che sono arrivate alla chiusura. Probabilmente anche grazie alla nostra iniziativa. Ho fatto più di duecento cause per l'ambiente e la nostra spinta in questa direzione aveva sollecitato l'azienda a intervenire, a modificare gli impianti, e quindi a poter reggere meglio il mercato al contrario di altre che non avevano ristrutturato. Non produceva solo tondino per il cemento armato, ma anche acciai con una qualità maggiore. Questo ha sicuramente aiutato l'azienda a sopravvivere.
Non abbiamo mai avuto licenziamenti. Con le trattative e la cassa integrazione si riusciva sempre a evitare problemi drammatici. Qualche problema è sorto con l'apertura degli impianti di Ospitaletto e il conseguente trasferimento di alcuni lavoratori da una fabbrica all'altra, che abbiamo gestito attraverso le trattative sindacali.
L'azienda era gestita dalla famiglia Stefana, poi sono subentrati altri imprenditori. Un momento di difficoltà si è avuto nel 1970 quando la proprietà aveva deciso di introdurre una nuova tecnologia che consentiva di ottenere prodotti di qualità maggiore con meno scarto. Sfortunatamente questo sistema è stato immediatamente superato dalla colata continua proprio poco tempo dopo che erano stati appena acquistati i macchinari, che quindi non sono stati neppure installati. L'azienda ha adottato immediatamente i nuovi impianti, ma la spesa è stata enorme. E la Stefana ha vissuto un momento non facile dal punto di vista finanziario. Si parlava di chiusura, ma poi si è ripresa.
Un altro momento difficile, dovuto però alla situazione economica generale, è stato nel 1973.

Stefana era un padrone duro, abituato a fare quello che voleva senza avere il sindacato tra i piedi. Nel momento in cui abbiamo iniziato ad organizzarci ha fatto di tutto per chiuderci la porta in faccia. In fabbrica c'erano circa duecento scritti alla Fiom e cinque o sei della Fim, ma non c'era nessuna organizzazione.
Quando sono entrato alla Stefana, il sindacato non solo non c'era in fabbrica, ma nemmeno nella zona. Prima avevo fatto un po’ di attività sindacale, ma in quasi clandestinità, perché i sindacalisti erano visti con il fumo negli occhi, e non solo dai padroni. Il primo contatto l'ho avuto con Franco Castrezzati, che faceva l'operatore di zona. Era stato in portineria della Stefana e si era presentato come sindacalista. Il portinaio aveva capito male e aveva riferito al signor Stefana che c'era uno dell'ispettorato. Così, mentre aspettava in portineria, aveva visto diversa gente scappare su per la montagna a fianco della ditta e non aveva capito il perché.
Lui aveva iniziato a fare delle riunioni di gruppetti molto ridotti di lavoratori a Nave e in una di queste occasioni ci sono andato e l'ho incontrato. Mio papà, che lavorava alla Orlandi, spingeva in questa direzione, era della Cgil ed era favorevole all'organizzazione del sindacato nelle fabbriche. Era una formazione che avevo dentro di me. Avevo sentito che c'erano questi incontri e così ci sono andato. Ho fatto l'apprendista della situazione, ma sempre in segreto. Dopo queste riunioni ho cercato anch'io di fare delle tessere, più all'esterno della fabbrica che all'interno. Avevo paura che qualcuno mi vedesse e lo riferisse al padrone. A quel tempo si rischiava anche il licenziamento, non c'era lo Statuto dei lavoratori. Nel 1963 non avevamo neppure la busta paga e allora siamo andati a piedi in Prefettura a Brescia, bloccando le strade, sostenuti dal sindacato esterno. La mia prima busta paga regolare è dell’1.1.1964.
La Fim aveva aperto una sede in zona, nel tentativo di sfondare in un territorio dove il sindacato faceva ancora paura. Nel 1965 è stato fatto il primo tentativo di creare la commissione interna alla Stefana. Era stato chiesto anche a me di partecipare, ma io non accettai. Ci furono le elezioni ma poi la commissione non fece alcuna attività. Durò tre o quattro mesi e si annullò da sola. I commissari appena eletti si incontrarono con il padrone, ma visto che questi non voleva concedere nulla, la cosa morì e non si fece niente.
Quella nata alla Stefana è stata la prima commissione interna eletta nella zona, prima non c’era nulla.
Ci fu un vuoto dal ‘65 al ’69, quando si ricominciò a discuterne, anche fuori dai cancelli, e si decise di fare le elezioni e trovare le persone da presentare in lista. Nell'aprile del '69 si votò nuovamente per l'elezione della commissione interna. Nel momento di fare le liste intervenne il padrone che chiamò in direzione alcuni di quelli che si erano candidati costringendoli in qualche modo a ritirarsi, dicendogli: “ma tu, proprio tu, sei anziano, ascolti quei ragazzi, sei matto, ma cosa stai facendo?”.
Le liste erano appese in portineria e alcuni si cancellarono con la matita. Io ero riuscito a fare più di cento tessere della Fim contro quasi il triplo della Cgil. I risultati furono due commissari Fim, uno dei quali fui io, e quattro Fiom. Fu un buon risultato, anche perché noi non avevamo nessuna sponda, l'autonomia per noi era evidente, mentre la Cgil era collegata al partito e questo l'aiutava. Dopo la commissione interna si è arrivati all’elezione dei delegati su scheda bianca per gruppo omogeneo. Io sono sempre stato eletto senza bisogno di fare campagna elettorale. (di fatto il leader del cdf)
Pochi prima dell’elezione della commissione interna c’era stato un accordo di zona tra Fim, Fiom e Aip che concedeva un aumento di 27,50 lire ai lavoratori di tutte le fabbriche metalmeccaniche della zona.
Un mese dopo ci fu una riunione della nuova commissione interna presso la sede della Cisl di Brescia, che era stata appena aperta, per decidere che cosa rivendicare in azienda e abbiamo scelto di ritoccare il premio produzione, trasformandolo da premio orario di poco più di quattro lire a premio annuale di 100mila lire pagato in più rate. Costruita la nostra piccola piattaforma siamo andati in direzione a presentarla. Il datore di lavoro ci accolse dicendo che eravamo matti, “vi ho appena dato 27,50, non vi do niente”. In quell'occasione è nato il primo sciopero dell'azienda. Lui non se l'aspettava, forse pensava che anche questa commissione avrebbe fatto la fine della precedente. Invece abbiamo fatto sciopero. Quel giorno un iscritto della Fiom stava distribuendo dei volantini sul cancello e lui, pieno di rabbia, lo ha preso per il collo. Era uno anziano, che lavorava lì da tanto tempo. Quando più tardi sono entrato in fabbrica mi ha fatto vedere, aveva i segni delle mani con cui era stato stretto. A me lo Stefana disse: “dì al tuo amico sindacalista (era Pannella della Cgil) che prima che il sindacato entri in fabbrica io dovrò chiudere gli occhi”. Alla fine, però, dopo più di cento ore di sciopero, la vertenza si concluse con la conquista di un premio di 80mila lire annui.

Nel contratto nazionale del ‘69 si chiedevano le dieci ore di assemblea e mi ricordo che in occasione di uno sciopero, prima che si concludesse la vertenza, sono entrati in fabbrica Castrezzati e Gianfranco Caffi, accompagnati dai lavoratori senza permesso attraverso i cancelli aperti. E sotto un capannone abbiamo fatto la prima assemblea di fabbrica in quella zona.
In quel periodo in un'altra azienda della zona, la Stefana Antonio, un'altra ferriera, si fecero i primi picchetti. Allora i picchetti erano pesanti e il padrone aveva chiamato un pugile, che era loro parente, per fare paura ai lavoratori. Ma la gente che partecipava al picchetto era numerosa e decisa e il picchetto non ha ceduto.
In quel periodo nella zona gli industriali avevano pagato gruppi di fascisti che arrivavano in zona e affiggevano cartelli contro i lavoratori, contro le nostre lotte e noi pian piano andavamo a strapparli. Era un clima pesantissimo. Nella zona faceva campagna elettorale Almirante, che veniva finanziato dagli industriali. In tutta la zona c'è stata una spinta di questo tipo per bloccare le nostre iniziative, il movimento, le manifestazioni. C'era una tipografia che stampava i volantini per i fascisti e che aveva collegamento con il gruppo della Fenice. Anche questo padrone aveva dato un pugno ad un delegato e lo aveva mandato all'ospedale. Dopo quel fatto venne organizzato uno sciopero di zona contro la violenza e contro il sostegno degli industriali ai fascisti.
Quello è stato un periodo di lotte pesantissime perché gli industriali di Nave erano stati abituati a non avere nessuno all'interno delle loro aziende e fare tutto quello che volevano e conseguentemente c'è stato una sorta di blocco nei nostri confronti. Alla Stefana, nei primi anni ’70, abbiamo fatto vertenze aziendali con quasi 300 ore di sciopero. Poi la situazione si è risolta pian piano con risultati abbastanza positivi.
Abbiamo raggiunto degli obiettivi senza un’ora di sciopero: mensa, tempi e pause, vestiario, cottimi. “La loro cultura era il padrone sono io e voi accettate ciò che decido, altrimenti fuori dalle scatole, poi un po’ hanno capito e un po’ li abbiamo educati”.

Con le nostre battaglie abbiamo modificato l'ambiente di lavoro, portando in azienda dei giudici del lavoro per eliminare i rischi, per fare mettere delle protezioni, anche perché gli infortuni erano sempre molto gravi. Ci sono stati numerosi morti alla Stefana in quegli anni, c’era il problema delle malattie professionali, delle sordità. Ho fatto più di duecento cause e le abbiamo vinte tutte. Le facevo io perché facevo parte della commissione ambiente. In Tribunale ormai mi conoscevano e il giudice un giorno mi disse che potevo fare a meno di giurare visto le tante volte che l’avevo fatto. Come mi presentavo in Tribunale, la segretaria sapeva a memoria il mio nome, il mio indirizzo e tutti i miei dati. Si dovevano fare le cause perché l’Inail non riconosceva il rischio professionale per i lavoratori dei laminatoi, mentre lo riconosceva per l’acciaieria. Il problema era il rumore, che nel laminatoio era forse meno forte ma continuo, mentre in acciaieria era più forte, ma con dei periodi di pausa. Nell’acciaieria il rumore era fortissimo quando c’era la fusione degli elettrodi. A metà degli anni ‘80 ci fu anche un’indagine dell’Asl.      
Quando Lama era vicepresidente della Camera e presidente della Commissione ambiente era venuto anche alla Stefana Fratelli per una loro inchiesta.

C’era anche il problema dei baraccati. Siccome avevano bisogno di operai li avevano fatti arrivare dal sud ma poi avevano cercato di sfrattarli.

Ho partecipato alla formazione di una lista per le elezioni amministrative nel comune di Nave, ma dovevo fare una scelta perché ero nel direttivo della Fim e allora ho deciso di non candidarmi, pur essendomi impegnato per la sua formazione. Si chiamava Alternativa Popolare e aveva preso un seggio a metà degli anni ’70.
Prima di entrare attivamente nel sindacato ero impegnato nell’oratorio. Non sono sposato. “Ho sposato il sindacato”. In paese molti non vedevano di buon occhio il mio impegno nel sindacato e qualcuno ha cercato anche di contrastarmi. Mi etichettavano come comunista, anche se andavo in chiesa ed ero vicino al mondo cattolico. Anzi, ritenevo che fosse proprio dal messaggi evangelico che trovavo la spinta per il mio impegno.

A Nave abbiamo dato vita a un consiglio di zona dei metalmeccanici e anche intercategoriale. E’ stata un’esperienza positiva, durata per alcuni anni e ne ha fatto parte per un certo periodo anche l’attuale sindaco di Brescia Corsini, che era insegnante a Nave. C’era la figlia di Gitti, che fu il primo segretario della Cisl di Brescia, anche lei insegnante.
Nel consiglio di zona interconfederale si discuteva delle 150 ore, dei problemi del territorio, si tenevano i collegamenti con il Comune. Si stabilì un rapporto con l’Università di medicina che organizzò degli incontri con gli studenti di medicina del lavoro.
In zona c’era anche un’esperienza di preti operai, alla Comini e alla Busseni. Venne anche la Rai, per fare un servizio su di loro per il programma “Turno C”, anche se poi la mia intervista venne censurata. Uno di questi è andato missionario in Brasile e l’altro ha realizzato la comunità di recupero dei tossicodipendenti “Il Calabrone” di Brescia.
Queste persone, che erano culturalmente più preparate, ci aiutavano ad andare avanti nei momenti più difficili del nostro impegno sindacale. Perché c’erano situazioni in cui ci si sentiva tra l’incudine e il martello. Non c’era solo il padrone che ti contrastava, ma anche gli operai a volte si lamentavano perché gli scioperi erano molti, le vertenze si protraevano nel tempo. Per qualcuno la famiglia pesava e per chi aveva più figli gli scioperi incidevano sulla busta paga in modo significativo. Il padrone cercava di approfittare di queste difficoltà, diffondendo anche dei volantini e tentando con tutti i mezzi di far fallire la nostra iniziativa sputtanando il sindacato e i delegati: “Loro se la spassano mentre voi siete costretti a fare sacrifici”.

Andato in pensione mi sono impegnato con i pensionati, faccio l’agente sociale con patronato e caf in zona. Mi conoscono tutti, mi fermano per strada.
Ho un po’ di nostalgia della mia fabbrica. Sento raramente i miei ex compagni di lavoro. Ma qualche tempo fa, in occasione di una vertenza aziendale mi sono fermato davanti alla portineria a scambiare quattro chiacchiere con alcuni operai e mi sono reso conto che in quindici anni l’azienda ha cambiato faccia e non conosco quasi più nessuno. Sono passato lì davanti ed ho sentito come una calamita che mi attraeva verso quel cancello.

Nelle vicende della Fim mi sono schierato con Castrezzati.
Ho partecipato al congresso di scioglimento della Fim al teatro San Babila di Milano. In quei giorni era stato ucciso il commissario Calabresi e c’era il suo funerale e ci avevano consigliato di stare sempre in gruppo perché il clima era pesante.
Ero presente in Piazza della Loggia il giorno dell’attentato. Ero a pochi metri dal luogo dell’esplosione e ho visto il mucchio delle persone a terra. Pochi attimi prima ero passato proprio davanti al cestino dove c’era la bomba. A mio giudizio era telecomandata. Mi ricordo, Castrezzati stava dicendo “Almirante vive e vegeta nel Parlamento” e in quel preciso momento c’è stata l’esplosione. Ho cercato di aiutare le persone ferite, coperte di sangue, alcune le abbiamo accompagnate a delle automobili per portarle in ospedale. Poi sono tornato in fabbrica dove abbiamo organizzato un’assemblea aperta ed è venuto il segretario della Cisl Gavioli.