Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Gli anni caldi dei metalmeccanici bresciani”, di Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma 2005
Sono nato a Palazzolo il
23.10.1946 e vivo ancora lì. Dopo i tre anni di avviamento ho frequentato la
scuola professionale triennale diurno per disegnatore meccanico. Ho iniziato a
lavorare un anno prima del servizio militare in un ufficio tecnico privato. Subito
dopo il servizio militare sono entrato in Lanfranchi. Lanfranchi produce
cerniere lampo. E’ una delle maggiori in Italia ed è titolare del marchio
“Lampo”. Mia sorella era impiegata in ufficio nella stessa azienda e ha chiesto
al principale se c’era un posto per suo fratello. Il giorno successivo al
ritorno dalla caserma sono entrato in fabbrica.
Mi hanno portato su in ufficio
tecnico dal capo, un signore di Pontoglio, e ho cominciato subito a lavorare.
Sono stato assunto come impiegato e ho sempre lavorato nell’ufficio tecnico.
Era un settore che stava nascendo in quel periodo, era all’inizio e non c’erano
disegni di progetto, noi dovevamo trasferire su disegno pezzi e piccoli
macchinari costruiti da un piccolo nucleo di meccanici provetti che attraverso
più tentativi riuscivano a realizzare le nuove apparecchiature utili alla
produzione. Queste attrezzature servivano essenzialmente a sostituire il lavoro
manuale.
Non esistono quasi fabbriche
che costruiscono attrezzature per produrre cerniere, ogni produttore realizza
in proprio le attrezzature che gli servono. Le uniche macchine acquistate
all’esterno sono quelle per la produzione dei dentini, ma il montaggio e le
altre lavorazioni sono prodotte con tecnologie interne.
Come ufficio tecnico non
avevamo un ruolo fondamentale per lo sviluppo della produzione, la nostra era
una funzione di supporto per meccanizzare produzioni già esistenti.
In azienda, al momento del
mio ingresso, lavoravano circa 500 persone e oggi sono quasi 300. Non abbiamo
vissuto grandi processi di ristrutturazione ne crisi particolari, ma
l’evoluzione delle tecnologie ha portato ad una naturale riduzione del
personale. Quando si meccanizzavano certe lavorazioni in un reparto si riduceva
il numero degli addetti, in particolare le donne, queste venivano passate a
fare dei lavori manuali. Non ci sono state espulsioni, anche se l’azienda ha
sempre patito la ciclicità del lavoro. Un tempo si compensava con il ricorso
alla cassa integrazione ordinaria, ma ora sono state introdotte la banca ore e
una serie di flessibilità concordate, e oggi le modalità produttive
ammortizzano e tendono a smorzare la ciclicità dei mercati.
I primi processi di
innovazione hanno riguardato la meccanizzazione delle produzioni, poi si è
passati a organizzare e automatizzare fortemente la movimentazione dei
"cestini" e dei "bidoni" per rincorrere la tecnologia
giapponese. In quel periodo si è cercato di contrastare la concorrenza di Tokio
e molte aziende italiane sono saltate. Poi c’è stato un cambiamento di strategia
puntando sulla qualità delle produzioni e si è deciso di seguire solo l’alta
moda, le grandi firme: clienti come Prada, Gucci, Fendi, lasciando ai
giapponesi le quantità. "Il titolare ha detto che non serve più fare un
milione di cerniere, ma fare la cerniera da un milione".
L’azienda è una Spa ma a
gestione familiare.
Quando sono entrato gli
impiegati non facevano sciopero, ma gli operai si. I primi cambiamenti sono avvenuti in occasione dell’autunno
caldo, quando c’è stata una rottura negli impiegati tra il ramo tecnico e gli
altri. I tecnici e qualche capo meccanica hanno iniziato a partecipare agli
scioperi. Io ho subito aderito, anche perché avevo già maturato una mia
sensibilità sociale partecipando a dei movimenti giovanili sorti nell’ambiente
dell’oratorio.
In ufficio tecnico qualcuno
voleva fare la tessera della Fiom e altri quella della Fim. Mentre ne
discutevamo è venuto in ufficio un delegato della Uilm che ci ha proposto di
fare tutti quella della Uilm e abbiamo fatto così. Quando partecipavamo alle
prime assemblee noi ci mettevamo un po’ in disparte e gli operai ci guardavano
con una certa diffidenza. Era una manodopera fortemente femminile, ci
accettavano, ma senza tanta convinzione.
In occasione dell’elezione
del primo consiglio di fabbrica hanno proposto il mio nome e sono stato eletto
in rappresentanza degli impiegati tecnici, poi c’era un rappresentante degli
impiegati amministrativi. Io non ero per nulla convinto e non pensavo di
impegnarmi più di tanto nel sindacato. Alla prima riunione del consiglio di
fabbrica ci sono andato per dire che mi sarei ritirato. Alla riunione c’era un
operaio, Giuseppe Turra, la persona che aveva creato il sindacato alla
Lanfranchi. Era il leader del sindacato in fabbrica e tutti quanti pendevano un
po’ dalle sue labbra. Era un uomo Cisl. Un duro. Quando sono arrivato mi ha
detto: ci servirebbe una persona per fare i cartelloni da mettere in bacheca,
magari qualche relazione, mi piacerebbe che tu ci dessi una mano e poi sarebbe
il caso che qualche impiegato si impegnasse. Io non ho saputo dire di no e ho
cominciato a partecipare agli incontri del consiglio di fabbrica con
regolarità. Ma all’inizio gli altri mi guardavano sempre con una certa
diffidenza. Sono andato avanti così per circa due anni, fino a quando si è
aperta una vertenza aziendale sull’anticipo della casa integrazione e altre
questioni. Dopo un incontro con la proprietà mi sono rivolto a Turra e gli ho
detto che secondo me non aveva argomentato bene le nostre ragioni. A quel punto
Turra organizza un altro incontro con l’azienda e ha chiesto a me di esporre le
nostre richieste. Al termine della riunione, il dirigente, che era un cognato
dei Lanfranchi, risalì in direzione e dopo un paio d’ore ridiscese da noi
dicendoci che le richieste erano state accolte.
In seguito a questa vicenda
Turra mi disse che da quel momento le trattative con l’azienda le avrei sempre
condotte io. Gli altri delegati hanno accettato questa sua decisione e da quel
momento mi sono trovato in una situazione particolare, quasi di privilegio. Dal
canto loro anche gli operai hanno accettato questa scelta. La prima firma su
una trattativa l’ho messa nel 1974 e nel 1975 ho firmato per la prima volta un
accordo integrativo.
Turra aveva due donne che lo
sostenevano tra gli operai: una era sua sorella e l’altra sua cognata, che si
davano da fare per organizzare il consenso sulle sue scelte tra le donne. Lui
non voleva nemmeno sentire parlare di preti, mentre la sorella era sempre in
chiesa, ma evidentemente in azienda erano ascoltati. Quando è morto, nel
95, sua sorella mi ha dato i suoi
appunti sul suo impegno sindacale e io scritto un epitaffio in ricordo della
sua figura.
Non abbiamo mai avuto grandi
scontri con la Fiom, anche perché la Fiom ha sempre accettato una certa
supremazia della Fim essendo sempre stati il doppio di loro. Questo sia prima
che dopo la Flm. Il rapporto con le donne era molto fideistico, partecipavano
agli scioperi ma non facevano grande differenza tra Fim e Fiom, ma la maggior
parte aveva fiducia in Turra. Gli uomini erano più difficili. Gli impiegati una
volta facevano sciopero e l’altra no, anche se poi quelli che erano sempre
arrabbiati con il padrone erano più gli impiegati che gli operai.
Un momento di difficoltà con
la Fiom l’abbiamo avuto quando un giornalista aveva scritto che non era giusto
che un democristiano fosse a capo di un consiglio di fabbrica così importante.
Questo giornalista era Maurizio Belpietro che allora era a Brescia Oggi ed era
di sinistra (vedi ritagli di giornali). Ci accusava di essere moderati ma in
quell’occasione, in una situazione non facile, nell’80, '81siamo riusciti a
portare a casa dei miglioramenti.
Un secondo momento di
difficoltà nei rapporti sindacali l’abbiamo avuto nel 2003, quando la Fim
nazionale ha fatto un accordo separato con Federmeccanica, anche perché non
riuscivo a comunicare con i lavoratori, dato che la Fiom aveva una cassa di
risonanza fortissima su giornali e televisione. Allora ho fatto un volantino a
titolo personale, scritto in modo che le donne capissero.
Palazzolo è un po’ terra di
confine e le vicende bresciane arrivavano un po’ attutite. In occasione delle
vicende dell’accordo di San Valentino e del referendum ci furono assemblee in
fabbrica con la partecipazione degli operatori sindacali, ma le donne non
davano molto peso alle vicende di carattere generale, forse qualcuno nemmeno le
capiva. Era normale sentire dire: sui temi nazionali lasciamo fare a loro e poi
in azienda facciamo come vogliamo noi.
Dal '70 al '90 abbiamo fatto
sette contratti aziendali e attraverso la contrattazione aziendale degli anni
successivi all’accordo del luglio ’93, con l’introduzione del salario variabile
legato alla produttività e ai risultati, siamo sempre riusciti ad ottenere
buone integrazioni salariali, premi e altro e questo era ciò che più apprezzano
i lavoratori della Lanfranchi. Questo vuol dire anche che l’azione sindacale in
fabbrica aveva ottenuto buoni risultati e il consiglio di fabbrica aveva
lavorato bene.
Nel '96 abbiamo fatto un
contratto sulla banca a ore per abbattere la ciclicità che ha consentito di
reggere una certa flessibilità del mercato e questo ci ha permesso di evitare ripercussioni pesanti sui lavoratori.
Ci sono stati contratti
aziendali conclusi con applausi finali dei lavoratori, che facevano sempre
piacere, e ci sono stati altri momenti in cui ci dicevano "ma che cosa
avete fatto?".
In azienda non abbiamo mai
avuto problemi di violenza, ma c’era un delegato che diceva che le Brigate
rosse erano vicine ai lavoratori, che non erano delinquenti, era un ragazzo
giovane. L’abbiamo richiamato dicendogli di non venire più a fare certe
affermazioni. Quando è scoppiata la bomba in Piazza della Loggia, lui era lì,
io ero a casa perché era la mattina che tornava a casa mia moglie dall’ospedale
che era appena nato mio figlio.
Ho sempre partecipato ai
percorsi formativi della Fim. Ho sempre lavorato in rapporto con la segreteria
provinciale, perché quando hai un certo numero di tessere il telefono con la
segreteria è diretto e hai sempre le risposte che ti servono. Mi confrontavo
sempre con la segreteria e non è che facessi a modo mio, la Fim era sempre al
corrente della situazione in azienda, ancor prima che le cose succedessero.
Questo perché Lanfranchi è il padrone di una volta. Quando prendono una decisione
non tornano indietro. Nella mia situazione di impiegato che aveva contatti con
i livelli dirigenziali, riuscivo ad avere informazioni di prima mano e riuscivo
a condizionare certe scelte, era importante conoscere le situazioni e avere la
possibilità di intervenire prima che le decisioni venissero prese. Certo quando
serviva si faceva sciopero e si andava sui cancelli senza problemi.
Personalmente, dal punto di vista sindacale, mi realizzavo più nella trattativa
che nella lotta. La lotta serviva quando la trattativa si fermava e si doveva
smuoverla. Io ho proseguito l’esperienza del Turra, ma in un modo più
democratico, meno da boss. Nessuno osava contestarlo in assemblea e anch’io per certi versi ho proseguito lungo
la strada che lui aveva aperto e in qualche modo potevo gestire le trattative
come piaceva a me.
Non ho mai avuto impegni
politici diretti. Oggi sono iscritto alla Margherita. Negli anni scorsi più
volte mi hanno proposto di andare in lista, ma facendo parte del direttivo
provinciale della Fim c’era l’incompatibilità e ho sempre scelto il sindacato.
Anche perché la politica sindacale è più immediata e io la preferisco.
Oggi la gente ha bisogno di
servizi. Chiari è il centro zona dell’Inas. Io esco dalla fabbrica in permesso
sindacale con tutte le pratiche dei lavoratori dell’azienda e le porto
all’operatore zona. In questo modo riesco a dare risposte a tutte le richieste
che ci sono in azienda senza che i lavoratori siano costretti a muoversi.
Questo è molto apprezzato e la gente gradisce molto avere risposte precise sui
propri problemi personali.
Quando andrò in pensione
penso che continuerò ad impegnarmi in questo ambito.
Sono presidente del gruppo
sportivo di calcio dell’oratorio.
Mia moglie non mi ha mai
contrastato nei miei impegni. Lei ha i suoi giri, il suo mondo e non ci sono
mai stati problemi particolari. E’ una casalinga convinta.