Trascrizione testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Lo sciopero di Giacomo. Un secolo di solidarietà operaia a Lecco e nel suo territorio”, di Costantino Corbari, Periplo Edizioni, Lecco, 1995
Sono nato a Lecco il 29.7.1929. Ho cominciato a lavorare a 10 anni in una fabbrichetta di Lecco, anche con lavoro a domicilio, e poi nel 1945 sono entrato in una piccola azienda, sempre a Lecco, al Seminario, prendendo il posto di mio fratello che era morto in guerra. Ho il titolo di studio di 5^ elementare. Si producevano macchine per fare candele. L'unica che c'era in alta Italia. Un bellissimo lavoro. Il principale di questa fabbrica era uno dei caporioni fascisti di Lecco, ma un brav'uomo. Era uno che faceva lavorare, a cui piaceva lavorare, ma aveva anche la passione del gioco delle carte. Aspettava che arrivasse l'orario per cambiarsi e correre a giocare al bar a giocare. Non voleva che ci si fermasse a fare gli straordinari, anzi, per lui otto ore erano già troppe.
Nel 1954 Pio Galli e Giovanni Riva mi chiesero di venire a lavorare alla Camera del Lavoro, perché allora erano tempi difficili per il sindacato e per alcuni dei pochi sindacalisti che c'erano bisognava trovare un posto per fargli avere uno stipendio. Al primo momento gli ho risposto se erano matti, ma poi ho accettato. A quei tempi non c'erano i distacchi sindacali retribuiti, c'era però la possibilità di uscire dalla fabbrica per un periodo breve, in permesso non retribuito. Mi dissero di chiedere questo permesso in fabbrica e se ci fossero stati problemi sarebbero venuti loro. Ma il mio principale acconsentì e mi diede due mesi di permesso, che allora erano tanti. Era il novembre del 1954. In fabbrica prendevo mediamente 39mila lire al mese. Andando al sindacato mi avevano promesso che mi avrebbero dato 33mila lire al mese, perché non si poteva di più. Io quelle 33mila lire non le ho mai viste. In quel periodo mio fratello minore stava facendo il militare, mio padre lavorava in una fabbrichetta, che era appena tornato a casa dalla Cecoslovacchia perché lavorava a Broni e lì prendeva quel che prendeva. Era una situazione veramente insostenibile. I miei genitori si lamentavano un po’, però si trattava solo di due mesi e quindi andai avanti. Alla fine del permesso sono rientrato in fabbrica ma alla Cgil mi dissero che avrei dovuto uscire ancora. Era la fine di febbraio del '55 e uscii ancora per altri due mesi. Allora la Fiom di Lecco curava anche i metalmeccanici di Como, mentre i tessili erano curati da Como anche per Lecco. In quel periodo scoppia lo sciopero alla Falck di Dongo. Segretario nazionale della Fiom era Roveda e a Lecco era Pio Galli. Lo sciopero era duro e allora Roveda arriva a Lecco per parlare con Pio Galli e andare insieme su a Dongo. Io pensavo che in un giorno sarebbero andati e tornati. Allora il mezzo di trasporto era il Guzzino, il famoso 65. Roveda era un omone di 90 chili e vederli partire sul quel Guzzino, con Pio Galli alla guida fu una comica. Passano i giorni e questi non ritornano più. Io il primo di marzo dovevo rientrare in fabbrica a lavorare e non sapevo che fare. Se il mio padrone si stufa e mi lascia senza posto, in quei tempi erano guai, nessuno mi avrebbe dato un nuovo lavoro. Allora c'era in ufficio una ragazza, la Luigina, e le dissi: “se stasera questi non arrivano, io domattina rientro in fabbrica”. E' vero che allora l'ideale era tanto, però bisognava pensare anche ai soldi di fine mese, alla famiglia. Anche lei mi dice: “si, si ti conviene rientrare”. E così feci. A quel punto per me la vicenda sindacale era chiusa definitivamente.
Passa una settimana, vedo che si apre il portone della ditta ed entrano Pio Galli e Giovanni Riva, due partigiani che, tra l'altro, avevano avuto modo di far passare qualche brutto momento al mio principale. Entrano nello sgabuzzino che faceva da ufficio. Io lavoravo, ma attraverso la vetrata seguivo tutta la discussione, anche se non sentivo niente. Mi chiedevo che cosa stesse succedendo e pensavo addirittura di aver fatto qualcosa di male, qualche errore. Ad un certo punto il mio principale esce dallo sgabuzzino e mi manda a chiamare. "Ti vogliono parlare" mi dice. "Devi uscire ancora, devi venire al sindacato a lavorare" dicono loro. "Ma voi siete matti, io non vengo più" reagisco io. Eppoi se non sono capace cosa faccio? Rimango senza lavoro. No, il tuo principale ti da ancora tre mesi di permesso. Sarà stata la paura provata alla fine della guerra, mi ha dato altri tre mesi e io sono uscito di nuovo. Però questa è l'ultima volta, succeda quel che succeda. Da allora non sono più rientrato in fabbrica.
Ma il mio principale, prima che me ne andassi per sempre mi disse: "Ricordati che prima di te anch'io sognavo, anch'io credevo in certe cose. Poi hai visto che fine abbiamo fatto. Cerca anche tu non fare la medesima fine. Io ti dico solo un cosa. Se vuoi andare vai. Va, io ti capisco, ma non farti illusioni".
Era un uomo con una grande bontà d'animo, nonostante la sua idea e il suo passato fascista, anche se non aveva mai compiuto nulla di particolare.
Nella mia azienda, dopo la guerra, iniziai subito a fare l'attivista sindacale, iscrivendo tutti i 15 lavoratori alla Cgil, poi soprattutto aiutavo molto le altre piccole fabbriche della zona, raccogliendo i soldi delle tessere ogni mese e li portavo alla Camera del Lavoro. Ho lavorato in quella fabbrica fino al 1954.
Quando nel 1953 tutta la commissione interna del Caleotto Arlenico venne buttata fuori, allora alla mattina andavamo ad aiutare a fare i picchettaggi per sostenere lo sciopero che ne seguì. Aiutammo quelli della Faini.
Nel 1953, mi chiamò Pio Galli, che allora era il segretario della Fiom di Lecco, per creare una specie di commissione giovanile dei metalmeccanici nell'ambito della Fiom di Lecco, rimanendo in fabbrica a lavorare e con un impegno serale. Come prima attività, presi contatto con le Acli e la Cisl per organizzare insieme una conferenza sull'apprendistato perché si stava preparando la legge che doveva regolamentare il lavoro degli apprendisti. Lavoravo con Redaelli della Fgci, con Tacconi dei giovani socialisti, Spreafico dei giovani delle Acli, della Cisl, con l'idea di mettere insieme una specie di fronte unitario dei giovani per dire la nostra su questo problema. Quelli della Cisl mi dicevano di si, che la cosa andava bene. Stavamo già per fare i manifesti e convocare un'assemblea, quando il rapporto si interrompe: Aspetta un po’, ci dicevano. Dobbiamo ancora vedere bene la questione. Insomma, un sacco di balle, per tirare alla lunga. Una bella sera, camminando per strada mi vedo dei manifesti sui muri che annunciavano un convegno della Cisl sull'apprendistato con l'allora ministro del lavoro, Rubinacci, che veniva a spiegare la proposta di legge. Così la nostra inesperienza, la nostra non furbizia, era stata castrata da questo gioco e così è finito tutto.
Nessuno aveva una organizzazione dei giovani come quella che tentammo di costruire noi. Questa fu un'idea di Pio Galli, perché secondo me c'era l'esigenza di creare nuovi quadri, che dovevano prendere il posto di quelli che lasciavano. Allora il sindacato era guidato da quadri che avevano fatto la resistenza, mentre in quegli anni cominciava ad emergere la necessità di cambiare. Senza dimenticare che le difficoltà e la mancanza di quattrini aveva portato molti di questi a trovare un posto in fabbrica, pur di poter mantenere la loro famiglia, perché erano sposati, avevano figli. Quelli che rimanevano era perché avevano un grande ideale o perché avevano qualcuno in casa che lavorava, altrimenti non si poteva andare avanti. Da qui l'idea della commissione giovanile, per far crescere qualche quadro.
La commissione si occupò solo del lavoro giovanile, dell'apprendistato. Non c'era tempo per occuparsi d'altro. I giovani allora avevano il problema del lavoro, dello sfruttamento, delle paghe troppo basse. L'obiettivo era quello di dare per la prima volta una tutela ai giovani, un minimo di rapporto normativo, dei diritti che non avevano mai avuto.
Nel 1948 a Lecco la rottura non portò a grossi conflitti tra lavoratori. Tant'è che noi pensavamo che essendo dovuta a cause politiche, si sarebbe poi ricomposta rapidamente. La forza morale della Cgil era tale che pensavamo che nessuno sarebbe uscito, come invece avvenne. In effetti molti cattolici rimasero nella Cgil. Ne ritrovai molti, negli anni successivi, soprattutto nel settore tessile, nelle zone di Barzanò, Nibionno, Cucciago. Cattolici ferventi, segretari delle Acli, i quali guai per la Cgil, la difendevano e non l'avrebbero mai lasciata. C'era una situazione talmente ovattata, costruita su una esperienza di lavoro comune che mai più si pensava che sarebbe stato possibile arrivare a questa divisione. Questo era il clima tra i lavoratori.
Tra i dirigenti le cose erano un po’ diverse. Ricordo che dopo il lavoro venivo alla Camera del Lavoro e sentivo quando Pio Galli parlava con il segretario della Firn, più che polemiche non erano. La Cisl ci accusa che noi prendevamo i soldi dalla Russia, che avevamo i soldi da Dongo, mentre avevamo i compagni come Pio Galli e molti altri che andavano a casa senza stipendio. Sentire dire queste cose a gente che era in miseria ti giravano... Quindi col passare del tempo gli animi si erano più esasperati.
Segretario della Fiom dal ‘62 fino al ‘74, da allora segretario della Camera del lavoro fino all'81.
Dopo diversi anni di lavoro anche nel sindacato dei pensionati, adesso finalmente sono in pensione. In pratica ho lavorato 50 anni. Facendo il sindacalista hai una dimensione diversa della vita. Oggi è tutto diverso, adesso in pratica quando diventi sindacalista diventi un burocrate, quasi un impiegato statale. Era un impegno che ti prendeva totalmente. Eri lì dentro e non vedevi più nient'altro, non capivi più nient'altro, non sapevi che cos'era la vita vera. Solo ora, andando definitivamente in pensione lo scorso anno, ho capito che cos'è la vita vera. Prima che cosa conoscevo di un pensionato? Quali dovevano essere i suoi diritti, come affrontare i suoi problemi, come migliorare la sua condizione, ecc., ecc.. Quella parte lì. Ma la vita? Adesso comincio a viverla per me e aiuto anche gli altri a capirlo più bene. Però è una cosa che capisci quando non hai più niente da fare. Tutti mi dicono, ma come fai a passare il tempo adesso che sei a casa? Ma figurati. A volte mi arriva sera che non sono ancora riuscito a leggere il giornale. Una cosa da fare e l'altra. Gli amici con cui fermarsi a parlare. Qualcuno che ti chiede una cosa. Un impegno di qui. Fare una camminata sulle nostre montagne lecchesi. Una cosa bellissima. E' stata una riscoperta della vita, come si può vivere una vita più tranquilla. Senza però nessun rimpianto per quello che ho fatto, anzi. Questo lavoro mi ha arricchito in un modo meraviglioso.
Forse è per quello che capisco meglio cosa è il lavoro ma cosa è anche la vita vera, vissuta in un altro modo. Non rimpiango niente, tutt'altro. Sono contento di quello che ho fatto. Sono entrato con un gran fifa perché non sapevo se sarei stato in grado di riuscire in questo impegno.
Vertenza Guzzi. La prima vertenza lunga alla Guzzi era dovuta al processo di ristrutturazione avviato intorno agli anni ‘72 che prevedeva una riduzione della manodopera. Questo in occasione dell'uscita dalla gestione della famiglia Parodi, con il passaggio della gestione ai nuovi manager. Prima cosa riduzione dell'orario e alimento dell'attività produttiva, che noi chiamavamo aumento dello sfruttamento.
Seconda vertenza, 1976 (?). In occasione dell'intervento di De Tommaso. Argentino, con una boria che non finiva più. Chiede anche lui un taglio del personale e diverse altre cose. Si apre la vertenza, ma lui non vuole in alcun modo trattare con il sindacato. Il sindacato usciva allora da un periodo esaltante come il ciclo di lotte del '69/'70. Si comincia con un paio di incontri all'Unione industriali di Lecco. Il dott. Iori, direttore dell'Unione, era una persona seria, e c'era una stima reciproca. Non si conclude niente. Tante storie ma la sostanza era che lui in fabbrica voleva comandare e fare quello che voleva. Non si sapeva nemmeno con che capitali fosse venuto. Poi si scoprì che era venuto per prendere i soldi della Gepi, senza capitali suoi, mentre lui faceva intendere che era venuto in Italia con i capitali della Ford. Allora iniziarono gli scioperi per chiedere l'incontro e poter aprire una trattativa. Dopo un po’ di tempo, con gli scioperi che andavano bene, finalmente viene a trattare. Ci prende a pesci in faccia. Cosa volete voi sindacato, io non vi do niente. A Lecco non eravamo certo abituati a questo atteggiamento. In tutte le vertenze, anche con scioperi, alla fine si trovava sempre una soluzione.
Si riprende con lo sciopero. Ma non si viene a capo di niente. Gli operai cominciano ad arrabbiarsi. Si decide allora di chiedere l'intervento del prefetto. Questi convoca le parti a Como e inizia la trattativa alla sua presenza. Noi sindacalisti abbiamo detto ai lavoratori, appena c'è qualche novità vi telefoniamo. In trattativa c'eravamo io per la Fiom, Gilardi per la Fim, Edalini per la Camera del lavoro e Nardini per la Cisl, e tutto il consiglio di fabbrica. Ma passa la mattinata, passa il pomeriggio e non arriva nessuna notizia. Ad un certo punto De Tommaso si alza e dice basta e ci da del fascista. Lui che si comportava da fascista, che veniva da un paese dove c'era la dittatura dei generali, dava a noi italiani del fascista. Io non ci ho più visto.
Il prefetto era capo tavola. Ad un certo punto, io che stavo seduto di fronte a De Tommaso, mi sono alzato in piedi e gliene ho dette un sacco minacciandolo che, se non avesse ritirato quello che aveva detto, se non si rimangiava la parola fascista, perché lui era un fascista, perché io avevo avuto un fratello morto in guerra, l'avrei buttato giù dalla finestra. Il dott. Iorio, che aveva capito che la cosa stava degenerando, chiese la sospensiva e lo portò fuori. Nel frattempo io dico al prefetto che noi avremmo ripreso solo se De Tommaso sarebbe venuto a chiedere scusa perché noi con quella gentaglia non abbiamo niente a che fare. Che noi la libertà l'avevamo conquistata contro il fascismo e non loro, che avevano una dittatura. Dopo un po’ di tempo si riprende e De Tommaso fa chiedere scusa al dott. Iorio, anche se io le pretendevo da lui. Comunque si riprende, ma appena si entra nel merito delle questioni comincia a dire di no. Allora cosa siamo qui a fare, diciamo noi. Il segretario della Camera del Lavoro, Edalini, si alza picchia un pugno sul tavolo. Il prefetto, nel timore che riprendesse il litigio, si alza in piedi anche lui e comincia a urlare: basta, basta. Sul più bello, forse per l'agitazione, si stacca la dentiera e gli cade in gola, rischiando di soffocarlo. Fortunatamente ebbi il sangue freddo di intervenire subito. Mi alzai di scatto e gli diedi due manate sulla schiena facendogli sputare la dentiera.
Il prefetto veniva da Trieste, adesso è morto, era grande, un bell'uomo. Alla fine di tutta la vertenza, quando ci salutammo mi offrì una bottiglia di Barolo. Il prefetto, in quei momenti!
Intanto erano quasi le quattro. Arriva una telefonata. Gli operai sono usciti dalla fabbrica e hanno occupato le strade. Questi, infatti, non avendo avuto notizie e vedendo che le cose andavano per le lunghe, avevano deciso di muoversi. Adesso basta, perché siamo stufi. Presi degli alberi abbattuti da un violento temporale li hanno messi in mezzo alle strade, di modo che non passava più nessuno. Disgrazia vuole che in coincidenza a quello un camion della Norda su in Valsassina si capovolge, bloccando anche la Valsassina. Quindi non c'erano più collegamenti con la Valtellina, ne per andare ne per tornare. Interrompiamo la trattativa e corriamo verso Mandello. Arrivati a Lecco, già non si passava più perché la colonna ormai si era allungata bloccando tutto. Incontriamo il sindaco, prof. Sforza, e insieme in macchina riusciamo ad arrivare ad Abadia. Lì siamo costretti a lasciare la macchina e ci incamminiamo a piedi verso Mandello.
Suggerii al sindaco di fare un'ordinanza di sequestro della fabbrica, perché in quel modo avremmo convinto gli operai a rientrare in fabbrica e lasciare i blocchi stradali. Appena arrivati ci fu un momento di terrore per la reazione dei camionisti bloccati. C'era il rischio di scontro tra camionisti da un lato e operai dell'altro. Sarebbe stato un macello. Allora Nardini andò con il sindaco al municipio. Gli operai non volevano credere che avrebbe firmato un'ordinanza di sequestro. Allora dissi, andate la, occupate il municipio se volete, fate quello che volete ma aspettate che si faccia la delibera e venite qui con la delibera.
Il sindaco, però, sentito il prefetto o altri e preoccupato delle conseguenze, comincia a tremare e dice che non può fare la delibera. A quel punto cominciai a urlare con gli operai, a prendere uno per uno i componenti del consiglio di fabbrica, gli attivisti a dirgli di rientrare, di abbandonare il blocco. "Non capite cosa sta succedendo, così facciamo il gioco dell'avversario". Come accadde non lo so. So che con l'aiuto di altri, riuscii a convincerli, a togliere il blocco e a rientrare in fabbrica. Se avessimo tardato ancora mezzora, non so cosa sarebbe potuto accadere. Quella fu una delle vicende più drammatiche che ho vissuto qui a Lecco.
Gli operai, lasciate le strade, allora decidono di occupare la fabbrica. De Tommaso, però, decide la chiusura dei cancelli. Dentro c'erano le guardie armate che hanno l'ordine di non far entrare nessuno. Il consiglio dì fabbrica va a parlare con loro, ma non ottiene nulla. In questa situazione il clima cominciava a diventare pesante e c'era il timore che potesse andare a finire male. Da un lato li salvo dagli autisti, ma la fabbrica è chiusa, come fanno ad entrare? Adesso qui succede ancora un casino per irresponsabilità di De Tommaso. Come si fa a non capire queste cose? Forse voleva veramente lo scontro. Chiedo allora ad alcuni operai se non c'era un punto nella recinzione dove poter passare. Ma dì punti accessibili non ce ne sono. Fortunatamente, però, tra il cancello e il soffitto c'è uno spazio che consente il passaggio di una persona. Chi salta dentro, chiedo? Tutti hanno un fifa dell'accidenti, perché dentro ci sono le guardie armate. Se avete paura salto dentro io. Due o tre operai mi sollevano sulla cancellata e salto dentro. Mi vengono subito incontro le guardie e mi dicono "Cosa fa lei qui dentro? Abbiamo l'ordine di sparare". "Voi fate quello che volete, ma datemi le chiavi del cancello". In quel momento dietro di me arrivò Gilardi, il segretario della Fim-Cisl. "Aprite i cancelli, dovete aprire. Dite che vi abbiamo rubato le chiavi, date la colpa a noi, ma aprite. Dite quello che volete, ma dobbiamo aprire i cancelli altrimenti succede un macello". Nel frattempo qualcuno aveva trovato una leva e stavano facendo forza sulla serranda per cercare di forzarla. Visto che ormai non c'era più niente da fare, le guardie mi hanno dato le chiavi e abbiamo aperto. Allora tirai un grande sospiro di sollievo.
Dopo questa giornata si arrivò ad un accordo. Ci fu una denuncia nei miei confronti.
Dopo il ‘69 la funzione di azienda leader fu svolta dalla Sae, perché era la più numerosa e perché furono assunti un sacco di giovani, più spigliati, quelli che parlavano durante le riunioni. Mentre gli altri parlavano poco e sempre quelli. Ma non c'era un'azienda meglio dell'altra. Negli ani '70 tutte partecipavano.
Giulio Foi. Domenica mattina ero in ufficio alla Camera del lavoro a preparare la relazione del congresso della Fiom che ci sarebbe stato pochi giorni dopo. Ad un certo punto mi sento chiamare dalla finestra ed erano un paio di funzionari della Fiom che dicono che hanno arrestato Foi in Piazza Cermenate, che era il responsabile del sindacato dei trasporti. Era tato organizzato uno sciopero delle Corriere e a Lecco avevano fatto una specie di blocco. Se passava qualcuno che non era autorizzato o che veniva da fuori, veniva bloccato. Foi era lì con alcuni attivisti a far opera di convincimento per far si che gli autisti lecchesi non partissero e a bloccare gli altri che passavano. Ad un certo punto intervengono i carabinieri, lo prendono e lo portano via. Insieme al compagno Brambilla corro in piazza dove c'erano ancora alcuni attivisti, ma lì non c'è più niente da fare.
Era domenica mattina e non si poteva fare molto.
Mi viene in mente che la Fim-Cisl stava facendo un convegno Palazzo Falck dei suoi attivisti. Segretario era allora Rino Caviglioli. Vado là, l'unico posto dove c'era un po’ di gente. Discutiamo e decidiamo di proclamare lo sciopero generale per il giorno dopo. Ognuno cerca di trovare il segretario della Cisl, che era Paolo Nardini, e dalla Camera del lavoro, che era Voltolini. Voltolini era a Valmadrera. Nel frattempo decidiamo di preparare il volantino in cui dichiariamo lo sciopero generale anche se fino a quel momento lo avevamo deciso solo noi. Vengono con me alla Camera del lavoro anche alcuni autisti che avevano partecipato al blocco e cominciamo a scriverlo. Poi gli autisti, alcuni con i loro pullman, partirono immediatamente a distribuirli dove si potevano trovare delle persone riunite, nei circoli, a casa degli attivisti. Nel frattempo riusciamo a rintracciare Voltolini e Nardini a andiamo dai Carabinieri. Foi era ancora lì. Chiediamo di liberarlo, minacciando lo sciopero generale. Ma i carabinieri non stanno a sentire e lo portano alle carceri di Pescarenico.
Il mattino successivo, alle 9, in piazza Mazzini, nonostante tenessimo di non aver potuto informare tutti, c'è un sacco di gente, mentre arrivano i cortei degli operai dalle diverse fabbriche. Un gruppo di dirigenti sindacali sale ancora a parlare dai Carabinieri, ma questi si rifiutano di dirci dove l'hanno portato. Non so come, ma parlando capimmo che era giù alle carceri di Pescarenico. Allora una marea di gente si mosse verso Pescarenico, davanti al carcere. Si aprì così una trattativa con il direttore del carcere, fin quando dopo una paio d'ore venne rilasciato. Allora lo issarono sulle spalle e lo portarono in corteo fino a Lecco. Foi divenne l'eroe della giornata e della sua liberazione se ne parlò per mesi.
Mentre da un lato fu una cosa eccezionale, dall'altro lato inculcò in alcuni la convinzione che si potesse far tutto, che tutto era possibile. Questo fu alimentato soprattutto dai gruppi extraparlamentari, da un certo estremismo presente tra alcuni lavoratori.
Dopo sei mesi un anno, vennero arrestati Franco Giorgi e Giovenzana del sindacato tessile, arrestati per un litigio davanti ad una fabbrica di Merate, in occasione di uno sciopero, la gente spinge per la dichiarazione dello sciopero generale e perché si vada a liberarli.
Io invitavo alla calma, ma molti ci accusavano di essere dei deboli.
Si fece la manifestazione e venne Pio Galli a tenere il comizio, ma li portammo in Piazza Garibaldi e non più giù alle carceri. Intavolammo delle trattative e facemmo intervenire i nostri avvocati per farli venire fuori e così avvenne. Ma il sindacato venne accusato di essere debole da chi non aveva il senso politico delle cose. Una volta ti va bene, sull'onda della sorpresa, ma una seconda volta non si può ripetere, anche loro si preparano e poi sono guai. Ma quel giorno facemmo fatica a tenerli e facemmo apposta venire Pio Galli, perché temevamo che ci sfuggissero di mano. Ci barcamenammo un po’, però salvammo capra e cavoli.
Una vicenda accaduta a Merate che coinvolge ancora Foi, allora al patronato Inca, e Armando Tavola, allora segretario della zona. Anni '60. Io divento segretario dei tessili. Allora nell'abbigliamento, soprattutto nella zona del padernese, di Verderio Superiore, ecc, spadroneggiava la Cisl con la Liliana Vaisecchi. Segretario di zona della Cisl era Sabadini che aveva tutto sotto di lui. Noi capivamo che c'era un accordo della Cisl con i padroni. Parliamo della Imec e delle altre decine e decine di fabbriche dell'abbigliamento. Noi alla Imec non tentavamo nemmeno di andarci perché sapevamo a priori che non saremmo riusciti ad entrare, cosi come alla Testa di Merate, dove io andai a distribuire i volantini, il minimo che mi hanno fatto le donne, tutte con il grembiule nero, quando uscivano, era sputarmi addosso e non prendere il volantino. Perché la Cgil allora peccato.
In una riunione alla Camera del Lavoro con Pio Galli decidiamo di intervenire con decisione nel settore dell'abbigliamento. Un settore dove lavoravano ragazzine di dodici, tredici anni, quattordici anni, sfruttate senza che nessuno dicesse niente.
Si incaricano Foi e Tavola di fare una indagine per conoscere bene la situazione. Questi andavano al mattino alle quattro a contare quante persone entravano nelle fabbriche, quante ne uscivano, se erano giovani. In particolare, all'Andreani, una fabbrica che denunciava all'ufficio di collocamento 250 dipendenti, questi ne contarono 350. Quindi c'erano circa 100 ragazzine non in regola. Alla fine dell'indagine facciamo un volantino per denunciare questa situazione, denunciamo il connubio della Cisl di allora con i padroni, denunciamo l'ufficio di collocamento, l'ispettorato del lavoro che non faceva verifiche. Una denuncia politica che suscitò un gran casino. La domenica mattina indicemmo un comizio in piazza a Verderio. Di lavoratori non se ne presentano mentre arrivano una ventina di famiglie, probabilmente genitori di qualche bambina che lavorava in quelle fabbriche e l'unica attivista che avevamo nella zona. Visto il magro risultato decidiamo di dichiarare lo sciopero di zona per il settore dell'abbigliamento, contro lo sfruttamento giovanile. La mattina siamo tutti giù sul ponte di Paderno. L'unica possibilità di far riuscire lo sciopero era fermare quelli che venivano dalla bergamasca, che erano quasi il 50% della manodopera occupata in quelle fabbriche. Quello era il momento grosso, verso le 5, 5 e mezza, erano le prime operaie ad arrivare. Se si riusciva a bloccare quelle, probabilmente chi era davanti alle fabbriche sarebbe riuscito a fermare le altre. In quel momento arriva una macchina della Cisl che distribuisce un volantino in cui invita le lavoratrici ad andare a lavorare.
Dalla parte bergamasca del ponte c'eravamo io, Tavola e Pio Galli, dall'altra c'era Foi, mentre altri erano già davanti alle fabbriche più grosse. La macchina è passata velocemente sul ponte per impedirci il blocco, ma alla fine lo sciopero è riuscito, meno che alla Andreani, la fabbrica dove avevamo trovato ben 100 ragazze non in regola. Allora io vado la. Per arrivarci c'era una stradina stretta dove le ragazze passavano in bicicletta. La prima che arriva mi avvicino, le prendo il manubrio e comincio a parlarle, con l'intento soprattutto di bloccare il passaggio e impedire alle altre di raggiungere il cancello della fabbrica. Se non ché la padrona dell'azienda ha filmato tutta la scena. Qualche tempo dopo arriva una denuncia perché non solo avevo bloccato le ragazze, ma ne avrei picchiato una. Tra l'altro salta fuori che una delle due ragazze che avevano firmato questa denuncia era figlia di un compagno socialista.
Il nostro avvocato era socialista e gli dissi di andare dalle ragazze a chiedergli di ritirare la denuncia. Ma, probabilmente perché spinte e spaventate, non la ritirano. Si arriva così al processo dove avviene la proiezione del film e io nel modo come mi agitavo, sembrava veramente che la stessi picchiando. Fortunatamente, però, le ragazze riconobbero che non le avevo picchiate e fui condannato e mi feci solo due mesi di galera.
Quello era il clima in quegli anni in quella zona, e nessuna delle ragazze, anche di famiglie di compagni, era disponibile a parlare, anche perché la porta della fabbrica per loro si sarebbe immediatamente chiusa e non avrebbero più trovato lavoro in tutta la zona.