Sono nato il 13 maggio 1950 a Roncadelle, un paese
della provincia bresciana di tradizioni prevalentemente agricole.
Ho iniziato ad avvicinarmi ad alcuni movimenti di
carattere formativo che mi hanno profondamente segnato e sono le Acli e
l’Azione Cattolica. Provengo da una famiglia in cui il papà, che è morto nel
’63, nonostante in quel momento avessi solo 13 anni, mi aveva già profondamente
segnato, spingendomi verso un interesse per il sociale. Mio papà era molto
sensibile e disponibile sui temi che riguardavano la condizione contadina ed
era stato responsabile di lega.
Ho fatto la terza media, poi ho iniziato a lavorare in
una piccola fabbrica a Castegnato, la Mg calibri. Sono entrato nel ‘66. Era una
piccola azienda, ma già inserita in un contesto produttivo e commerciale
internazionale, avendo rapporti con Russa, Germania, Francia e Inghilterra. Si
producevano calibri speciali. Ho iniziato al banco, all’aggiustaggio, dove
serviva qualche conoscenza di disegno tecnico. Ero addetto ai lavori di preparazione
dei piani che venivano poi affidati per la finitura dei calibri a operai che
avevano maggiore professionalità. Erano calibri speciali che venivano fatti su
ordinazione e potevano essere anelli o tamponi filettati, forcelle di misura
“passa e non passa”. Tutti calibri che servivano soprattutto alle grandi
aziende. Dal banco sono passato alle rettifiche speciali, che erano le macchine
che facevano le filettature, diventando un operatore alla rettifica. Poi ho
fatto anche una piccola esperienza al controllo qualità e debbo dire che un
ambiente così non l’ho più trovato nel mio percorso di lavoro. Estate e inverno
in quel reparto lavoravamo sempre a 19° per la grande precisione che era
richiesta e per impedire ai materiali di subire variazioni dovute alla temperatura.
Si preparavano anche i famosi blocchetti campione Johnson, di acciaio temprato
con tolleranze millesimali e di formato standard che servivano per fare le
quotature.
La famiglia, l’azione Cattolica e le Acli mi
spingevano verso un impegno sociale, poi ho trovato per mia fortuna un curato
molto sensibile e intelligente che mi diceva che è meglio impegnarsi per
tentare di raddrizzare le cose che vanno storte, piuttosto che ritrovarsi la
sera a dire un rosario. Sono stato educato con questo concetto: se vedi una
cosa che non va non puoi far finta di niente, ti devi fermare e cercare di
raddrizzarla. Questa concezione mi ha accompagnato per tutto il mio percorso
sindacale. Attraverso l’esperienza di gioventù aclista sono entrato in contatto
persone che militavano nel sindacato. Una di queste era Luigi Gaffurini, un mio
grandissimo amico. Attraverso l’esperienza associativa che aiuta le persone a
comunicare, a socializzare, a costruire un piccolo progetto, che aiuta a
costruire un dialogo pur nella diversità delle posizioni, ho capito
l’importanza di trovare un spazi diversi – ho fatto anche militanza politica -
che si occupassero molto più concretamente dei problemi delle persone.
Ho iniziato il mio percorso sindacale nel 67, quando
sono stato avvicinato da Gaffurini, che era uno dei responsabili sindacali
dell’azienda. Nel ’68 c’è stata la prima elezione dei delegati. Eravamo quasi
80 persone. Siccome potevamo avere tre delegati, un’esperienza che in quella
fabbrica non c’era mai stata, decidemmo con grande disponibilità e senza schemi
di carattere ideologico, che ne avremmo eletto uno per ogni sigla Fim, Fiom e
Uilm. Io accettai la candidatura e diventai delegato, anche se prima di farlo
tutti avevamo sentito le nostre organizzazioni. In questo modo abbiamo evitato
di rimanere esclusi. Inizialmente la Fim aveva una decina di tesserati per poi
arrivare a 45, 50 lavoratori. Ho trovato nell’area di Cellatica e di Gussago
delle persone disponibili, nonostante la mia giovane età, loro avevano cinque o
sei anni più di me e avevano già fatto il servizio militare, e siamo riusciti a
creare un gruppetto che in breve tempo ha ottenuto dei buoni risultati.
Dal '70 a fine '71 ho fatto il servizio militare.
L’azienda era fornitrice delle forze armate, in particolare forniva calibri
alla Marina italiana e i ragazzi di alcune classi del ’48, ’49 e ’50 che
lavoravano alla Mg venivano segnalati e andavano sulle navi perché ritenuti in
possesso di una professionalità che poteva risultare utile. In realtà nessuno
di noi ha mai dovuto utilizzare le proprie competenze e il proprio mestiere
durante il servizio militare.
Al mio rientro dal servizio militare, all’inizio del
’72, cominciò un processo di decentramento. Alcuni dipendenti dell’azienda
accettarono di portare fuori della fabbrica alcune rettifiche e quasi tutti,
compresi i tre delegati aziendali, furono costretti, se volevano mantenere il
lavoro, ad accettare di andare a lavorare alle dipendenze di questi lavoratori
che gestivano le attività decentrate. Furono avviate due nuove officine: una
con i macchinari e le rettifiche per gli esterni e l’altra con le rettifiche
per gli interni. Uno si stabilì in uno scantinato sotto casa sua, a Paderno,
dove fui costretto ad andare anch’io dovendo anche accettare di lavorare su più
turni.
Nel 1973 mi sono sposato, una delle tappe più
importanti della mia vita, e con mia moglie siamo giunti alla conclusione che
mi avevano messo fuori dalla fabbrica a causa del mio impegno sindacale. Allora
abbiamo iniziato a vedere se a Brescia o nei dintorni non ci fossero altre
opportunità di lavoro. Ho fatto una serie di domande e in breve tempo mi è
arrivata una risposta positiva dalla Om. Ho fatto una visita medica, sono stato
sottoposto ad alcuni test, e nell’arco di tre, quattro giorni sono stato
assunto. Nel frattempo avevo dato il preavviso in Mg, che ho lasciato il 29
ottobre del ’73. Il giorno dopo entravo in Om.
Sono stato molto fortunato con mia moglie, perché
nonostante il mio impegno prima nel sociale poi nella politica e nel sindacato,
non si è mai frapposta fra me e la mia attività, anche quando sono diventato
papà. Anzi, mia moglie mi ha sempre sostenuto, perché capiva che la mia natura
era questa. Intuiva che queste forme di aggregazione, di associazione e di
militanza mi stimolavano e lei vedeva che ero una persona sempre più
realizzata. Mettersi di traverso voleva dire mancare di sensibilità e di
intelligenza, qualità che invece le donne hanno. E quando sono andato in
pensione (30.10.2003) mi ha chiesto se per caso volevo staccare la spina, ma
per farmi capire che non era necessario. Infatti ho già iniziato a fare alcune
attività di volontariato, non un impegno fisso, ma con una certa continuità, di
carattere sociale, in particolare con le Acli di Brescia, perché lì c’è una parte
importante della mia vita, soprattutto legata al fatto che lì ho trovato degli
amici.
Ho sempre avuto questo doppio legame Fim e Acli, e c’è
stato un periodo in cui ero impegnato anche in politica in modo diretto, perché
ho fatto due anni come consigliere comunale a Roncadelle. Nelle Acli ho
iniziato a 17, 18 anni e sono stato delegato giovanile provinciale, poi ho
fatto qualche piccola esperienza come segretario di partito a cavallo degli
anni '70/80, per poco tempo.
Nonostante le tante attività ho sempre tenuto separato
i diversi impegni e le diverse responsabilità, perché mi era stato insegnato
questo. L’associazionismo ha un valore di preparazione, è importantissimo
perché sviluppa sensibilità, aiuta a confrontarsi con le persone, aiuta a socializzare.
Il momento politico è molto importante, ma ha un limite, perché ci si incontra
con persone che hanno una loro precisa visione, che difficilmente si
confrontano.
Il momento sindacale ha sviluppato maggiormente in me
alcune sensibilità di tipo sociale, eppoi mi ha fatto scoprire una cosa: che è
possibile riuscire a realizzare concretamente, attraverso gli strumenti che il
sindacato ti offre, un percorso in grado di far convergere tutte le persone, al
di là delle loro opinioni, su un concetto di uguaglianza. Probabilmente avevo
una predisposizione, ma il sindacato mi ha sviluppata in un modo incredibile
questa sensibilità. Il sindacato mi ha dato molto e mi ha offerto molte
opportunità. Forte di questo non ho mai avuto difficoltà ad intraprendere percorsi
anche duri dal punto di vista valoriale per affermare alcuni concetti, anche in
forte dialettica e contrapposizione con il mio partito. La cosa non mi
impressionava e neanche mi disturbava. Qualcuno sosteneva che non era possibile
far convivere le due esperienze, ma io le ho sempre sostenute e vissute
direttamente. In questo sono stato aiutato dalle persone che hanno fatto la
storia della Om di Brescia. Lì ho avuto la fortuna di trovare una serie di
compagni-professori, ma che nell’atteggiamento erano dei padri, dei fratelli,
degli amici, dei lavoratori con cui condividevamo la quotidianità, senza far
pesare più di tanto la loro esperienza.
Quando lavoravo alla Mg segretario della Fim era
Franco Castrezzati, con cui mantengo ottimi rapporti, ma per me allora era una
persona lontana, molto prestigiosa, lo vedevo come una grande leader e lo
consideravo con grande deferenza.
Quando c’è stato l’attentato di Piazza della Loggia,
sono stato fortunato. Il 24 maggio è nato mio figlio Roberto. Allora bisognava andare
all’ufficio anagrafe per farsi dare il certificato di nascita e consegnarlo al
Comune di residenza. Quel giorno, il 28, sono andato in piazza, poi ne ho
approfittato per andare all’ufficio anagrafe per fare il certificato, giusto
venti minuti prima che scoppiasse la bomba. Era una giornata molto uggiosa, con
pioggia, sono uscito con i miei compagni dall’Om, ho fatto il corteo fino in
piazza, sono rimasto un po’ lì, poi ho salutato per andarmene e sfruttare
quella opportunità. Tutto è successo mentre con la corriera che avevo preso in
Stazione andavo a Roncadelle. Infatti, non ho fatto in tempo ad arrivare che
mio fratello e i miei amici erano disperati a casa mia perché erano sicuri che
io fossi in piazza, perché ho sempre partecipato a tutte le manifestazioni.
Quella tragedia l’ho sfiorata, pur avendola poi vissuta con tutto il suo
dramma, ma per caso sono riuscito ad evitarla.
La prima impressione, appena entrato in Om, è stata
quella di essere su un’altra galassia. Mi sono reso conto subito che la
situazione era diversa. Si trattava di una fabbrica inserita in un contesto
internazionale, in più l’organizzazione del lavoro era completamente diversa,
molto piramidale: l’attrezzista, il capo squadra, il capo reparto, il capo
officina, il responsabile di produzione, il responsabile del personale, gli
addetti alle relazioni sindacali, il direttore di stabilimento. Tutte figure
che per me erano nuove. Prima c’era solo il padrone.
Sono stato inserito in un reparto di meccanica dove si
producevano tutti i tipi di alberi del cambio: primari (sempre in presa) e
secondari. Si faceva tutta la lavorazione meccanica che andava dalla rettificatura
di preparazione a tutti i passaggi sulle macchine per fare le dentature e
costruire gli ingranaggi. Io ero addetto alla rettifica. Si lavorava con un
concetto con il quale ho dovuto misurarmi per lungo tempo. Facevo il carico e
lo scarico della macchina e mentre il pezzo veniva lavorato rimanevo fermo. Il
costo macchina era abbastanza alto per cui la direzione un giorno ci disse che
avremmo iniziato un’esperienza nuova, abbinando altre attività per saturare il
tempo morto di attesa tra un pezzo e l’altro. Mi sono trovato così a dover
seguire contemporaneamente un tornio semiautomatico “Minganti”, una piccola
rettifica e tre dentatrici: una che faceva lo scanalato, una la corona, l’atra
l’ingranaggio dell’albero. Era una cosa folle. Tutto il ciclo doveva svolgersi
in 6 minuti e 36 secondi. Avevamo dei contenitori in cui si mettevano gli
alberi finiti. Ogni cinque contenitori, li facevamo scendere e passavano ad
un’altra lavorazione. Alla fine della giornata dovevamo fare 70 alberi. Mi
chiedevo come mai in uno stabilimento così grande una cosa simile venisse
accettata senza che nessuno intervenisse. Il reparto era inserito nell’area
chiamata dell’ex ferroviario e in quell’area si alternavano circa 500 persone.
Ne reparto lavoravamo in un sessantina ed ho iniziato a sollevare il problema
parlandone con altri.
Il distributore automatico di caffè era un momento di
socializzazione e in quelle occasioni si parlava e io ne approfittavo per
sollevare la questione, anche con alcuni delegati della Fiom, che mi sembravano
tra i più agguerriti: "Come è possibile una situazione del genere e non si
faccia niente?". Mi sembrava che si temporeggiasse troppo, che si perdesse
tempo per vedere se poi ci si abituava a quei ritmi. Non ce l’ho fatta più, ho
parlato con una decina di lavoratori tra quelli che mi sembravano più svegli:
“Qui bisogna fare qualcosa”, ma non sapevamo bene cosa fare. Un giorno ho preso
una tromba di quelle che si montavano sui camion e, d’accordo con un
carrellista, ho cominciato a suonare la tromba. Mentre il suo suono si spandeva
in tutto il reparto, il carrellista, come d’accordo, a quel segnale ha
immediatamente portato un cestone in mezzo al reparto e ci sono salito sopra.
In dialetto ho detto che tempi e cadenze erano troppo alti e non si potevano accettare,
che si doveva organizzare il lavoro diversamente. Alla fine quasi tutto il
reparto si è fermato. A quel punto i delegati, che avevano capito il clima che
si respirava tra i lavoratori ma fino ad allora non si erano mossi, si sono
fatti avanti.
Alla Om c’era un reparto confino, quello dei cattivi,
il reparto Auto B, lì bastava solo dare un segnale che 600 rettifiche si
fermavano di colpo. Allora ho pensato di partire da lì. Sono sceso in quel
capannone che si è subito bloccato, poi sono arrivato fino al reparto Auto A
dove si facevano basamenti e c’era sempre fumo dovuto all’evaporazione
dell’olio chimico. Ho spiegato ai lavoratori le ragioni della nostra iniziativa
e anche loro si sono fermati. A quel punto, con un giro rapido di telefonate si
sono messi in moto tutti i componenti dell’esecutivo sindacale. Venne convocata
immediatamente un’assemblea e a me è toccato prendere la parola per spiegare le
nostre ragioni.
Con poche parole, un po’ in dialetto e parte in
italiano, sono partito dal concetto della dignità delle persone che deve essere
al centro del lavoro. "In questa situazione secondo me viene messo in
discussione un concetto fondamentale che non può essere messo in secondo
piano". A quel punto i delegati si sono messi all’opera e, attraverso
un’analisi dell’organizzazione del lavoro, dei tempi, la sistemazione delle
linee, è stata avviata una trattativa che nel giro di un mese ha permesso di
raggiungere dei risultati abbastanza buoni. I ritmi sono stati ridotti, le
linee sono state organizzate diversamente, le saturazioni sono passate da
complessive a parziali, è stato inserito il concetto del controllo qualitativo,
per cui ogni dieci pezzi la cadenza si interrompeva. Il risultato finale
consentiva al lavoratore di svolgere la sua attività nell’arco delle otto ore
senza essere spremuto.
Dopo quella mia azione immediatamente si sono
scatenate le voci e le richieste di informazioni su chi ero, da dove venivo.
Alla Om il pluralismo era reale ed erano presenti tutte le posizioni politiche.
C’era il gruppetto forte dell’area del cattolicesimo democratico, che era
rappresentato anche da un onorevole, Michele Capra. Era un uomo con uno stile
di vita impressionante. Era un impiegato e il suo ufficio era nel “Palazzo di
vetro”, ma in pratica stava sempre in mezzo agli operai, discutendo e
confrontandosi con i lavoratori. Aveva un rapporto stretto con colui che poi lo
sostituì come parlamentare, Pietro Rossignoli, che lavorava alla manutenzione,
dove erano occupate una sessantina di persone, che era il reparto dove io avevo
condotto la mia prima azione.
Poi ho conosciuto il personaggio che secondo me ha
segnato maggiormente la storia dell’Om di Brescia: Giovanni Landi, un
personaggio che mi impressionò. "All’apparenza indecifrabile, alto, con la
barba, capelli ricci voluminosi. Al primo momento mi sembrava di avere a che
fare con un terrorista. Conoscendolo, mi sono accorto che aveva un’intelligenza
e una sensibilità fuori dal comune, un fiuto politico e sindacale
straordinari".
Dopo la mia azione è iniziata una fase di
avvicinamento. Siccome ero amico di Antonio Gasperini, segretario di Democrazia
proletaria, delegato Fim, che lavorava in ufficio, qualcuno iniziò a dire che
ero anch’io uno di loro. Qualcun altro disse che siccome ero giovane, 23 anni, e
mi ero messo in mostra salendo sul cassone, ero di Lotta Comunista. Alla fine è
arrivato un signore, Santo Minessi, padre di 4 figli, che mi conosceva e ha
spiegato chi ero: "Ma cosa andate dicendo, questo è un bravo ragazzo che
viene dall’oratorio, l’avete avuto vicino per diverso tempo alle Acli
bresciane".
In quel momento mi sembrava di essere accerchiato, con
tutti che dicevano che dovevo essere coinvolto, che mi fosse affidato un
impegno preciso. Ero un po’ spaventato da tutta quell’attenzione. Alla prima
occasione venni candidato come delegato, ma non fui eletto perché io mi tirai
indietro. Non mi sentivo pronto e non riuscivo ancora a capire con precisione
la situazione della fabbrica. Vedevo che le persone che stavano intorno a me
avevano rapporti ad alto livello con il mondo della politica e con la dirigenza
sindacale nazionale, mi sentivo a disagio. Accettai invece quattro anni dopo,
nel ’77, e venni eletto nonostante fossi in un’area dove la Fiom era la grande
maggioranza. In quel reparto si potevano eleggere quattro delegati, risultai
secondo prendendo quasi il cinquanta per cento dei voti dagli iscritti Fiom.
Nel mio reparto, quando guidai la protesta, avevo un
caposquadra che partecipava a tutte le lotte sindacali. Era uno dei pochi, si
chiamava Chiodi. Mi avvicinò e ci parlammo. Quella settimana feci il secondo
turno e durante la pausa mensa per quasi tutta la settimana ci confrontammo per
una ventina di minuti almeno. Io capii che lui aveva delle sensibilità sociali
e anche qualche simpatia sindacale, allo stesso tempo lui si rese conto che
avevo un bagaglio di esperienza e professionalità che avevo acquisito nella mia
precedente esperienza di lavoro.
E’ stata questa anche la caratteristica e la filosofia
del gruppo di sindacalisti che hanno fatto la storia sindacale della Om: il
lavoro va fatto e bisogna farlo al meglio. “Se si percorre tutta la strada del
dovere, ti si apre automaticamente l’autostrada del diritto. Questo è il
concetto a cui sono stato educato in Om, non con le parole ma con i fatti”.
Dopo quella vicenda il responsabile di area mandò
qualche segnale come per dire: “attenzione, ti seguiamo”, però capii che il
messaggio arrivò larvato grazie a Fim e Fiom che immediatamente avevano fatto
quadrato intorno a me. Il risultato finale stava bene all’azienda e ai
lavoratori e quindi era positivo per tutti e io mi sono sentito tutelato, una
sensazione che non avevo mai provato fin ad allora.
Nell'ambito Fiat c'era un metodo molto valido:
nell'esecutivo si stava a turno, facevamo sei mesi ciascuno, anche se le
persone con maggiore esperienza e maturità rimanevano più a lungo.
Quando nell'esecutivo del consiglio di fabbrica si
discuteva con personaggi del calibro di Landi, Gaffurini, Lorenzo Paletti, per
me era uno spasso, era una scuola di vita. Nelle trattative era come una
partita di ping pong, ma noi non la perdevamo mai, qualche volta la pallina si
fermava sulla rete a metà del tavolo, ma spesse volte si fermava sull'altro
lato. Era una capacità non solo dialettica, ma sostanziata da comportamenti
pratici. Queste persone, di cui un tempo mi consideravo figlio e che ora
considero come fratelli, avevano scelto di fare i rappresentanti sindacali in
azienda con grande coerenza, un concetto che ora forse è scomparso. Luigi
Gaffurini, persona col quale trattava il capo del personale di un'azienda con
5mila dipendenti, che ha fatto numerose esperienze politiche: capogruppo in
consiglio comunale a Brescia, con sette parlamentari presenti, ha scelto di
continuare a fare l'impiegato, rinunciando ai possibili compensi cui poteva
aspirare, rispetto ad altri sui colleghi che guadagnavano molto di più e che
certamente non avevano le sue capacità. Era gente che ha sostanziato le loro
idee con il comportamento. Era questa la ragione che ci faceva avvicinare
volentieri al sindacato, perché vedevamo delle belle figure, delle persone che
non si limitavano a predicare.
Autoconvocati. E’ una vicenda che si collega alla
situazione generale del paese e dell’azienda. Per me è stato facile entrare in
questa partita, in particolare grazie alla poca simpatia che avevo per il
presidente del consiglio di allora, Bettino Craxi. E’ una vicenda che mi ha
segnato anche personalmente, perché in quel periodo ero segretario della Dc al
mio paese, di quella Dc che in quel momento era al governo con Craxi. Io ero
legato a Benigno Zaccagnini e al movimento di rinnovamento della Democrazia
cristiana e quegli avvenimenti mi hanno creato non pochi problemi di ordine
politico, sia a livello locale che provinciale. Nonostante questo, in quel
movimento trovavo degli obiettivi che condividevo appieno pur rendendomi conto
che la battaglia sindacale si intrecciava con uno contro politico e che la
valenza era decisamente più grande. In una prima fase ho partecipato con grande
entusiasmo e con una grande genuinità, e forse anche ingenuità, fidandomi di
coloro che erano i miei riferimenti all’interno della fabbrica e condividendo
gli obiettivi del movimento, non ultimo quello della sburocratizzazione del
sindacato, un discorso che da tempo si faceva all’interno della Om. In quel
periodo, infatti, noi sentivamo che lo scollamento tra lavoratori e sindacato
aumentava di giorno in giorno.
Le perplessità non mancavano. Un episodio che ricordo
sempre e che ho vissuto con grande sofferenza e anche con un po’ di timore è
stata la partecipazione all’assemblea dei delegati al Palalido di Milano.
Seduto su quegli anelli vedevo gente che era difficile definire democratica.
Un’altra cosa che mi colpì particolarmente fu l’ingresso di Mario Capanna e il
boato che lo accolse. Mi sono venuti dei dubbi, mi chiedevo se eravamo proprio
sicuri di fare la cosa giusta, però vedevo che le persone con le quali avevo
fatto tutte le mie esperienze dentro la fabbrica erano sufficientemente
tranquille. Nel nostro gruppo, Luigi Gaffurini non si dissociò apertamente ma
disse sempre in maniera molto chiara che militando in un’organizzazione ed
essendo all’interno di una confederazione, da parte nostra ci doveva essere una
maggiore attenzione anche alle posizioni della Cisl. Non condivideva l’uso un
po’ spregiudicato che in quella fase facevamo del nostro essere Cisl e fu
sempre coscienza critica, attenta e onesta su questo. Tant’è vero che,
terminata la fase delle autoconvocazioni, fu subito chiaro che noi non potevamo
essere d’accordo con il referendum e tutto il gruppo che aveva dato vita al
movimento disse che quello non era certamente lo strumento più consono ne
tantomeno utile per affrontare la questione. Noi ci dissociammo.
In tutta la vicenda degli autoconvocati ho avuto
qualche dubbio, ma ero certamente in buonissima compagnia.
In una prima fase c’erano state varie assemblee a
Brescia, come quella alla Camera di commercio, con la presenza di quasi
cinquemila persone. Il movimento è partito con delegati di varie estrazioni e
di varie aree. Non tutti i delegati Fim della Om erano d’accordo con le nostre
posizioni, tre o quattro non condividevano le nostre scelte.
A cavallo degli anni ’80 non è che il gruppo Fim della
Om bresciana fosse ben visto. Nei coordinamenti Iveco, soprattutto con la Fim
piemontese, c’erano posizioni molto dialettiche. Noi puntavamo il dito contro
la presenza di una serie di persone i cui comportamenti e le cui parole erano
sempre sul filo della violenza, parole e atteggiamenti che a Brescia erano
considerati aberranti. A Torino alcuni delegati della Fim erano vicini all'area
dell'autonomia operaia. D’altro canto noi della minoranza Fim bresciana
venivamo accusati di avere una grande colpa, di essere democristiani. Questo ci
ha portato ad avere sempre un rapporto abbastanza conflittuale anche con il
gruppo dirigente. Noi ci siamo sempre sentiti più Cisl che Fim, non eravamo in
sintonia con i segretari nazionali, con Pierre Carniti e Franco Bentivogli
abbiamo sempre avuto un rapporto molto dialettico e notevoli scontri, il
contrasto poi sfociò nelle autoconvocazioni, che partirono da qui. Però nella
nostra esperienza c'è sempre stata la capacità di non personalizzare mai.
Non era solo la Om, c’erano parecchie altre fabbriche
nell’area bresciana che condividevano questa impostazione. La nostra era una
battaglia dentro la Fim e contro la burocratizzazione sindacale. E ovunque
fossero presenti rappresentanti del nostro gruppo, negli interventi c’è traccia
di quelle posizioni. Pensavamo che questo movimento, che era riuscito a riunire
persone appartenenti alle diverse sigle, potesse cambiare il sindacato aprendo
anche un dibattito sul tema della democrazia all’interno del sindacato. Noi
abbiamo sempre sostenuto che le deleghe sindacali dovessero essere verificate
periodicamente con regolarità, questo avrebbe consentito più partecipazione dei
lavoratori e ai delegati sindacali di misurarsi una volta ogni tanto su un
piano concreto con i propri iscritti, rimotivare l’iscrizione, dare conto del
proprio operato.
Per noi era normale affrontare queste questioni in
fabbrica. A me hanno sempre insegnato che le associazioni, il sindacato, i
partiti sono degli ottimi contenitori, sono dei grandi mezzi, ma se ad un certo
punto si vede che questi mezzi non sono più idonei ad affermare gli obiettivi
di fondo, i valori cui si fa riferimento, si possono tranquillamente cambiare.
Noi non ci siamo mai isolati nella Fim, abbiamo sempre
partecipato alla vita sindacale, anche se non siamo mai riusciti ad avere la
maggioranza, ma in fabbrica abbiamo raggiunto un altissimo consenso. Questo
perché in quella fabbrica il valore dell’unità sindacale è sempre stato molto
sentito. Anche nel rapporto con la Fiom e con alcuni delegati più radicali
abbiamo sempre detto che l’unità sindacale non era una scelta tattica, ma per
la Fim della Om era un valore.
Quando Franco Castrezzati venne sostituito da Armando
Scotuzzi la situazione migliorò e con lui siamo sempre riusciti ad avere un
rapporto positivo.
Sono stato eletto nel direttivo della Fim e nel
consiglio generale della Cisl bresciana e sono stato anche nel consiglio
generale della Fim nazionale.
Lo stretto rapporto tra la Fim e la Fiom è l’elemento
che ha caratterizzato l’esperienza sindacale di quella fabbrica. Con la Fiom
abbiamo sempre lavorato stando vicini. C’era una differenza di fondo che ci
distingueva: loro tendevano sempre a colorare le cose, però c’era soprattutto
la capacità di partire sempre dalla condizione della persona inserita nel
contesto produttivo. Le condizioni che vivono le persone, pur nella diversità,
sono uguali per tutti. Noi siamo dei rappresentanti sindacali e come tali dobbiamo
usare intelligenza, fantasia, strumenti per trovare soluzioni. Partendo da
questo assunto si è riusciti a far prevalere la logica del bene comune rispetto
ai bisogni individuali e anche la diversità politica, che pure contava sempre
nel dibattito e nel confronto, con dialettiche anche alte, passava in secondo
piano.
Non mi è mai piaciuta e non ho mai potuto accettare la
personalizzazione delle situazioni. Però, alla fine, partendo dalla fotografia
della fabbrica e da un progetto che doveva dare risposte ai bisogni delle
persone, si riusciva sempre a trovare le soluzioni. Questo approccio ha sempre
funzionato e ha portato ad un rapporto molto stretto nonostante a volte si
subissero pressioni che venivano dall’esterno.
In occasione dell’occupazione della Fiat a Mirafiori,
Brescia si dissociò dalle scelte piemontesi.
Un episodio che mi ha colpito profondamente, mi ha
segnato umanamente e più avanti mi ha fatto propendere verso un nuovo impegno
come rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è stato un infortunio
mortale accaduto in fabbrica. E’ successo alle presse, sul finire degli anni
‘80. Facevo il secondo turno e lavoravo nel reparto “ottomila” alle macchine.
Ad un certo punto sono entrati alcuni lavoratori spaventatissimi urlando che
c’era stato un morto e cercando il delegato sindacale. Erano quasi le nove di
sera e l’infortunio era successo pochi minuti prima. Ho spento subito la
macchina, ho fatto fermare il reparto. Dentro di me rifiutavo l’idea che
potesse accadere un fatto simile. Infortuni mortali erano accaduti molti anni
prima, ma non da quando ero entrato in Om. Sono corso come un disperato alle
presse e quando sono arrivato ho visto un uomo sotto la macchina, immobile come
un pupazzo, inerme, coperto da un lenzuolo. C’era già l’ambulanza e sono
rimasto lì fino a quando il magistrato autorizzò la rimozione, che avvenne dopo
le tre notte. Chiamai il responsabile della Fim, che era Giovanni Landi,
chiamai Luigi Gaffurini, chiamai i responsabili della Fiom e della Uilm. Non
ero molto lucido e chiamai l’intero esecutivo del consiglio di fabbrica, allo
stesso tempo mi preoccupai che tutto rimanesse come accaduto e nessuno toccasse
niente. L’idea di trovare la morte nel luogo di lavoro dove stavo ormai da
parecchi anni mi ha molto segnato.
I delegati, i lavoratori che hanno fatto le battaglie
per l’ambiente e la difesa delle condizioni di vita e di lavoro in fabbrica
sono stati i primi ambientalisti, che hanno fatto crescere questa cultura nel
paese e tra la gente.
Quando vennero creati gli rls sono risultato il primo
eletto tra tutti i candidati della fabbrica. Era la conferma che i lavoratori
avevano capito che io partivo sempre dai problemi delle persone e non dagli
schieramenti. Forse è vero che non mi sono mai speso troppo per l’organizzazione
e una cosa che mi faceva arrabbiare era vedere che anche sul tema della
sicurezza le organizzazioni avevano la capacità di dividersi.
Quando Om cambiò la denominazione in Iveco e entrò nel
nuovo gruppo, al momento noi vivemmo questo cambiamento come un fatto puramente
nominale. Il cambio portò all’assorbimento dei lavoratori di una fabbrica di
Villa Calcina che apparteneva al gruppo Teksid, e per loro il sindacato
concordò il mantenimento delle condizioni acquisite, e che erano dal punto di
vista salariale erano migliori delle nostre perché appartenevano alla
siderurgia. Il gruppo diventò una holding e acquistò una dimensione europea e
si cominciò a discutere della necessità di darsi un coordinamento sindacale
diverso. Da Brescia vennero immediatamente realizzati contatti con lo
stabilimento di Suzzara, in provincia di Mantova, con lo stabilimento di
Bolzano che costruiva mezzi militari, e nacquero i primi contatti con la Spa di
Torino. L’obiettivo era quello di costruire delle strategie comuni. Io ho fatto
le mie prime esperienze di coordinamento molto più avanti, nel 92, 93.
C’era sulla linea di montaggio un obiettore di
coscienza e questo, che aveva già rischiato il carcere, tutte le volte che
arrivava un carro militare si rifiutava di lavorarci. Questo provocò la
reazione della direzione che cominciò a minacciare provvedimenti nei suoi
confronti, multe. Paletti e Gaffurini proposero allora che, al momento
dell’arrivo di un carro militare, il lavoratore lasciasse la linea, e occupasse
il tempo nel montaggio dei sottogruppi che alimentavano la linea, in questo
modo non c’erano interruzioni nella produzione e lui poteva testimoniare le
proprie idee che trovavano rispetto e riconoscimento. La proposta venne
accettata.
Ho sempre praticato l’autonomia tra politica e
sindacato. Se assumevo delle posizioni condivise con gli altri lavoratori le ho
sempre sostenute anche in contrapposizione al mio partito. Ero convinto che il
mio compito fosse quello di difendere l’interesse dei lavoratori, indipendentemente
dalle diverse posizioni politiche e ideologiche. Il mio riferimento è sempre
stato il cattolicesimo democratico.
A cavallo degli anni ‘86 e ‘87 abbiamo vissuto il
primo periodo di difficoltà in Om. L’azienda aveva fatto la scelta di togliere
le “meccaniche” da Brescia e come Fim conducemmo una grossa battaglia perché
eravamo convinti che si faceva non solo per la Om, ma per l’intero territorio
bresciano che in quegli anni viveva numerosi processi di ridimensionamento
dell’industria metalmeccanica. Inoltre, voleva dire recidere quel legame che si
era creato con l’università, in particolare la facoltà di ingegneria, la cui
realizzazione era stata il frutto di battaglie che negli anni precedenti
avevano fatto anche i lavoratori dell’Om, in particolare il gruppo della Fim,
che capivano l’importanza di avere un rapporto tra università e imprese.
Togliere dalla più grande azienda bresciana la
meccanica voleva dire mortificare il risultato di un’azione positiva condotta
in precedenza. In quel periodo eravamo 4600 circa lavoratori e 950 di questi
rischiavano di perdere il posto. E’ stata una lunga battaglia che abbiamo
perso, ma siamo riusciti ad impegnare l’azienda a darci una serie di garanzie
che sfociarono pian piano nel processo di diversificazione che portò a produrre
non solo il veicolo medio ma anche il carro piccolo, il Daily, che consentì a
questo stabilimento di arrivare fino agli anni duemila e di tenere sul piano
dell’occupazione e dare un futuro agli impianti bresciani.
Abbiamo fatto scioperi, conferenze stampa, ma anche
momenti alti di confronto. Non ci sono stati licenziamenti e abbiamo costruito
percorsi di accompagnamento che hanno portato alla riduzione degli occupati, ma
senza processi traumatici. In quel periodo la tensione era abbastanza alta.
Oggi in azienda ci sono ancora circa quattromila
persone, e questo dopo che ci sono stati processi di esternalizzazione che
hanno riguardato le presse e lo stampaggio della plastica. Negli anni
precedenti c’erano stati gli spostamenti in altri stabilimenti del gruppo della
produzione prima dei motori e poi dei cambi.
C’era una mutua interna che interveniva a sostegno
delle spese per tutte le prestazioni specialistiche, avevamo anche ottenuto la
possibilità che l’azienda aiutasse, attraverso una convenzione, l’acquisto
della prima casa dei lavoratori.
La Fim ha segnato la storia di quella fabbrica, anche quando, dopo
l’esperienza della Flm, era diventata minoritaria, mentre prima era stragrande
maggioranza con oltre duemila tesserati. La Fim poi fece la scelta
dell’autoscioglimento e quando si riprese il tesseramento Fim purtroppo noi non
avevamo niente alle spalle, mentre Fiom e Uilm non fecero quell’errore
strategico. La Fiom era già pronta e pian piano si è sempre più consolidata, ma
la testa pensante è sempre stata la Fim.