sabato 11 aprile 2020

PIO GALLI - Caleotto Arlenico - Lecco

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Lo sciopero di Giacomo. Un secolo di solidarietà operaia a Lecco e nel suo territorio”, di Costantino Corbari, Periplo Edizioni, Lecco, 1995 

Il capolavoro di Pio
Le fabbriche grandi erano una decina, quasi tutte metalmeccaniche. Vi lavoravano più di ottomila persone. Intorno alla città, lungo il lago e nella Brianza si contavano centinaia di piccole e medie aziende e una infinità di botteghe artigiane.
La guerra non aveva causato gravi danni: i bombardamenti avevano colpito soprattutto le vie di comunicazione. Per molte aziende, però, c'era il problema di riconvertire la produzione, da bellica a civile, e di adeguare gli impianti ormai invecchiati. Le macchine ricominciarono a girare subito. Il 2 maggio 1945, il giornale del Comitato di Liberazione di Lecco pubblicò un annuncio in prima pagina: "Ieri mattina, con il primo turno, gli operai hanno ripreso disciplinatamente il loro lavoro quotidiano". 
Trovare un posto non era un problema: gli operai che avevano lavorato a costruire materiale militare, gli uomini che erano fuggiti sui monti a combattere la guerra partigiana, i reduci cominciarono ad affollarsi davanti ai cancelli delle fabbriche.
C'era tra questi anche Pio, un giovane di Annone Brianza. A 18 anni, nel 1944, era entrato come partigiano nella 55A Brigata Rosselli. Due volte catturato, era sempre riuscito a fuggire. E ora cercava un lavoro.
Il titolare di una piccola officina che produceva stampi, del quale era già stato dipendente, gli offrì un posto, ma lui rifiutò. Dopo l'esperienza della resistenza, dopo avere iniziato la militanza nel partito comunista, cercava un rapporto più intenso con i lavoratori, in una grande fabbrica. 
Si presentò così al Caleotto Arlenico, un complesso siderurgico con oltre duemila lavoratori e dove già era occupato suo padre, come primo addetto alla fossa di colata. 
Presentata la domanda, insieme ad altri tre giovani dovette sostenere una settimana di prova. Gli assunti furono solo due. Uno era Pio. Gli altri non erano riusciti a realizzare un "capolavoro" che soddisfacesse l'ufficio tecnico. 
Gli operai che cercavano un posto qualificato venivano infatti chiamati a costruire un pezzo, il capolavoro appunto, che mostrasse le loro capacità. 
Il capolavoro di Pio era un incastro a coda di rondine, un lavoro di precisione. Un colpo di lima maldestro avrebbe potuto rovinare tutto. 
Per non sbagliare la prova chiese aiuto ad un operaio più anziano, ma la sua esperienza di lavoro in piccole aziende e gli anni passati alla scuola professionale gli avevano dato sicurezza. 
Venne assunto come operaio qualificato, in officina meccanica. Un buon reparto, con condizioni di lavoro ben diverse dall'acciaieria o dai laminatoi a caldo. Quelli erano mestieri destinati a chi abbandonava la campagna, gente a cui toccavano i compiti più duri nelle acciaierie, nelle forge, nelle fonderie. 

Abituato ad ambienti piccoli, il Caleotto gli sembrava un altro mondo, pieno di macchine e di gente. 
Racconta Pio che la sua prima ambizione, una volta assunto, fu quella di diventare operaio specializzato. Si rese conto abbastanza presto che per uno come lui che aveva alle spalle diversi anni di lavoro in piccole officine, dove la precisione richiesta era ben maggiore, l'obiettivo era abbastanza facile. La paga era buona, superiore alla media. La commissione interna era attiva fin dai primi giorni successivi alla liberazione e aveva ottenuto più salario e migliori condizioni di lavoro. Si era subito occupata delle lavorazioni più pesanti e pericolose. Per i serpentatori, gli operai più esposti ai rischi, rivendicò quindici minuti di lavoro e quindici di riposo, contro l'orario in uso di trenta di lavoro e quindici di riposo. Ma bisognava preoccuparsi anche della dignità e dell'igiene delle persone: furono ottenuti gabinetti decenti, spogliatoi e docce. 
Racconta Pio che in quel periodo i padroni non stavano molto a discutere. 
La ricostituzione delle commissioni interne fu uno dei primi impegni del movimento sindacale unitario. La loro elezione era regolata da un accordo nato quando parte dell'Italia era ancora sotto i bombardamenti alleati e rinnovato poi nel 1947. Il sindacato dentro la fabbrica non poteva entrare, ma le commissioni interne erano in stretto contatto con la Camera del lavoro. 
I primi mesi, impegnato nell'attività di partito, Pio li dedicò a scoprire i rapporti di lavoro in ima grande fabbrica. Il padrone non si vedeva mai, mentre lui aveva sempre avuto accanto una persona fisica, pronta a intervenire, a riprendere, a gridare se necessario. All'attenzione per la realtà della grande azienda, per le condizioni produttive era spinto dalla curiosità: non aveva mai visto prima acciaierie, laminatoi, presse di quelle dimensioni. Non aveva mai pensato che potessero esistere mestieri così duri. Ogni giorno era una nuova scoperta: cercava di capire il processo produttivo e insieme di rendersi conto delle condizioni di lavoro degli operai. 
L'attentato a Palmiro Togliatti, il 14 luglio del 1948, lo vide in prima fila nell'organizzare la mobilitazione del Caleotto. Lo sciopero si diffuse rapidamente in tutte le fabbriche. Il giorno successivo, a Lecco, dal balcone dell'albergo Croce di Malta, in piazza Garibaldi, il segretario della Camera del Lavoro e il rappresentante della corrente sindacale cristiana, Celeste Caimi, cercarono di parlare ai lavoratori, invitandoli a sospendere lo sciopero a partire dal mezzogiorno del 16. Fischi e urla impedirono a Caimi di prendere la parola. Era l'ultimo atto del sindacato unitario. 

Al Caleotto gli scioperi durarono oltre una settimana. Inizialmente vi avevano aderito anche i lavoratori della corrente cristiana. Ma a un certo punto interruppero la protesta e ripresero a lavorare. 
Tre mesi dopo, il 2 ottobre, al circolo Tomolo l'assemblea dei delegati dei gruppi di lavoratori che avevano aderito alla Libera confederazione italiana del lavoro, staccatasi dalla Cgil, diedero vita all'Unione liberi sindacati di Lecco e circondario. Ugo Zino fu il primo segretario della nuova organizzazione. La sede venne allestita presso le Acli. Il 20 aprile 1950, l'Unione liberi sindacati mutava il proprio nome in Unione sindacale lavoratori e aderiva alla Cisl, la confederazione nata quello stesso mese dalla fusione della Libera Cgil con la Fil, ex corrente repubblicana e socialdemocratica della Cgil unitaria. 
La polemica con la Camera del lavoro nei primi tempi fu assai dura. Lo scontro fra le due confederazioni, più ideologico che sindacale, si trasferì nelle fabbriche, in particolare quelle metalmeccaniche. Persone che fino a pochi giorni prima avevano collaborato fianco a fianco si ritrovarono l'ima contro l'altra. Fu un periodo di polemiche, di accordi separati, di concorrenza fra sindacati. "Servi dei padroni, servi dei preti", si sentivano urlare contro i lavoratori cattolici. A volte, quando i collettori della Cisl raccoglievano i soldi delle tessere, i militanti comunisti correvano davanti a loro e dicevano ai lavoratori: "non dargli i soldi, quello è uno dei sciuri". In alcune fabbriche si giunse anche menar le mani. Ma non accadde mai nulla di drammatico. 
Fu un momento di debolezza dei lavoratori. Molte aziende avviarono decisi processi di ristrutturazione degli impianti e delle produzioni. Le condizioni di lavoro in fabbrica peggiorarono e molti attivisti sindacali subiro­no forti discriminazioni. 

Anche Pio ne fece le spese: nei primi mesi del 1952 ci furono quasi cinquecento licenziamenti nel settore metalmeccanico mentre oltre cinquemila operai lavoravano a orario ridotto. All’inizio del '53 si ebbero sospensioni e licenziamenti alla Eredi Aldè, alla Nava di Suello, alla Fiocchi, alla Faini, alla Radaelli di Dervio, alla Forni Impianti. Nello stesso anno chiuse la Metallurgica Riccardo Faini che produceva raggi per bicicletta e lasciò senza lavoro seicento persone. Una crisi piuttosto grave investì anche il Caleotto Arlenico. 
In quella difficile situazione, la direzione decise di licenziare nove membri di commissione interna aderenti alla Cgil. Nel marzo del 1953 la confederazione di sinistra aveva dichiarato lo sciopero generale contro la legge maggioritaria, battezzata dalle opposizioni parlamentari "legge truffa", e anche al Caleotto la corrente maggioritaria nella Commissione interna decise di bloccare i reparti. 
Racconta Pio che al Caleotto Arlenico, fin dal 1945, il segnale di inizio e di fine degli scioperi lo dava il suono delle sirene. Quella volta, però, la direzione, sollecitata dall'Unione industriali, si oppose al loro utilizzo. Convocate le commissioni interne dei due stabilimenti, le diffidò dal suonare le sirene. Una consuetudine che i lavoratori avevano già dovuto abbandonare in tutte le fabbriche lecchesi. 
La discussione che ne seguì non portò a nulla. Informati i lavoratori sulla decisione della direzione, vi furono immediatamente alcune fermate di protesta. Il pomeriggio dello stesso giorno le commissioni interne, riunite insieme, decisero di non subire l'imposizione aziendale. Normalmente le sirene le suonavano Pio e Virgilio Vanalli. Quella volta furono scelti Giovanni Rosa per il Caleotto e Luigi Angioletti per l'Arlenico. Il mattino successivo, alla bacheca della portineria era affissa una lettera della direzione che minacciava pesanti provvedimenti disciplinari in caso di suono della sirena come segnale di inizio dello sciopero. 
Alle dieci in punto le sirene degli stabilimenti e tutti i campanelli dei reparti ruppero l'aria e si sovrapposero al rumore delle macchine che immediatamente andò scemando. Era lo sciopero. La partecipazione fu altissima. 
Il giorno dopo Rosa e Angioletti furono licenziati in tronco per insubordinazione. Le fabbriche si fermarono di nuovo. L'acciaieria e i laminatoi furono i primi ad essere bloccati. Uno dopo l'altro anche gli altri reparti smisero di lavorare. Si fermarono le donne del catenificio, la forgia, la trafila. In piedi, su una pila di vergelle, i membri delle commissioni interne annunciarono che le lettere di licenziamento sarebbero state restituite alla direzione. 
Un lungo corteo di lavoratori invase gli uffici: al capo del personale venne comunicato che i due lavoratori licenziati sarebbero rientrati in fabbrica. Per solidarietà l'intera commissione interna si dichiarò responsabile del suono delle sirene. Il giorno dopo i licenziati erano nove. 
La tensione era altissima, ma i lavoratori erano decisi ad andare avanti. Riconsegnate alla direzione anche le nuove lettere di licenziamento, questa abbandonò la fabbrica. Per molti giorni gli stabilimenti rimasero sotto il controllo degli operai che organizzarono la produzione, con risultati superiori a quelli consueti. Parte dei capi e degli impiegati continuarono a lavorare nonostante la direzione li avesse invitati a vigilare solamente sugli impianti. 
La lotta del Caleotto Arlenico divenne la battaglia dei lavoratori di Lecco: manifestazioni e assemblee si tennero in piazza e nei quartieri. Delegazioni di fabbrica furono ricevute in Comune e una grande maggioranza del consiglio comunale si schierò a sostegno dei lavoratori. Ma dall'esterno della fabbrica giungevano anche inviti ad ammorbidire la posizione, ad accettare il confronto con la direzione presso l'Unione industriali. Dopo parecchi giorni le commissioni interne, anche se poco convinte, decisero di andare all'incontro. Alla stessa ora, erano le nove del mattino, mentre i rappresentanti dei lavoratori varcavano i cancelli, la direzione rientrava in fabbrica. 
Tre ore di discussione non portarono ad alcun risultato. L'azienda riconfermò i nove licenziamenti. Intanto, in assenza dei loro dirigenti, i lavoratori nei reparti furono diffidati dal muoversi dal posto di lavoro, a non protestare, a non scioperare, sotto la minaccia di gravi provvedimenti. Quando, dopo una inutile trattativa, i rappresentanti sindacali fecero per rientrare in fabbrica trovarono i cancelli sbarrati. Per loro li dentro non c'era più posto. Venne immediatamente proclamato lo sciopero generale, ma, per la prima volta dal dopoguerra, al Caleotto Arlenico non riuscì. Senza guida, i lavoratori si erano sbandati. Era mancato qualcuno che si mettesse alla loro testa e dicesse: andiamo. 
Per Pio e gli altri otto licenziati cominciò un periodo duro. Perso ogni diritto anche sulla liquidazione, per tutti si pose il problema della sopravvivenza. Alcuni erano già anziani, con famiglie numerose. Per diversi mesi, nessuno offrì loro un posto, anche se erano operai qualificati e specializzati e in molte fabbriche si cercava gente esperta. 
Qualcuno si adattò a dei lavori marginali: Angioletti e Vanalli finirono a fare i venditori ambulanti di tessuti. 
Pio, Costante Rusconi e Giovanni Rosa furono chiamati al sindacato. Di lì a qualche mese Pio sarebbe diventato il segretario provinciale della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici della Cgil. L'anno dopo era responsabile della Camera del lavoro di Lecco. 
Racconta Pio che quella volta non avrebbe voluto dare ascolto ai consigli di moderazione.