mercoledì 25 marzo 2020

EDO BETTINELLI - Falck – Vobarno (Bs)

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Gli anni caldi dei metalmeccanici bresciani”, Edizioni Lavoro, Roma 2005

 Sono nato il 10.4.49 e abito a Vobarno. Sono sposato con due figli, una maschio e una femmina. La femmina è sposata e sono già nonno. Ho la licenzia di terza media, acquista negli anni del lavoro. Ho iniziato a lavorare a 13 anni, in edilizia, fino a 20 anni. Dopo il servizio militare sono entrato alla Falck e ci sono stato fino a quando ho avuto il distacco sindacale, che ho mantenuto fino al momento di andare in pensione. Nel frattempo l'azienda era passata sotto il controllo di diverse società fino all'ultima proprietà svizzera, poi è fallita. Almeno una parte, perché c’erano due settori: i tubi e i laminati a freddo. Attualmente è rimasto solo un reparto con un'ottantina di lavoratori che producono tubi, appartenente al gruppo Mannesman, un colosso tedesco in mani turche.
Quando sono entrato io ci lavoravano 1.300 persone, che poi sono cresciuti fino a 1.400, il tetto massimo toccato.

Ho iniziato come manovale. Ho trovato un bel clima, in un reparto dove si faceva trafilatura del ferro per cemento armato.
Nel sindacato sono entrato per caso. Durante l'elezione dei delegati con un gruppo di compagni di lavoro si discuteva senza tanta convinzione su chi dovesse farlo. Eravamo una decina di giovani sui 26, 27 anni e si scherzava chiedendoci chi si dovesse votare, per gioco un amico mi stava dando un calcione, io gli ho preso la gamba e lui è andato per terra. Allora, quasi per ripicca, ha gridato che il sindacalista avrei dovuto farlo io, e siccome non ho detto ne si ne no, lo hanno interpretato come un assenso e mi hanno votato. Ho preso 17 voti, era il '74 o il '75. In quel momento non ero iscritto al sindacato. Anni prima mi ero tesserato, poi per una grossa discussione con il delegato di reparto - ero un po' rivoluzionario - non l'avevo più rinnovata. Dopo essere stato eletto, ne abbiamo discusso. Qualcuno diceva che non potevo fare il sindacalista senza la tessera. C'era una persona che ammiravo, ed è stato un avvicinamento reciproco, lui mi ha sollecitato, io ero in dubbio, ma alla fine mi ha convinto.
Ho fatto diversi anni di gavetta. Eravamo in 32 delegati. La Fim era quasi sempre in maggioranza, anche se a volta è stata in maggioranza la Fiom, ma sempre, in un caso o nell'altro, per un solo delegato. Ho iniziato ad occuparmi di patronato, poi però l'ho abbandonato perché non mi piaceva.
Pian piano sono cresciuto e sono entrato nell'esecutivo del consiglio di fabbrica, che era composto da sei persone. A quel punto ho iniziato a frequentare il coordinamento della Falck e ho fatto le mie prime esperienze, positive. Noi si faceva il contratto nazionale due volte: prima si sperimentavano i problemi nel contratto aziendale alla Falck, poi l'anno successivo si inserivano nel contratto nazionale, perché la Falck era un'azienda significativa.
Ho avuto esperienze diretta del peso che aveva la Falck vedendo che anche al ministero del Lavoro la delegazione Falck contava. Sono quindi entrato nell'esecutivo del coordinamento e nel direttivo provinciale Fim. Ho avuto più volte proposte di uscire a tempo pieno che ho sempre rifiutato, perché la mia idea era che il sindacalista si fa in fabbrica.
Il salto l'ho fatto solo nel 2000. La Falck era stata ridimensionata e non c'era più l'esecutivo del cdf. Negli ultimi periodi ero a Milano due volte la settimana, uno per la riunione e l'altro per le trattative. Quando poi si è abbandonato tutto, c'era un'unica azienda a Vorbarno. Li ero impegnato attivamente, ma stavo ormai pensando ad altre scelte quando è arrivata la proposta di entrare in segreteria e lasciare la fabbrica. Mi ha convinto il segretario generale della Fim, Giorgio Caprioli, che avevo conosciuto in occasione delle riunioni del coordinamento Falck. E ho provato l’esperienza di passare da semplice delegato a segretario della Fim di Brescia.

Anche a Vobarno si faceva sentire l'impostazione aziendale che cercava di stabilire relazioni sindacali positive. In un'occasione hanno firmato il precontratto, rompendo il fronte padronale. Abbiamo avuto più problemi con la Fiom. Avevano gente preparata, ma non dal punto di vista culturale, che sapeva gestire il rapporto con i lavoratori. Andavano in assemblea e sapevano incantare la gente. L'azienda era molto sindacalizzata, e oltre il 90 per cento era iscritto. Le eccezioni erano poche, sia tra gli operai che tra gli impiegati, qualcosa si è perso negli ultimi periodi. Si contava perché dietro di noi c'erano i lavoratori.
Momenti di tensione con l'azienda ci sono stati quando è partito il processo di ristrutturazione. Non solo con l'azienda, ma anche con i lavoratori. In particolare, quando c'erano le riduzioni di personale, anche se fortunatamente abbiamo sempre potuto utilizzare i prepensionamenti e non è mai stato licenziato una sola persona.
Nella zona c'erano altre fabbriche siderurgiche dove il sindacato faticava a organizzarsi e qualche volta abbiamo portato davanti ai cancelli di queste aziende un po' di lavoratori Falck per convincerli a scioperare. Qualche frutto quelle pressioni hanno dato, ma ancora oggi c'è una sindacalizzazione molto bassa.
Per quanto riguarda la contrattazione, una cosa che non siamo mai riusciti a fare in fabbrica è stata la riduzione dell'orario di lavoro. Noi l'abbiamo sempre messa in campo, ma non siamo mai riusciti
ad ottenerla. Per quanto riguarda il salario, abbiamo sempre avuto condizioni migliori rispetto alle altre aziende del settore.
Per quanto riguarda le ristrutturazioni, l'azienda tagliava dei numeri, noi abbiamo sempre sostenuto che si dovessero valutare le diverse posizioni.
Una situazione di tensione si è creata quando un delegato della Fiom ha detto al direttore di produzione: "Tu sei matto". Dalle nostre parti è un intercalare diffuso e non ha valore offensivo, ma il direttore ha strumentalizzato quelle parole, ha reagito in malo modo, è per una settimana in tutta la fabbrica la tensione è stata alta. La mediazione è toccata a me, anche perché il delegato, pur essendo Fiom, era un mio amico. Era un impulsivo, ma se lo facevi ragionare e capiva le tue ragioni non ti abbandonava più. Era la nostra impostazione, se c'era un delegato da difendere la Fim lo faceva, un po' meno la Fiom se il delegato era Fim. Anche perché se un delegato Fim veniva fatto fuori, per noi era molto più difficile rimpiazzarlo, lo dovevamo costruire, mentre alla Fiom bastava l'ordine del partito per avere un sostituto.

Nel 1990 stavo pensando di andarmene perché avevo avuto degli scontri personali con il direttore di produzione, responsabile dello stabilimento. Mi aveva messo per tre mesi in cassa integrazione, quando dovevo rientrare mi ha minacciato di lasciarmi a casa. Questo a causa delle mie posizioni sindacali. Io ero abituato a costruirmi la mia linea, a confrontarmi, ma poi la portavo avanti con fermezza e l'azienda o la smontava o doveva cedere. Anche nelle ristrutturazioni io tenevo questa linea. La mia forza era data dal fatto che io mi confrontavo nel merito dei problemi. Il direttore pensava di tagliare e basta, mentre io lo portavo a discutere delle ragioni di certe decisioni. “Spiegami perché devi tagliare proprio lì e non da un'altra parte” e in queste occasioni siamo arrivati ad uno scontro forte e lui mi ha messo in cassa integrazione. Siamo arrivati al punto in cui il capo del personale, dietro sollecitazione del direttore, mi ha offerto dei soldi perché me ne andassi. La mia risposta è stata che io al mio posto di lavoro ci tenevo, che avevo due figli da mantenere e se lui si fosse fatto carico anche di quello, allora avrei potuto anche andarmene.
Dopo quella vicenda, siccome non è riuscito a spuntarla, ha iniziato a pensare che forse la strada giusta era quella del confronto. E’ anche vero che mi ha aiutato molto perché, facendo io parte dell’esecutivo del coordinamento, gestivo i problemi più grandi, mentre lui era fuori dal gioco, e quindi in qualche modo mi forniva informazioni utili al confronto. Peraltro, io ho saputo che a fine anno avrebbe dovuto lasciare l’azienda mentre lui ancora non lo sapeva. Eravamo a Roma al ministero del Lavoro a fare una trattativa e il direttore generale della Falck Perruconi mi ha detto di non preoccuparmi perché il mio direttore a fine anno se ne sarebbe andato.
Molte volte in trattativa gli animi si accendevano. Una volta il capo del personale, con il quale ci sentiamo ancora oggi, durante una trattativa mi ha lanciato un posacenere di ferro che era sul tavolo, uno di quelli che venivano realizzati dalla Falck con il proprio nome. Fortunatamente l’ho schivato abbassandomi. Allora mi sono alzato, sono andato a prenderlo e gliel’ho riportato dicendogli “Ce l’ha di nuovo a disposizione”. Sul muro era rimasto ben evidente il buco fatto dall’oggetto di ferro. La Falck è stata un'azienda che ha fatto crescere le persone impegnate nel sindacato, perché era generalmente disponibile alla trattativa. I sindacalisti che si volevano fare un bagaglio di esperienza lì potevano farlo e la stessa azienda ci teneva che la propria controparte fosse preparata. Nelle trattative il direttore si arrabbiava moltissimo quando qualche delegato diceva delle sciocchezze e anche noi eravamo attenti ad essere precisi nei nostri interventi. Una volta, quando mi sono reso conto che un mio collega Fim stava dicendo cazzate, gli ho dato io un calcione per farglielo capire. Eravamo intorno ad un grosso tavolo e il direttore si è reso conto del mio gesto e successivamente più volte mi ha ricordato il mio gesto "quel tuo collega è ancora zoppo?". Il delegato che aveva preso il calcio, che non era stupido, si è reso conto che rischiava di dire una fesseria, e non ha fatto una piega e non mi detto niente.
Il direttore del personale si chiamava Andrea Maltese, ora lavora all'Unione industriali di Bergamo.
I problemi durante le trattative nascevano più a livello centrale, dove erano presenti i responsabili dei vari stabilimenti e quindi i rapporti erano un po' più rigidi.

Sono stato delegato sindacale dal 1975 al 2000. Con i lavoratori ho sempre avuto un buon rapporto e mi hanno sempre sostenuto. Avevo un posto di lavoro che mi consentiva di girare l’azienda e mantenere rapporti con tutto lo stabilimento. Ero inserito nella squadra della manutenzione edile, che andava nei diversi reparti, e quindi potevo incontrare e parlare con molte persone. Lavorare, lavoravo poco. Su otto ore onestamente non so quante ne lavorassi. Il mio capo mi aggregava sempre con qualcuno che lavorava anche al posto mio. Anche perché in qualunque reparto si andasse c'era sempre gente che mi fermava, anche gli iscritti Fiom. Come entravo c'era qualcuno che mi chiamava ed io ero sempre disponibile.
Qualche problema c’è stato con alcuni delegati Fiom che mi avrebbero anche aiutato ad andarmene. Ma situazioni difficili non ne sono mai nate. Qualche problema in più c’è stato con la segreteria provinciale della Fiom per convincerli ad accettare i percorsi che avevamo deciso in fabbrica nei processi di ristrutturazione. Ma questo è successo negli ultimi periodi, quando la Fiom in fabbrica non aveva più grandi leader, ma solo “galoppini” e questi si aggregavano volentieri alle posizioni esterne.
Ho provato ad entrare in assemblea con tutti i lavoratori contro e sono uscito che erano tutti dalla mia parte.
All’interno dei delegati Fim c’era una certa collegialità, si discuteva prima, si prendevano delle posizioni condivise, e poi si sostenevano con i lavoratori. Eravamo 15, 16 delegati Fim, non tutti efficienti, ma una decina particolarmente attivi. Costituivamo un bel gruppo, tutti abbastanza giovani, tutti convinti e ben organizzati, con responsabilità e competenze diverse. Avevamo l'abitudine di trovarci prima di ogni appuntamento importante. C'era un delegato, un caro amico, che aveva la passione del vino, aveva una casa sul Garda, con una tavernetta. Allora si andava da lui, si assaggiava qualche bottiglia del suo vino, e si discuteva. Lui, Pierfranco, è stato il mio padre sindacale, anche se più volte ci siamo scontrati, era un po' un maestro, ci invitava sempre alla calma, a riflettere, prima di decidere. C'erano anche i delegati più vecchi e questi incontri erano un po' come un corso di formazione.
Per informare i lavoratori funzionava radio scarpa.
Quando si sciolse la Flm e si riaprì il tesseramento per sigla, la Fim aveva preso un colpo tremendo. La Fiom aveva tutto il suo apparato che la sosteneva, i partiti, noi non avevamo nessuno. E il giorno della distribuzione delle deleghe in busta noi non eravamo neppure in fabbrica perché abbiamo dovuto partecipare ad una riunione del direttivo provinciale Fim. La Fim ha fatto una grande fesseria: alcuni di noi avevano chiesto che si spostasse la riunione, ma i responsabili non avevano capito la situazione e così il risultato fu di circa 300 iscritti Fiom e soli 80 Fim. Fortunatamente, nel giro di sei mesi abbiamo ribaltato il risultato.
Ho sempre fatto molte tessere, l'ultima volta ho finito il pacchetto e ne ho fatte altre. Un giorno i l mio capo disse a me e a un altro che dovevamo fare un certo lavoro, ma io replicai che avevo un impegno. Allora mi chiese che tipo di impegno avessi, e io risposi che dovevo fare le tessere. All'inizio avevo qualche remora, ma quando ho capito che fare iscritti era importante mi sono sempre dato da fare.

Alla manifestazione di Piazza della loggia io non c'ero e non l'ho vissuta direttamente. Ma l'attentato di Piazza della Loggia, il rapimento Moro e altri avvenimenti drammatici mi hanno lasciato l'amaro in bocca perché vedevo un sindacato che era “contro”: io sono della Cgil sono pulito, tu che non sei della Cgil potresti avere qualche macchia. Questo atteggiamento mi ha sempre disturbato e dispiaciuto. In occasione del rapimento Moro, abbiamo fatto una manifestazione con presente il sindaco e questo si è permesso di dire che il terrorismo non arrivava solo dalla destra, ma poteva arrivare anche da sinistra. Le sue parole hanno provocato una sollevazione dei delegati Fiom, salvo poi doversi ricredere.
Nel Gruppo Falck ci sono stati episodi di violenza legati al terrorismo: un dirigente dell'azienda è stato gambizzato e una volta durante una riunione del coordinamento è arrivata la Digos e ha portato via un delegato, me ne sono accorto perché ero fuori con un gruppetto di amici. A Vobarno non è mai successo nulla del genere anche se un paio di volte sono stati trovati dei volantini e non si capiva bene da dove arrivassero, se dall'intero o dall'esterno, perché venivano trovati in portineria.
Una volta, in occasione di uno sciopero separato, alcuni nostri delegati che erano entrati a lavorare hanno trovato le gomme delle automobili tagliate. Per scoprire chi era stato avevamo programmato di ripetere uno sciopero separato, ma poi ci siamo detti: e se li scopriamo, cosa facciamo? Perché chi va a fare queste cose non è la mente, ma è qualcuno che viene mandato. E non lo abbiamo fatto.

Quando mi hanno offerto dei soldi per andarmene l’ho detto a mia moglie, ma lei mi ha risposto che non mi avrebbe neppure domandato la ragione. Mia moglie si lamentava perché non ero mai a casa, ma mi aiutava molto e ho sempre avuto un conforto, perché era figlia di un sindaco e sapeva cosa vuol dire assumersi un impegno politico o sociale. Diverso invece è stato per i figli, che non mi vedevano quasi mai. Non il maschio, forse, che è arrivato più tardi, quando eravamo più organizzati. Ma ancora oggi mia figlia mi rimprovera: “Quando avevo bisogno non c’eri mai”. Anche se adesso è lei che si sta impegnando, è interessata alle vicende sindacali e lei farebbe la sindacalista “per il cuore, la passione”.
Anche adesso che sono in pensione sono spesso in ritardo agli appuntamenti familiari, perché trovo sempre qualcuno che mi ferma per domandarmi qualcosa sulle pensioni, discutere di sindacato, o di tasse da pagare.
Tutti i miei amici e conoscenti sapevano e sanno del mio impegno sindacale. In un anno, su 52 settimane, avrò fatto 40 cene, sempre invitato, come forma di ringraziamento per ciò che ho fatto da sindacalista. Nella frazione dove abito, Carpeneda di Vobarno, si faceva la sagra ed io andavo ad aiutare. Ad un certo punto ho smesso perché mentre ero lì si discuteva solo di sindacato.
Il mio hobby è la caccia. Non ho mai potuto permettermi un fucile Beretta perché era troppo costoso. Ho un fucile Bernardelli, un'azienda bresciana che ora non c'è più, una doppietta. A Vobarno, quando c'erano i coordinamenti, prima di iniziare la riunione o subito dopo c'erano sempre discussioni animate sulla caccia. Più che un hobby è una malattia. Mi piace, fin da quando ero bambino. Allora la caccia ci aiutava a vivere.

Non ho mai avuto altri impegni fuori dalla fabbrica, ne in politica ne altro. Sono sempre stato assorbito totalmente dall’impegno sindacale.
La Fim si farà grande quando comincerà ad utilizzare le “biciclette” che ha in giro. Ogni anno ci sono delegati che vanno in pensione, questi vanno valorizzati e impegnati a lavorare ancora per la Fim, fare le tessere, e sono quelle che fanno grande l’organizzazione. Dobbiamo tenerli legati alla categoria, non al sindacato dei pensionati.
Io mi considero ancora Fim a tutti gli effetti. Nei giorni scorsi sono andato a trovare un mio amico, un ex collega la cui moglie aveva un problema in fabbrica. Avevano convocato un’assemblea ma sembrava che l’operatore della Fim non potesse andarci, allora ho detto che ci sarei andato io. Fortunatamente non ce n’è stato bisogno. Dobbiamo farli lavorare ancora i delegati Fim in pensione, impegnarli.
Nella segreteria provinciale ho fatto l’organizzativo e ho sempre insistito sul tesseramento e a chi mi ha sostituito ho fatto una testa così prima di andarmene perché non calasse l’impegno verso il tesseramento.
Il mio percorso formativo l’ho fatto tutto nella Fim. Ho partecipato al corso lungo regionale fatto a Berbenno con la Laura Limido, che mi ha aiutato molto, e il professor Marco Carcano. Sono stati loro i miei formatori sindacali. Un corso gestito molto bene. Si discuteva di tutto, non solo durante le ore di studio e lavoro. In camera mia eravamo in tre, della stessa valle. Alle due di notte eravamo ancora svegli a fare le verifiche. Quello che stava vicino all’interruttore si addormentava con la mano sul pulsante, mentre si continuava a discutere.
Mi avevano proposto anche di andare a fare il corso lungo al Centro studi di Firenze, avevo dato la mia disponibilità, ma poi per un contrattempo non ho potuto andarci. Ma è stato meglio così, perché solo più tardi ho capito che chi frequentava quel corso non sarebbe più tornato in fabbrica, e per me il sindacato è in fabbrica. Anche se continuo a dire che l’esperienza di tre anni in segreteria provinciale è stata favolosa.
Inizialmente la Falck faceva parte del comprensorio del Garda. La Fim aveva un dimensione più familiare. Sono stato in segreteria anche al Garda, ma rimanendo in fabbrica. Partecipavo alle discussioni, ma le decisioni le prendevano i segretari a tempo pieno. In tutto il comprensorio gli iscritti erano circa duemila.
La Fim di Brescia la sentivo più lontana, e la mia adesione era più ideale che altro, mentre la mia attività sindacale era più legata alla Fim regionale, perché il coordinatore Fim per la Falck era del regionale: prima Antonini, poi Mario Stoppini e quindi Giorgio Caprioli. Conoscevo a memoria il numero di Angela alla Fim regionale e appena avevo un problema la chiamavo per parlare con il coordinatore.
Il gruppo era iscritto all'Unione industriali di Milano (Assolombarda). Le trattative si facevano là. Facevo parte del direttivo provinciale, ma venivo a Brescia solo il giorno delle riunioni. Ma questo andava bene, perché ci consentiva una grande autonomia di scelte a livello aziendale, senza che le vicende d'organizzazione interferissero più di tanto nel nostro lavoro sindacale.
Il congresso di Manerbio è stato il primo attacco fatto a Castrezzati, guidato dai delegati della Om. Io ho partecipato, ma ho capito i termini della questione molto tardi, perché era il primo congresso a cui prendevo parte.