L’Acciaieria Tubificio
Pietra, è un’azienda vecchia, una delle prime acciaierie insediate in città, in
via Dalmazia, con qualche forno. C’era anche un piccolo laminatoio a Cailina di
Villa Carcina, dove poi è nato il
complesso acciaieria, laminatoio e tubificio, con quattro presse, che è andato
avanti fino a 10 anni fa. Tra l’82 e l’83 hanno chiuso sia il laminatoio di
Cailina che lo stabilimento di via Dalmazia e sono andati avanti con
l’acciaieria e il tubificio di via Orzinuovi. Un paio d’anni fa hanno chiuso
l’acciaieria e oggi prosegue la produzione del tubificio.
Quando sono uscito a fine
’96 c’erano quattrocento dipendenti, quando sono entrato nel ‘68 erano 1.500
circa.
Ho fatto la quinta
elementare e l’università della vita. Ho iniziato a lavorare a dieci anni come
barbiere. Una scelta di mio papà, che era contadino. Dopo qualche anno di
garzone in cui non ho guadagnato niente e anzi a fine anno mio papà dava una
gallina al titolare perché mi aveva tenuto con sé ad imparare un mestiere, ho
aperto una attività di barbiere in proprio a Castel Mella e sono andato avanti
per cinque anni. Poi mi sono sposato. Come barbiere non avevo previdenza,
mutua, ero un po’ preoccupato e allora sono andato a lavorare in fabbrica.
Quello era un periodo in cui gli artigiani lasciavano la propria attività per
andare a lavorare nelle fabbriche, adesso avviene un po’ il contrario. Io
comunque sono contento della mia scelta perché conosco persone che facevano il
barbiere come me e oggi lavorano ancora perché la loro pensione non è adeguata,
mentre io dopo trentuno anni in acciaieria ho potuto lasciare la fabbrica. In
verità io volevo andare avanti ancora per qualche anno a lavorare, ma la salute
non me lo ha permesso. Però da quando sono rimasto a casa mi sono ripreso e ora
sto bene.
Mentre lavoravo in fabbrica
mi è capitato più volte di dover tagliare i capelli. L’ho fatto ancora per un
po’, c’era sempre qualcuno che mi cercava, mi chiedeva di andare a casa sua
perché non aveva tempo o voglia di andare dal barbiere in negozio. Ad un certo
punto non avevo più voglia io di andare da una parte all’altra, mi sentivo
quasi obbligato, allora ho inventato una palla, ho detto che mi avevano rubato
gli attrezzi, e così ho smesso.
Quando sono entrato al
tubificio non sapevo niente del lavoro in fabbrica. Il primo impatto è stato un
po’ drammatico: c’era un gruista che mi chiedeva di mettere la corda sotto un
fascio di tubi e io non sapevo come fare. Poi pian piano mi sono impratichito e
nel giro di un annetto ho imparato un mestiere. Mi ha aiutato la mia curiosità.
Ultimamente non andavo quasi più in produzione perché facevo l’attrezzista e
preparavo le macchine quando si cambiavano i diametri, da 3/8 fino a 114. Sono
sempre stato un tipo svelto sul lavoro, ero apprezzato per questo e sono uscito
con un quinto livello. Più volte mi hanno proposto di fare il caposquadra o
capoturno ma io ho sempre rifiutato perché ho sempre fatto il delegato e non mi
sembrava potesse funzionare. Avevo un amico che da delegato aveva accettato di
fare il capo e veniva a trovarmi a casa e mi raccontava che gli operai e i suoi
compagni di lavoro lo insultavano e gli dicevano: ma da che parte stai? In
qualche modo lo accusavano di aver tradito il proprio impegno, nonostante una
volta fosse addirittura stato preso per il collo dal vecchio Pietra. Per me è
stato un maestro di impegno sindacale.
Sono cose spiacevoli, che
non condividevo, ma io ho voluto evitare di trovarmi nella stessa situazione.
L’ambiente di lavoro non era
sano. Polvere, rumore soprattutto, se non si mettevano i tappi alle orecchie si
usciva impazziti. In un ambiente del genere anche se uno ci sta senza lavorare,
la sera esce stanco. Ho sempre lavorato su tre turni, non ho mai fatto un
giorno pieno.
Facendo il barbiere si
conosce un po’ tutto e un po’ niente, tutti i pettegolezzi del paese. Tra i
miei clienti c’era gente che lavorava in fabbrica, ma di sindacato non sapevo
niente. Il primo giorno che sono entrato in fabbrica avevo 23 anni, la guardia
mi ha affidato ad uno dicendogli di farmi timbrare il cartellino e dove
accompagnarmi. Costui, che era stato delegato Fiom e alla Pietra c’erano già le
guerre, più che sindacali, politiche, mi disse “guarda che appena entri in
reparto ti chiederanno di fare la tessera del sindacato, tu aspetta un attimo”.
Nei primi giorni più volte sono stato avvicinato dal delegato Fiom che mi
chiedeva di fare la tessera, io per evitare di doverla fare immediatamente e
guadagnare tempo, rispondevo che ero un barbiere, che volevo capire e poi non
sapevo nemmeno se mi sarei fermato in azienda. Dopo un po’ di volte che mi
chiedeva di iscrivermi, vista la mia riluttanza, mi disse di “non farla con
quello là perché è venduto al padrone”. Si trattava di Cesare Regenzi, oggi
segretario confederale della Cisl.
Nessuno della Fim era venuto
a propormi di iscrivermi, a quel punto allora sono andato proprio da
Regenzi e gli ho detto: “quello della
Fiom mi ha già rotto le scatole, allora mi voglio iscrivere alla Cisl”.
Io sono nato socialista, ho
sempre votato socialista, e per questa mia scelta ho ricevuto insulti e sputi
da alcuni miei compagni di lavoro.
In occasione della prima
assemblea cui ho partecipato ho assistito ad uno scontro aspro tutto politico
tra democristiani e comunisti, allora ho deciso di prendere la parola per
richiamare la necessità che si parlasse dei problemi della fabbrica.
Qualche giorno dopo ci sono
state le elezioni dei delegati e alcuni colleghi della mia squadra mi hanno
spinto a candidarmi. Io cercavo di sottrarmi, dicendo che non sapevo nulla di
sindacato ma loro mi avevano sentito in assemblea e mi volevano come delegato.
E così è stato. Doveva essere per prova e ho continuato fino alla pensione.
Nel ’79 ci sono state le
prime avvisaglie della crisi con la cassa integrazione. Ci sono state la
chiusura di Via Dalmazia, di Cailina e da lì è nata tutta la battaglia sulla
ristrutturazione. Castrezzati e Caffi mi hanno chiamato in segreteria per
spingermi a prendere in mano la situazione e io, che pure ero restio, mi sono
trovato a gestire la vicenda e il rapporto con la direzione per conto della
Fim.
La Fiom era molto più forte
di noi in azienda, noi avevamo poco ma cercavamo di far pesare la nostra
posizione. Ci sono stati molti momenti di tensione con la Fiom, in particolare
in occasione del referendum sulla scala mobile, con insulti e un nostro
delegato preso per il collo.
A conclusione di questa
vicenda, però, sono arrivato ad avere la maggioranza degli iscritti all’interno
dell’azienda. A quel punto il personaggio da massacrare ero io, mi accusavano
di essere venduto all’azienda per fare tessere. In quel momento ho avuto anche
degli scontri con il segretario provinciale Marino Gamba, perché non mi
difendeva e non difendeva la Pietra, facendosi convincere da Cremaschi che
ormai l’azienda si dovesse chiudere, ma la Fiom diceva questo perché ormai era
minoranza. Eravamo in mille lavoratori nel gruppo e c’era la possibilità di
fare un’intesa che salvasse l’azienda con settecento persone. Io avevo definito
un accordo in tal senso, ma la Fiom mi ha impedito di farlo, sostenendo che si
dovevano salvare tutti o nessuno, ma l’esito sarebbe stato la chiusura, cioè
nessuno. Io sostenevo con convinzione la mia tesi, la Fiom faceva circolare
voci che io prendevo soldi dalla Pietra, e ci fu uno scontro con Gamba, che
venne a casa mia insieme a Troncatti e Scotuzzi. Quella sera, a casa mia, la
Fim ha capito e ha deciso di sostenere la mia posizione, che il giorno dopo
sono andato in assemblea a presentare ai lavoratori e poi è passata.
In un incontro casuale con
il vecchio Rudino Pietra questi mi disse che aveva bisogno di me per sostenere
la richiesta di rateizzazione dei contributi all’Inps. Io pago – disse – però
adesso non posso. Cercherò di darle una mano, risposi io. “Io ho dato tutto a
loro, compreso la casa di riposo che è diventata una struttura del partito
comunista e adesso pensano di mandare me
in casa di riposo. Ma io li licenzio tutti”. Gli dissi che la colpa era sua,
perché in ogni occasione, quando c’era qualche problema, aveva sempre ceduto
alle richieste della Fiom, mettendo in difficoltà la Fim. Lui era fratello di
latte di Gino Torri, parlamentare Pci, e aveva sempre mantenuto un buon
rapporto con i comunisti. Nelle vertenze
interveniva Torri che diceva “dagli quelle cose che poi si sistema tutto”. Ma
poi in azienda nascevano dei problemi perché dentro la Fiom c’erano due
tendenze e quello che andava bene agli amici di Torri non andava bene agli
altri e così le situazioni invece di risolversi si complicavano e a volte
toccava a noi risolverle. Questo alla fine ci ha portato a vincere, ma
l’abbiamo pagata con insulti, sputi e mi hanno anche rovinato l’automobile.
Quando c’è stata la prima
cassa integrazione, io ero al sindacato ed è arrivato un giornalista di Brescia
Oggi riportandomi le parole della Fiom che parlava di liste di proscrizione. Al
che ho risposto che “siccome hanno sempre detto che la fabbrica è rossa, se
devono uscire 100 persone non possono uscire più democristiani visto che non ci
sono. Io non conto niente in azienda, loro sono la grande maggioranza e non è
certo la Fim a suggerire i nomi”. Pubblicate sul quotidiano, queste
affermazioni hanno fatto alzare ulteriormente i toni dei contrasti.
C’è stato uno scontro
frontale in consiglio di fabbrica anche sulla mensa, una vicenda alimentata
dalla Fiom. Sono cambiati numerosi gestori, prima si preoccupavano i lavoratori
di trovare il gestore, poi come cdf abbiamo deciso di lasciare che se ne
occupasse l’azienda. La Fiom prima fece intervenire una cooperativa della Lega
facendo mandare via la società che gestiva la mensa in quel momento, ma i
lavoratori erano scontenti e allora arrivò una società chiamata dalla
proprietà. Ma c’era il problema del personale della mensa che non trovava un
sistemazione. Per un certo periodo la mensa non funzionò e per tutta questa
vicenda si fecero trecento ore di sciopero, occupazione della mensa da parte
delle donne rimaste senza lavoro. Alla fine è arrivato un quarto gestore e la
vicenda si è chiusa. Tutto era iniziato probabilmente solo perché qualcuno
voleva favorire l’ingresso nella gestione della società della Lega. La ragione
del primo cambio era stata, infatti, il ritrovamento di uno scarafaggio in una
pentola. Come Fim abbiamo cercato di contrastare questa serie di scelte
sbagliate che noi non condividevamo, ma abbiamo dovuto subire perché eravamo
minoranza.
Nel giugno ’84, ci sono
stati i prepensionamenti a Cailina, Dalmazia, Officina Tura, Nuove Fonderie di
Bergamo, Esco Bianchi di Omegna, Sirta di Castegnato, tutti stabilimenti del
gruppo Pietra che poi sono stati chiusi. Circa 350 lavoratori sono andati in
prepensionamento, tutte persone abbastanza anziane. L’azienda disse che non
aveva i soldi per pagare le liquidazioni, soldi che avrebbe dovuto avere da
parte perché sono dei lavoratori, e invece aveva speso. Allora io e il
direttore abbiamo discusso un possibile accordo che prevedeva il pagamento di
50 milioni, in dieci rate da cinque milioni al mese, e a fine del decimo mese
il pagamento del dieci per cento di interessi. Concordammo anche che lui
avrebbe fatto una proposta di scaglionamento di un anno e mezzo e poi io avrei
contrattato fino a dieci mesi. Ne parlai con il leader della Fiom in azienda
che si disse d’accordo. Così siamo andati all’incontro con il direttore dello
stabilimento e abbiamo definito l’accordo. Dopo l’incontro, però, il leader
della Fiom mi ha detto che doveva parlarne con la segreteria provinciale. Al
ritorno da quella riunione aveva cambiato idea e l’intesa non si poteva fare: i
soldi erano nostri e ce li dovevano dare subito. Si accese così un nuovo
scontro tra Fim e Fiom. Venne convocate l’assemblea dei prepensionati, fuori
dai cancelli perché ormai non erano più dipendenti dell’azienda. Arrivò
Squassina e cominciò a predicare: “i soldi sono nostri, ce li devono dare” e
così via. Dopo Squassina presi la parola anch’io e siccome lui è piccolo ed era
salito su uno sgabello, vi salii anch’io. Spiegai che, essendomi consultato
anche con un avvocato, se noi avessimo insistito tra in giunzioni, pignoramenti
sarebbero passati almeno due anni, e se poi si trovava un giudice che diceva di
dare i soldi ai lavoratori in tre o quattro rate i tempi sarebbero diventati
lunghissimi. “La proposta fatta dall’azienda, e che io sostengo, mi sembra una
mediazione accettabile. Sono d’accordo anch’io che sarebbe meglio prendere
tutto e subito, ma se noi insistiamo c’è il rischio che l’azienda blocchi le
produzioni, dove sono impegnati i nostri compagni di lavoro. Provate a
immaginare cosa potrebbe accadere allora”. A quel punto l’assemblea si agitò un
po’, qualcuno protestò e minacciò, ma poi la gente se ne andò. All’assemblea erano presenti anche un gruppo
di poliziotti della Digos in borghese che conoscevo per aver incontrato più
volte in manifestazione, e uno mi disse che il clima non era il più adatto per
fare affermazioni del genere, che se fosse successo qualcosa loro erano in
pochi per contrastare la massa degli operai. Ma tutto è finito senza che
accadesse nulla.
La Fiom chiese
immediatamente una riunione in sede sindacale. Ci andai anch’io. Quando arrivai
c’erano già venticinque persone. Prese la parola l’avvocato della Cgil, che
ribadì la tesi del pagamento immediato. Toccò ancora a me contrastare quella
tesi e ribadire la nostra posizione, ma la Fiom decise di raccogliere le firme
di coloro che chiedevano il pagamento immediato della liquidazione. La
richiesta venne firmata solo da una ventina di persone su 350. Sulla base di
queste l’avvocato fece seguire una denuncia. L’azienda ha tenuto duro sulla
posizione concordata, pur senza nessuna intesa formale e alla fine tutti hanno
avuto i loro soldi. Io dissi al direttore che per quei venti doveva aspettare
il giudizio del tribunale, ma lui preferì dare i soldi anche a loro. Alla fine
il Tribunale impose all’azienda di pagare a quei venti gli interessi degli
interessi, una piccola cifra in più, che la Fiom vantò come una grande
vittoria. Ma la liquidazione l’avevano presa solo grazie alla disponibilità
dell’azienda, perché i tempi del Tribunale furono molto più lunghi.
Dopo qualche tempo ero in
banca ed entrò uno di questi lavoratori, un iscritto alla Fiom, uno dei più
accaniti, uno di quelli che ti sputavano addosso, e sentii che diceva alla
moglie: ecco, quello è Ambrosini. Dentro di me temevo che si aprisse una
discussione tra la gente sulla questione della liquidazione, e infatti la
signora venne verso di me: “Bravo signor Ambrosini, lei è una persona
intelligente, abbiamo avuto i soldi, non come quei deficienti che volevano
tutto subito e rischiavano di non farci prendere niente”.
Non ho mai avuto altri
impegni fuori dall’azienda, e ho rifiutato la proposta di collaborare con i
pensionati. Sono stato nel direttivo provinciale della Fim. Ho partecipato ad
alcune iniziative formative, mi hanno chiesto anche di lasciare la fabbrica per
fare l’operatore, ma non mi sentivo all’altezza, non avevo potuto studiare e
pensavo ci fosse bisogno di persone più preparate, anzi mi dava fastidio quando
vedevo qualcuno che si dava da fare per fare il sindacalista e secondo me non
era in grado.
Ho vissuto i contrasti in
casa Fim, in particolare lo scontro con gli autoconvocati della Om. Franco
Castrezzati mi ha sempre sostenuto nella mia iniziativa e io ho sempre creduto
nella sua linea. Per me l’autonomia sindacale era importante, non mi piaceva
sentire che si facevano certe scelte perché si era democristiani o meno. Ho
sempre avuto le mie simpatie, ma non ho mai detto ad un lavoratore per chi
votare, anche se quando c’erano le elezioni c’era chi mi telefonava per
sollecitarmi.
In occasione del referendum
sull’aborto la Fiom chiese la convocazione del consiglio di fabbrica per
discutere della questione e prendere posizione come cdf. Noi della Fim eravamo
contrari. Così, dopo due giorni di discussione loro sono usciti con un
volantino in cui i delegati della Fiom invitavano a votare No all’abolizione
della legge sull’aborto. Anche se anch’io ero d’accordo, non condividevo che
fosse il cdf a prendere posizione.
Era un comportamento usuale.
Come si avvicinavano delle scadenze politiche la Fiom si mobilitava per
organizzare scioperi, fare prese di posizioni e ogni volta erano scontri duri
Mi piace andare in
bicicletta. Sono sposato con due figli. Ho sempre cercato di tenere mia moglie
fuori dalla mie vicende, anche e soprattutto quando la tensione era più alta.
Ha avuto modo di conoscere alcuni dirigenti della Fim, perché ogni tanto
venivano a casa mia per parlarmi, in particolare in occasione dello scontro con
Gamba sul futuro dell’azienda. Qualche volta mia moglie mi vedeva nervoso e
preoccupato, ma io la sera quando andavo a letto riflettevo sui miei
comportamenti e mi sentivo tranquillo.
Quando c’è stata la strage
di Piazza della Loggia, io ho fatto la notte, sono uscito e sono andato a
riposare. Mi sono alzato alle 8 e mezza per andare in manifestazione, ma
pioveva e sono tornato a dormire. Mi ha svegliato una telefonata che mi ha
raccontato il disastro successo. Sono andato in piazza e ci sono rimasto non so
per quanto tempo.