lunedì 3 agosto 2020

CESARE REGENZI - Filca, Cisl - Brescia, Lombardia, nazionale

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Impegno e passione. Gli anni caldi della Cisl in Lombardia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016

 

Sono nato l'8 settembre 1942 a Provaglio d'Iseo, sono cresciuto in città a Brescia e sono tornato lì più tardi. Sono figlio di contadini, i miei lavoravano un po' di terra, poi sono diventati gestori di una trattoria, quindi fruttivendoli. La mia è stata una formazione cattolica anche se mia madre era esplicitamente socialista, mio padre anche, ma molto meno deciso. Mio padre era del ‘16, aveva fatto sette anni di militare e soprattutto nel dopoguerra, quando ero ragazzino, era disamorato di tutto. Col tempo piano piano ha ripreso a pensare e anche a impegnarsi. La famiglia era sostanzialmente socialista e di formazione cattolica. I salesiani e l'osteria sono stati e miei luoghi di formazione. Soprattutto in trattoria la frequentazione era ampia, era in una zona di Porta Venezia. Al mattino alle cinque arrivavano gli operai della Wuhrer a bersi il grappino e si chiudeva all'una di notte.

Ho frequentato l'avviamento industriale che ho finito a quattordici anni, il 9 settembre ero già a lavorare a fare l'incisore in una argenteria di Brescia, Petruzzi e Branca, via Salita della memoria 1. Lasciata quell'azienda sono passato in un altro laboratorio artigiano, dove ho imparato a fare il foto incisore zincografo, che lavorava per le tipografie di Brescia e sono rimasto lì fino a quando sono andato a fare il militare. Quando sono tornato nel 1964 ho scoperto che sostanzialmente ero disoccupato perché il mio posto era occupato da un altro e non c'era spazio per entrambi. Ho fatto un po' di domande e un giorno mi sono presentato alla Mondadori dove mi hanno spiegato che avevo fatto un'esperienza meravigliosa, che avevo imparato un lavoro che era un'arte che però era un mestiere destinato a scomparire in breve tempo, e se volevo c’era un'opportunità per andare in Canada. I miei genitori erano ovviamente contrari, si dettero da fare e mi trovarono un posto in un'azienda siderurgica di Brescia, la Pietra Spa, ed io ho cominciato la vita da operaio e lì ho incontrato il sindacato. Alla Pietra sono rimasto fino al 1970 quando ho avuto il distacco.

Ho iniziato a sentire parlare di sindacato nell'osteria dei miei genitori perché a volte c'erano delle baruffe tra i rossi, il sindacato bianco e cose di questo genere. Nel 1963 c'è stato uno scontro duro tra lavoratori e polizia con pestaggi e feriti. Che cosa fosse il sindacato lo sapevo, ma niente di più. Alla Pietra lavoravano migliaia di persone, appena entrato ho trovato dei lavoratori che mi hanno proposto di iscrivermi al sindacato, io ho scelto la Cisl semplicemente perché per la mia formazione alla Camera del lavoro c'erano i comunisti. In fabbrica, dopo i primi mesi di ambientamento, ho conosciuto Gino Compagnoni, che allora era uno dei segretari della Fim che seguiva la Pietra, e ho iniziato a partecipare ai primi incontri. Le riunioni si facevano alla sera, la domenica mattina. Il primo incarico che ho avuto è stato quello di partecipare alla commissione per la contrattazione per il premio di produzione e i cottimi. Poi abbiamo costituito la Sas e sono diventato il segretario e quindi sono stato eletto nella commissione interna. Il momento vero di svolta è arrivato in occasione del rinnovo del contratto nazionale del 1966. In quell'occasione scioperavamo da soli come Fim e quella fu la prova del fuoco, perché gli scioperi erano difficili da fare e nelle discussioni e nel confronto, che a volte era aspro, divenni uno dei leader in azienda.

 

In fabbrica si discuteva essenzialmente dei problemi dell'azienda, poi c'era anche qualche dibattito più politico, ma i problemi erano il cottimo, la paga di posto. C'era la paga minima stabilita contrattualmente, poi per ogni piazza di lavoro c'era un coefficiente che dava diritto a una quota ulteriore di retribuzione. Questo sistema alimentava discussioni infinite su chi lavorasse di più o di meno. La mensa era il luogo del dibattito. Il tema centrale erano i soldi, che erano pochi, altra questione era l'ambiente di lavoro. La sensibilità sui temi della sicurezza c'era, ma era oggettivamente bassa. Io mi sono rovinato la faccia perché si è rotta una circolare che mi ha colpito in volto e mi hanno dato trenta punti. L'ambiente di lavoro era tremendo, con tubi incandescenti davanti e dietro a 1.200°. Accanto alla Pietra c'erano diverse altre aziende siderurgiche e le abitazioni lì intorno ogni giorno si riempivano di polvere e le donne al mattino uscivano con la scopa a pulire i davanzali. Si lavorava su tre turni, dalle sei del mattino, per sei giorni. La domenica mattina chi faceva il primo turno andava a fare le pulizie e la manutenzione straordinaria.

 

L'autunno caldo l'ho vissuto in azienda e ho preso anche qualche denuncia perché non si potevano fare le assemblee ma noi le facevamo lo stesso, i padroni un po' mugugnavano e un po' denunciavano. Normalmente lo sciopero iniziava alle sei del mattino e finiva alle sei del giorno successivo, però se dentro i forni c'era ancora del materiale da lavorare non è che si staccava e si lasciava lì, si finiva la lavorazione. Finito lo sciopero, prima della ripresa del lavoro, qualcuno entrava per preparare i forni, ma in quel periodo nessuno voleva andare. C'erano scioperi spontanei e a quelli che entravano si urlava crumiro. Era uno scontro durissimo e senza esclusione di colpi, se uno si lamentava veniva immediatamente spostato di posto. Io venni spostato sul “pulpito riduttore” che era una postazione di lavoro abbastanza leggera, però ero isolato. Per parlare con me bisognava fare le scale e venire nel gabbiotto di vetro in cui ero e tutti vedevano. Negli anni in fabbrica era cresciuta la rabbia, era una molla compressa per una situazione non più sopportabile. Nel 1965, quando sono entrato alla Pietra, eravamo ancora al tempo dei padroni delle ferriere: diritti zero, urla tante, paghe poche, sudore tanto e man mano che il tempo passava cresceva la voglia di farla finita. Probabilmente una spinta arrivata anche dall'esterno ha portato a reazioni a volte finanche eccessive. Perché qualche volta li guidavamo, ma altre volte ci scappavano di mano. Nulla di eccezionale, però eravamo al punto in cui la gente ha detto basta. Si facevano i picchetti, venivano dei carabinieri a tenere aperti i cancelli per far entrare i crumiri, si dibatteva sul diritto di sciopero. Mantenevo un rapporto stretto con l'operatore della Fim che ci seguiva e quando finivo il mio turno passavo dal sindacato e si scambiavano quattro chiacchiere. A volte la sera ci si trovava in Cisl dove c'era un lungo tavolone e si preparavano i volantini, si mettevano in fila e in fondo c'era Pillitteri con la pinzatrice. Con gli operatori eravamo in sintonia perché era tutta gente che veniva dalla fabbrica, Emanuele Braghini veniva dalla Om.

Alla Pietra c'era un altro leader e capopopolo, Angelo Lecchi, un po' più vecchio di me e una sera mi ha invitato a cena a casa sua dicendomi che aveva preparato il salmì con la lepre. Io ero convinto di trovare a tavola gli altri cislini della commissione interna e invece ci trovai Compagnoni e Pillitteri. Quella sera si discusse un po', dopo ho capito che era l'occasione per conoscermi e capire cosa pensassi. Era l'esame. Nel frattempo mi ero sposato e avevo già due figli, due gemelle.

Al congresso del 1969 sono intervenuto sia a quello della Fim che a quello dell'Unione e qualche tempo dopo mi hanno proposto di fare un'esperienza al sindacato. Allora non c'era la legge 300 e si poteva staccarsi per sei mesi senza contributi. Feci la prova e dopo i sei mesi andai a rassegnare le dimissioni. Mi ricordo la scenetta all'ufficio del personale dove c'era un vetro e dall'altra parte la factotum, mi passò il modulo delle dimissioni da firmare e appena ebbi firmato esclamò: “Questo ce lo siamo tolto dai coglioni”.

In quei sei mesi ho fatto l'operatore alla Filca perché la categoria era debole e aveva bisogno di nuove energie. Nella Cisl la Fim era il pezzo più robusto, la Fisba era ben organizzata. Tra i braccianti il rapporto con la Cgil era fifty-fifty ed era guerra continua, nei meccanici pure, nel pubblico impiego e nei tessili la Cisl aveva un'egemonia mai messa in discussione mentre gli altri si accontentavano di testimonianze, noi facevamo testimonianza negli edili. C'era bisogno di rafforzarli e scelsero uno un po' ruspante, di idee non proprio bigotte.

In Filca c'era solo Dino Rocca e poi sono arrivato io, il rapporto con la categoria della Cgil era di nove a uno. Siccome venivo dai meccanici subito mi sono occupato degli impianti fissi, perché in Filca c'era un robusto settore che comprendeva il legno, il cemento, i laterizi, i manufatti in cemento e che aveva problematiche simili a quelle industriali. Dopo qualche mese arrivò un altro operatore, Emilio Tedoldi, e per un lungo tratto di strada siamo stati insieme e ci siamo ripartiti i compiti e siccome nel frattempo avevo cominciato a fare esperienza nei cantieri ho scelto gli edili. Con il congresso del ‘73 si costituì la prima segreteria della Filca bresciana. In testa avevo che arrivavamo noi giovani e si cambiava tutto. In quel periodo si fece il trasloco da una sede all'altra e io buttai via anche i verbali del congresso. Nel 1975 a causa della malattia di un segretario nazionale rimase scoperto un settore della Filca nazionale e passai a fare l'operatore trasferendomi a Roma e nel 1977 sono entrato nella segreteria nazionale e ci sono rimasto tra alterne vicende fino al 1985. Arrivato a scadenza dei due mandati sono tornato in Lombardia nella segreteria regionale della Filca. In quel momento il segretario generale era Luigi Boffi e dopo un po' nel 1989 l'ho sostituito alla segreteria generale. Nel 1993 sono entrato nella segreteria regionale della Cisl con Pezzotta. Nel 1999 sono andato a Roma a fare il segretario generale della Filca nazionale e nel 2002 sono entrato nella segreteria nazionale della Cisl dove sono rimasto fino al compimento dei 65 anni. Ho fatto un periodo al Cnel e poi ho chiuso definitivamente. Non sono interessato ad un impegno con i pensionati.

 

Le vicende Filca. Sono arrivato a Roma per sostituire Tiziano Toni e mi sono occupato del settore del legno, cioè della contrattazione industriale. In quel periodo segretario generale era Stelvio Ravizza, che ricopriva quel ruolo dal momento di fondazione della Filca, cioè dal 1955 al 1976. Era arrivato insieme a Giulio Pastore e diventato segretario generale quando è nata la Filca in seguito alla fusione tra gli edili e il legno. Stelvio era lì da una vita ed io ero uno dei giovani leoni che dicevano che bisognava cambiare, lui mi apprezzava e fu lui a chiamarmi a Roma, ma io continuai a fare la mia battaglia per il rinnovamento e mi ricordo che con un gruppo di amici andammo da Luigi Macario, che allora era il segretario generale, per dirgli che era ora di cambiare. Gli chiedemmo che ci mandasse Alberto Gavioli e lui ci mandò Nino Pagani. Dopo un breve periodo di reggenza si fece la nuova segreteria e io entrai nella segreteria poi confermata nel congresso del 1977. In segreteria ero il responsabile degli edili e davo una mano anche dove c'era qualche problema organizzativo, in particolare quando c'era da risolvere qualche problema spinoso in giro per l'Italia. Per due, tre anni andammo abbastanza bene, la categoria cresceva un po' ovunque e avevamo maggiori risorse a disposizione, fino a quando Nino Pagani venne chiamato da Carniti in confederazione e ci fu un momento di sbandamento perché noi giovani eravamo effettivamente troppo giovani per assumere la guida della categoria e i vecchi ormai erano fuori gioco. Si trovò così la soluzione di Giancarlo Pelacchini, una brava persona, ma probabilmente inadatto al ruolo, indeciso in molte situazioni, con sbandamenti sulla collocazione della categoria tra le diverse anime della Cisl. La segreteria andò in crisi, arrivò un nuovo esterno mandato dalla confederazione, il reggente Carlo Mitra. Per un po' si andò d'accordo, ma lui non aveva capito che la categoria degli edili non era quella dei metalmeccanici e in quell'occasione fui io che promossi uno scontro feroce che durò un po' di tempo. Io difendevo la tipicità della categoria, lui invece cercava di introdurre nel settore dell'edilizia la metodologia del contratto dei meccanici. Una cosa che non poteva stare in piedi e infatti ci si divise, discussioni feroci, ordini del giorno, fino a quando Franco Marini, diventato segretario generale, ci chiamò e la scelta fu che lasciammo tutti e due e Natale Forlani divenne il nuovo segretario generale. E io sono tornato in Lombardia.

Mitra aveva atteggiamenti che lo portavano a voler decidere da solo pretendendo che tutti si adeguassero, inoltre la categoria aveva una sua storia diversa da quella di cui lui era portatore. Nel nostro contratto, ad esempio, c'era una norma che diceva che quando uno lavorava con dei ritmi preordinati aveva diritto ad un premio di cottimo che poteva essere al minimo il 23% della paga base più contingenza. Mitra non aveva capito che questa cosa era utile e una notte fece un incontro con gli imprenditori e il giorno dopo ci disse con soddisfazione che il premio era stato ridotto al 7% sui minimi e che questo era un successo perché si apriva la possibilità della contrattazione a tutti i livelli. Non aveva capito l'importanza di quella norma per la categoria. Lo scontro più forte avvenne sulle 150 ore di straordinario obbligatorie. Mentre stavamo firmando il contratto dell'edilizia con la Confapi nella consueta trattativa notturna, sul Sole 24 Ore il mattino alle cinque abbiamo letto che la sera precedente tra Ance e Flc era stata concordata l'istituzione di 150 ore di straordinario obbligatorie. Anche in questo caso non aveva capito la specificità del settore. I muratori le ore straordinarie le fanno, d'estate lavorano anche dieci ore, ma un conto è che siano obbligatorie un altro conto è che vengano contrattate di volta in volta.

 

Il tema delle incompatibilità è maturato nel tempo, non ci si rendeva conto che gli anni Cinquanta erano finiti. È vero che le divisioni tra Cgil e Cisl erano profonde, ma noi avevamo una gran voglia di essere i migliori e di essere diversi. L'incompatibilità era connaturata al mio pensiero, ma anche a quello di molti della Cisl. Una Cisl che non è solo un sindacato, ma che si radica soprattutto nell'essere un sindacato. Quando sono arrivato questo problema non si poneva neppure più perché era già stato affrontato e risolto da Pillitteri al suo approdo a Brescia. Angelo Gitti se n'era andato, Dionigi Coppo, pur essendo di origine bresciana, era ormai un nazionale che con Brescia non aveva più alcun rapporto. C'erano sì alcuni parlamentari come l'onorevole Michele Capra, sostenuto dal gruppo della Fim all'Om, che aveva un consenso tale che riusciva ad eleggere un parlamentare, ma questo non inficiava in alcun modo l'incompatibilità e l'autonomia che erano connaturati alla Cisl. Se non fosse stato così non avrei scelto la Cisl, non sarebbe stata casa mia e non mi sarei trovato a mio agio.

Ci rimasi male quando la Cgil, nel congresso del 1968, scelse l'incompatibilità prima della Cisl, che la formalizzò l'anno successivo. Era una battaglia nostra, che avevamo condotto noi e loro da bravi opportunisti la decisero, anche se sappiamo che nel loro caso era solo formale e non effettiva. Agostino Novella, allora segretario generale della Cgil, scelse l'incompatibilità tra mandato sindacale e mandato politico. Io mi sono arrabbiato moltissimo per questo fatto.

 

Già negli anni ‘67, ‘68 il tema dell'unità sindacale nelle fabbriche era presente. Si litigava animosamente, e mi ricordo di aver fatto volantini di fuoco contro il rappresentante della Cgil con cui peraltro eravamo quasi amici, ma il clima era diverso, si vedeva che si andava verso la costruzione dell'unità. Non era più quel clima di rottura degli anni Cinquanta e inizio Sessanta. Loro continuavano a dire che noi eravamo più vicini ai padroni che ai lavoratori, però lo dicevano più che pensarlo. Quindi quando si arrivò al ‘69 l'unità, seppure un po' superficiale, già c'era. Quando si iniziarono a fare le assemblee ci si trovava in sede una volta da noi e una volta da loro, si faceva l'elenco delle assemblee programmate e ci si andava insieme. Era una forma di unità d'azione che però già aveva qualcosa di più, soprattutto tra i giovani.

La Filca fece il congresso nazionale convocato per lo scioglimento proprio nel momento in cui si passò al patto federativo. Il congresso si teneva a Salsomaggiore e tre giorni prima Cgil-Cisl-Uil avevano dato vita alla federazione e si era capito che l'unità organica non si faceva più. Quindi si votò un documento che diceva che anche la Filca avrebbe realizzato la federazione con le categorie di Cgil e Uil. Votammo contro in sei o sette. Alle spalle troneggiava ancora lo slogan del congresso con la scritta "Congresso di scioglimento".

 

Nel congresso nazionale del 1969 uscì vincitrice la linea di Bruno Storti e Vito Scalia e al congresso del 1973 la maggioranza era schierata con Storti contro Scalia. In categoria ci furono numerose discussioni, ma per la struttura organizzativa della categoria, nella quale il ruolo dei dirigenti a tempo pieno è dominante, come purtroppo oggi accade in quasi tutte le categorie, la scelta fu chiara. Quando ero segretario della Sas in fabbrica e la Sas aveva seicento iscritti, c'era gente che faceva il segretario comunale, chi era impegnato attivamente nel partito. Negli edili c'era il dirigente esterno a tempo pieno, qualche capopopolo e poco altro. Quando si spostava l'asse politico della confederazione inevitabilmente si spostava anche la categoria. Infatti nel congresso del ‘73 mi pare che ci fosse il povero Morso di Catania che, essendo figlioccio di Scalia, fece la sua battaglia di testimonianza, qualche cosa c'era in Calabria a Catanzaro dove c'era Totò Galati. Mi ricordo che nel congresso nazionale della Filca, che si fece dalle parti di Rimini, venne Scalia e metà di noi lo ascoltarono girandogli letteralmente le spalle, lui però parlò tranquillamente.

 

La categoria nei primi anni Settanta dovette affrontare problemi basilari, la metà dei lavoratori erano infatti inquadrati come manovali comuni. Non era vero, però erano retribuiti così. Il contratto di allora diceva che manovale comune è colui che fa lo scavo a sezione obbligata. La categoria era veramente a livelli primordiali. La mensa non esisteva, gli spogliatoi neppure. Si sono fatte battaglie tremende, come quelle per la realizzazione delle mense territoriali. Il cantiere era pericolosissimo, ci inventammo il comitato paritetico antinfortunistico con dei funzionari scelti tra gli imprenditori che andavano nei cantieri e facevano i verbali di tutte le manchevolezze che c'erano, ripassavano a controllare dopo quindici giorni e se ancora la situazione non era migliorata si facevano le denunce all’Ispettorato del lavoro. Non si può dire che i cantieri siano cambiati molto, diciamo che stavamo talmente male che la situazione è un po' migliorata. Oggi è difficile vedere un cantiere senza i ponteggi, senza le paratie che evitano le vertigini, è difficile vedere un muratore sul tetto senza imbragatura. Una volta le cadute erano all'ordine del giorno, c'era anche un po' di incoscienza.

In quelle poche aziende edili di grandi dimensioni si faceva sindacato nel modo più puntuale di intendere il lavoro sindacale, si faceva contrattazione aziendale. Nei grandi cantieri, ad esempio, la costruzione di una centrale elettrica, si faceva contrattazione sulla produttività. I lavoratori partecipavano, anche perché a differenza che in altre categorie i delegati dell'edilizia normalmente erano gli operai migliori. Mentre in un'azienda metalmeccanica l'operaio massa poteva diventare delegato, nell'edilizia chi non sapeva fare il suo mestiere non si cimentava neppure. I delegati erano tutti operai provetti, i migliori e per questo avevano seguito tra i lavoratori e avevano anche il rispetto degli imprenditori.

Organizzare uno sciopero nel settore edile era sempre difficile, data la presenza di tantissime piccole e piccolissime imprese, però c'era una solidarietà della categoria e, quando si chiamava all'appello, gli scioperi si riusciva ad organizzarli, anche quelli generali. Soprattutto nei primi anni Settanta, quando c'erano gli scioperi per le riforme che coinvolgevano tutti, gli edili in qualche modo erano tra i primi a mobilitarsi perché avevano il senso di partecipare per una volta a qualcosa di più grande. In quel periodo e per una decina d'anni la politica della casa della confederazione l'hanno fatta gli edili. La riforma della casa, l'equo canone, il piano di edilizia economica e popolare, il piano Lauricella erano tutte azioni che la categoria si sobbarcava in nome e per conto della confederazione e delle tre centrali cooperative.

Seguire la categoria era impegnativo, le assemblee si facevano solo d'inverno perché d'estate i muratori non hanno tempo di ascoltare i sindacalisti. I cantieri normalmente erano in luoghi disagevoli, spesso si tenevano negli scantinati delle costruzioni, mettevano un bidone di quelli da due quintali e ci buttavano dentro un po' di legna per riscaldarsi un po'. Si facevano gli incontri alla sera, magari per poche persone che a volte non capivano neppure bene quello che gli si diceva. A volte le riunioni si tenevano nell'intervallo di pranzo.

Lavoravo per la categoria, ma allo stesso tempo ero impegnato anche per la Cisl, se c'era da fare un volantino, organizzare uno sciopero di un'altra categoria si dava una mano. Bisogna considerare che allora eravamo pochi, e quelli del pubblico impiego andavano per la loro strada. Il vero nerbo dell'organizzazione era l'industria e noi degli edili eravamo con loro. Con i miei colleghi delle diverse categorie c'era un rapporto umano molto stretto.

 

Nel nostro settore non abbiamo avuto una presenza significativa di gruppi extraparlamentari, né autonomi.

 

Donne ce n'erano nel settore del legno e abbiamo avuto anche alcune delegate particolarmente impegnate sindacalmente.

 

Ho condiviso profondamente l'idea dell'egualitarismo con le richieste di aumenti uguali per tutti, ci fu anche chi arrivò all'eccesso di chiedere che siccome gli impiegati guadagnavano di più, gli aumenti dovevano essere inversamente proporzionali. In edilizia però l'idea di aumenti uguali per tutti non ha mai attecchito per la tipicità del mestiere e il contratto dell'edilizia non ha mai chiesto aumenti uguali per tutti. Le competenze e le responsabilità nei cantieri erano assai diverse, una realtà che gli stessi lavoratori ben comprendevano. Dove abbiamo avviato qualche discussione su questi temi erano gli stessi lavoratori a dire che non era giusto.

Mi sono battuto come un leone per il punto unico di contingenza, salvo scoprire sei mesi dopo che forse non era la strada giusta.

 

Con lo Statuto dei lavoratori è cambiato profondamente il modo di fare sindacato, è stata una frattura netta. Prima dello Statuto, quando si dovevano distribuire i volantini bisognava stare sul marciapiede opposto all'ingresso del cantiere. Se si doveva volantinare in più aziende e non si riusciva a farlo contemporaneamente, non si poteva affiggerli ai pali intorno al cantiere perché usciva la guardia e li strappava. È cambiato il clima, ma sono cambiate anche le regole. La Cisl teoricamente era contraria alla legge che regolava i rapporti di lavoro, ma non si è opposta. Io ero contento per queste nuove regole. La Cisl dopo l'approvazione dello Statuto è cresciuta in maniera esponenziale.

 

Con l’esplodere delle proteste i padroni all'inizio hanno fatto fuoco e fiamme, hanno fatto denunce su denunce per occupazione di suolo privato, per l'occupazione di aziende, però dopo un po' la maggioranza degli imprenditori si è resa conto che il mondo era cambiato e bisognava adeguarsi. Qualcuno che ha fatto resistenza, soprattutto nelle grandi aziende bresciane, c'è stato, qualche padrone assumeva i fascisti apposta per contrastare l'azione sindacale.

 

Governi di unità nazionale. Ho sempre pensato che l'associare i comunisti al governo fosse una cosa utile, non dico giusta, ma necessaria. Il Paese era ingovernabile senza che nel governo fossero coinvolti coloro che avevano una rappresentanza vera. E i comunisti ne rappresentavano una bella fetta. La cosa non mi entusiasmava, ma non la vedevo negativamente. Con il governo di unità nazionale si cominciarono a fare le riforme alla rovescia, si cominciò a parlare di moderazione salariale, si decisero l'abolizione delle festività, i tagli dei ponti. L'idea che siccome erano arrivati i comunisti al governo allora si potesse ridurre ciò che avevamo conquistato in quegli anni non mi è mai andata giù del tutto. Mentre la moderazione salariale impostata all'Eur - il salario non più variabile indipendente, che qualcuno anche in casa Cisl aveva teorizzato - io l'ho sempre condivisa. La moderazione salariale e il vincolare i salari all'andamento dell'economia e delle aziende era una cosa che condividevo, l'idea che siccome c'è un governo di unità nazionale cominciamo a tagliare e diventare moderati su tutto, questo invece non lo condividevo. Mi ricordo d'aver scritto anche un paio di articoli sull'Eur e l’interpretazione di quelle scelte.

 

Per me l'esperienza sindacale è stata la mia vita, per me ci sono state la mia famiglia e la Cisl. La prima volta che sono andato a Roma mi sono portato la famiglia, i collegamenti non erano facili come oggi. Ho fatto un anno in cui partivo da Brescia col treno in cuccetta di seconda classe la domenica sera a mezzanotte e arrivavo il lunedì mattina alle otto e tornavo il venerdì sera alle undici per essere a casa il sabato mattina. A Roma dormivo alla pensione Giorgi, soldi ce n'erano veramente pochi.

 

La contaminazione tra le diverse culture sindacali era forte. La Cgil le categorie le ha inventate per seguire la Cisl, c'era la Camera del lavoro che comprendeva tutto quanto, poi si sono adeguati al nostro modello. Un altro esempio è quello della contrattazione aziendale per la quale eravamo accusati di dividere i lavoratori, dopo di che la contrattazione di secondo livello è diventata patrimonio di tutto il movimento sindacale. Lo stesso vale anche per altre cose. Qualche volta li abbiamo anche trascinati sulla strada sbagliata, perché ad esempio gli aumenti uguali per tutti li abbiamo teorizzati noi ma li hanno cavalcati a lungo, mentre non siamo riusciti a convincerli sulla riduzione dell'orario di lavoro.

 

Non ho mai nascosto di essere socialista. Sono stato iscritto al partito ma non ho mai militato. Nella mia esperienza personale la politica non ha mai condizionato le scelte sindacali, non ho mai subito pressioni. Il mio settore è molto chiacchierato, ma nessuno ha mai tentato di corrompermi. Anche a livello generale non credo ci siano stati grandi condizionamenti della politica sulle scelte della Cisl. Certo, se si fosse fatta l'unità probabilmente un pezzo di Cisl, dichiarandosi difensore di un certo modo di essere, si sarebbe scissa.