Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Lavoro e cristianesimo. Un problema aperto”, di Sandro Antoniazzi e Costantino Corbari, Jaca Book, Milano, 2019
Nato l’8 agosto 1954 a Lecco dove vive. Cresciuto in oratorio, ha iniziato a lavorare a quindici anni impegnandosi presto nell’azione sindacale. E’ stato segretario generale della Cisl di Lecco. Collabora con l’Ufficio diocesano della pastorale sociale e del lavoro.
Mia mamma mi ha educato con l’esempio di un cattolicesimo vissuto. Abitavamo in un quartiere periferico della città, ma ho frequentato l'oratorio centrale di Lecco insieme ai miei compagni di scuola. In oratorio, nei gruppi degli adolescenti, ho fatto l'esperienza della Giac che nasceva in quegli anni. Una bella esperienza che mi ha aiutato nelle scelte negli anni successivi. Nel gruppo solo in due abbiamo iniziato a lavorare presto, tuttavia le proposte, le riflessioni che facevamo insieme mi hanno aperto le porte all’attenzione sui temi sociali.
Sono andato a lavorare a quindici anni, continuando
a studiare come perito alla sera. Era il 1969 ed erano anni in cui c'era molto fermento,
il sindacato era al suo apice. Vicino a noi c'era la Sae che era l'azienda più
grande di Lecco e gli operai arrivavano anche nella mia aziendina a farci
scioperare. Io non ho mai avuto bisogno di essere sollecitato, lo sciopero l'ho
sempre fatto, poi mi univo a loro nei cortei che si muovevano tra le diverse
fabbriche.
Ho avuto la fortuna di conoscere quasi subito don
Franco Resinelli che allora era assistente delle Acli ed era responsabile della
pastorale del lavoro, un'esperienza che si iniziava giusto in quegli anni. Don
Franco, spesso insieme a Tina Manzoni, una delegata della Fiocchi, ci proponeva
degli incontri fuori dall'orario di lavoro per conoscere da vicino che cosa fosse
il sindacato, per leggere la busta paga, tutti argomenti molto concreti.
Attraverso questi incontri ho imparato i primi fondamenti dell’azione sindacale
e che cosa la Chiesa aveva da dire rispetto al lavoro e ai lavoratori e questo
mi ha aiutato molto nell'indirizzare una sensibilità che molto probabilmente
avevo già acquisito.
Già all'età di sedici anni, spesso alla sera, andavo
con don Franco a incontrare i parroci della zona per cercare di sensibilizzarli
sul tema del lavoro e ho condiviso la delusione del vedere sacerdoti che
facevano fatica ad aprire la porta quando gli proponevamo dei momenti di
riflessione. Sono entrato in una dinamica che mi ha consentito di conoscere le difficoltà
che la Chiesa aveva nel recepire gli elementi di stimolo e di innovazione che
c'erano in quegli anni e che erano poco vissuti nell'ambito parrocchiale.
Attraverso la lettura dei documenti ho iniziato a
prestare attenzione alla dottrina sociale della Chiesa e alla pastorale del
lavoro e mi si è spalancato un mondo. Lo studio delle encicliche, a partire
dalla Rerum novarum e di tutto ciò
che la Chiesa proponeva in tema di lavoro, che purtroppo non era conosciuto,
oltre all'esempio di alcuni lavoratori cui sono stato molto vicino, sono stati
la guida per le mie scelte.
Ho avuto molti stimoli a partire dal primo campo
estivo che abbiamo fatto come pastorale del lavoro dove ho conosciuto il
pensiero di Madeleine Delbrel, una assistente sociale francese che mi ha molto
colpito per le sue esperienze di cristiana impegnata nelle periferie. Poi sono
stato colpito dal personalismo di Emmanuel Mounier che molti in quegli anni
avevano fatto proprio e cercavano di tradurre in concreto. Erano stimoli
importanti che insieme alle encicliche e all'insegnamento sociale della Chiesa
sono stati molto utili alla mia maturazione.
In quel momento sentivo la Chiesa molto vicina per
il suo insegnamento, ma allo stesso tempo vivevo la sua lontananza nella realtà
concreta. Quasi subito in fabbrica mi sono impegnato a rilanciare il consiglio
di fabbrica e i miei datori di lavoro più volte si sono rivolti al mio parroco
per farmi desistere, dicevano che ero un rosso. Ovviamente il mio parroco si
guardava bene dal dirmi di non fare quello che ritenevo giusto, ma le
contraddizioni emergevano, il clima era un po' questo. Chi si impegnava sul
lavoro era sostanzialmente un comunista, non poteva essere un cattolico.
In azienda mi sono subito iscritto alla Flm, il
sindacato unitario dei metalmeccanici, però ben presto mi sono avvicinato a
coloro che sentivo più affini rispetto alle motivazioni dell’impegno sul luogo
di lavoro. Ho iniziato così a frequentare la Cisl trovando persone più vicine
alla mia visione e al modo di fare sindacato. La cosa che mi ha colpito da
subito era la proposta che si fondava sui contenuti della dottrina sociale
della Chiesa senza che questo volesse però dire che la Fim fosse un sindacato
confessionale. Questo era un aspetto importante perché poteva far condividere
con altri, anche non credenti, valori e tensioni che per me scaturivano anche
dal fatto di essere credente.
Quando la Cisl ha rischiato di cambiare questa
impostazione io sono stato assolutamente critico nel merito, perché la scelta
della non confessionalità delle origini è un valore in sé. Questo è avvenuto in
particolare durante la gestione di Bonanni che ha messo in atto una sorta di
tentativo di costruzione di alleanze alle quali la Cisl partecipava
qualificandosi come associazione cristiana, cosa che non è. Certo, io sono
assolutamente convinto che molte delle questioni di fondo della nascita della
Cisl affondano le radici nell'ambito cattolico, ma da qui a professarsi come
organizzazione cattolica, anche in modo subdolo come si è tentato di fare, non
l'ho mai condiviso. Ho cercato di far presente ai dirigenti di allora che si
doveva essere coerenti. Va detto che nell'ambito della Chiesa
contemporaneamente c'è stata molta correttezza e i vescovi lombardi credo
fossero assolutamente consapevoli su quale dovesse essere il ruolo della Cisl,
che non doveva essere un ruolo collaterale, bensì autonomo. Uno spazio che doveva
essere, questo sì, una palestra importante per professare l'impegno sociale e
sindacale con coerenza rispetto alla dottrina sociale della Chiesa.
Gli ultimi due papi, a partire dalla Caritas in veritate, hanno saputo
interpretare i cambiamenti che sono avvenuti a livello globale nel mondo del
lavoro. Però in alcuni settori della Chiesa anziché cercare di vedere come
fosse possibile continuare a essere presenti a testimoniare la propria
esperienza cristiana in un mondo del lavoro così frammentato, ci si è fermati
alla constatazione che il movimento operaio si è indebolito e non ha più un
ruolo determinante nella società. Come a dire che adesso ci si deve occupare
d'altro. E questo lo dico con rammarico perché l'insegnamento sociale della
Chiesa, in particolare con gli ultimi documenti, come il capitolo quarto dell’Evangeli gaudium, che in qualche modo ricapitola le fondamenta della
dottrina sociale della Chiesa, non è mai stato così esplicito come adesso.
C'è una chiara contraddizione. Il messaggio non è
mai stato così diretto, il suo recepimento mai così poco accolto. Ho constatato
come molti, che un tempo si erano impegnati a sensibilizzare le parrocchie e
che oggi troverebbero ancora più sostegno nelle parole del Papa, sono andati in
crisi. Probabilmente si sono logorati in questi anni nel non vedere cambiamenti
in termini di sensibilità dei loro parroci e hanno lasciato.
L'Ufficio diocesano della pastorale del lavoro, dopo
l'esperienza di don Raffaello e di Lorenzo Cantù, oggi è stato svuotato, è
necessario invece investire e c'è bisogno di un intervento per rilanciarlo.
Come sempre le eredità quando sono forti e impegnative non sono facili da
raccogliere. Il tentativo di parlare di sociale in senso ampio rischia di far
dimenticare una delle questioni fondanti della società che è il lavoro, la
centralità e la dignità del lavoro hanno bisogno di essere riaffermati
continuamente. Peraltro dire che la pastorale non deve essere solo del lavoro
ma sociale nel suo complesso, quindi ricomprendere una serie di azioni che si
facevano in altri ambiti come ad esempio la formazione all'impegno, è stata una
cosa importante. Manca però la capacità di far passare queste affermazioni nel
tessuto concreto della comunità cristiana.
Chi che fa esperienza della centralità del lavoro
nella propria vita deve tradurre questa sua sensibilità nel sociale, ma non è
sufficiente. Si rischia ancora una volta di delegare solo a chi si impegna in
prima persona la traduzione concreta di questi valori. E’ un problema che c'era
anche quando ero più giovane, oggi però le difficoltà sono maggiori. Allora il
mondo operaio era forte, ora è frammentato.
Un altro rischio che oggi si corre è anche quello di
declinare il sociale solamente in chiave politica. Però passi avanti si stanno
facendo, si sta comunque cercando di far sì che il mondo del lavoro, pur nella
sua disgregazione e nella sua complessità, possa essere rimesso al centro. In
particolare, da parte della Chiesa ambrosiana vedo il tentativo di recuperare
un'attenzione quotidiana al tema del lavoro.