martedì 4 agosto 2020

NICOLA MESSINA - Direttore relazioni sindacali Federchimica

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “L’idea del dialogo. Cultura del lavoro, contrattazione, relazioni industriali nella chimica italiana”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2017

Mi sono trovato per circostanze strane ad assumere la direzione delle relazioni industriali di Aschimici nel 1972. E' stata un'occasione particolare, ero senza una struttura, dato che quella preesistente era andata via. Io ero vergine di relazioni industriali e ho trovato un ambiente vergine, praticamente il vuoto. C'era solo un giovane funzionario ma mancava uno staff, non ero affiancato a qualcuno, per cui mi sono dovuto inventare delle modalità di operare. Questo secondo me ha favorito la nascita di esperienze piuttosto nuove rispetto al passato. Tra l'altro la chimica, che occupava oltre 200mila persone, nel 1969 aveva avuto momenti di conflittualità significativi in occasione del rinnovo del contratto nazionale di lavoro.

Mi sono affacciato a quell'esperienza con un settore che aveva diversi problemi, tre in particolare. Uno, la chimica è un insieme di impianti delicatissimi e una delle esigenze fondamentali per l'imprenditore è la pace sociale, la pace all'interno della fabbrica, non tanto per questioni ideologiche, ma perché se si passa ad azioni sindacali disordinate si rischia di danneggiare seriamente gli impianti, alcuni dei quali non possono essere mai fermati pena interventi costosissimi. All'inizio degli anni Settanta si parlava se fosse possibile fare degli accordi con il sindacato non per evitare lo sciopero, ma per regolamentare le condizioni della fabbrica in caso di sciopero. C'era l'esigenza della pace o per lo meno di una regola per la guerra. Praticamente si chiedeva che ci fosse un assetto minimo degli impianti che doveva essere sempre garantito. L'azienda, nei limiti del possibile, rinuncia a commercializzare i prodotti che produce in quella fase, però li produce perché non può fermare l'impianto. Non era assolutamente così nella maggior parte degli impianti dell'industria metalmeccanica, dove si possono fermare le macchine senza grossi problemi.

Un secondo aspetto in quella fase era la preoccupazione per la situazione dell'ambiente e della sicurezza. La chimica manipola prodotti che necessitano di una particolare attenzione, di una specifica formazione, di regole. Nel 1976 esplode l'Icmesa, un disastro ecologico che ha accentuato l'attenzione di tutti sulla problematica dell'ambiente e della sicurezza. Basta riflettere un po' per accorgersi che preoccupandosi di questi problemi si finisce per parlare delle relazioni industriali. Vuol dire parlare della qualità del lavoratore, della formazione, della partecipazione. Nei primi anni Settanta avevamo stabilito un rapporto con il pretore Guariniello che ci faceva delle lezioni per chiarire alcuni aspetti della legislazione in materia e questi incontri li facevamo a mo’ di corsi di formazione ai quali potevano partecipare sia i sindacalisti che i datori di lavoro e i dirigenti. Tutto questo portava a un clima di tipo partecipativo.

Poi c'era un terzo problema, sempre parlando dei primi anni Settanta, ed era il problema legato all'unificazione del punto di contingenza. L'Italia aveva la scala mobile come regola per adeguare i salari all'andamento del costo della vita. La scala mobile prevedeva cifre che erano differenziate a seconda dell'inquadramento del lavoratore, perché il valore punto era maggiore nelle scale gerarchiche più alte e il lavoratore medio non aveva un recupero completo dell'erosione subita dal salario, per cui in linea teorica c'era la possibilità, all'interno del tasso di inflazione, di dare dei soldi nel contratto. Questa opportunità, nel momento in cui Lama e Agnelli nel 1975 concordano l'unificazione del punto di contingenza, finisce. Tra l'altro, nel settore chimico il salario era definito in percentuali. Cioè le voci come gli scatti di anzianità, gli straordinari, il lavoro notturno erano tutte espresse in percentuale rispetto ai minimi contrattuali e alla contingenza. Nel momento in cui la contingenza è diventata una dinamica fortissima, perché l'unificazione del punto ha portato a un risultato che non solo saturava l'inflazione ma anche di più, ci si è venuti a trovare nell'impossibilità di fare i contratti.

Di fronte a queste tre preoccupazioni, questi tre impedimenti, si fece la scelta non di rifiutare la definizione dei contratti, ma anzi di accentuare il dialogo tra le parti per cercare di vedere se non erano proprio le parti che potevano in qualche modo agevolare la soluzione di questi problemi. Infatti, a partire dal contratto del 1976, perché era quello che veniva subito dopo l'accordo Lama Agnelli, si è iniziato a stabilire degli impegni reciproci molto importanti. Con la disponibilità a verificare la giustezza del criterio di percentualizzazione delle indennità che venivano pagate e dei criteri di utilizzazione della contingenza come base di calcolo per tutti gli elementi del salario.

Poi, con il contratto del 1979, si sono spenti praticamente tutti gli automatismi. Il settore chimico compie una sorta di miracolo, firmando un contratto nazionale finanziato con i risparmi derivanti dalla fine degli automatismi. A conti fatti quel contratto costava zero perché grazie all’accordo si sarebbe risparmiato evitando di pagare gli effetti della contingenza su tante voci retributive. Quel risultato aveva però un’importante contropartita ed era il riconoscimento del sindacato come interlocutore. Se si spengono gli automatismi allora non si può poi ritardare a rinnovare i contratti, non si può evitare il rispetto delle scadenze per cercare di risparmiare. Bisogna essere leali. Se così non fosse stato il sindacato non avrebbe mai dato il proprio assenso a un'intesa che eliminava gli automatismi che garantivano degli aumenti retributivi. La verità è che il sindacato ha voluto conquistare il diritto a negoziare. Questa è la vera svolta importante, in cui probabilmente un ruolo lo hanno avuto certamente non solo le ideologie, non solo gli stili, ma anche gli uomini in quanto tali, perché non c'è dubbio che l'intesa cresceva perché si era creato un riconoscimento di fondo tra le persone e le controparti.

Questo cambiamento è stato possibile per il sostegno degli imprenditori del settore, perché una delle caratteristiche di quegli anni, di quella che ancora non era la Federchimica, era lo stile di un rapporto intenso tra via Fatebenefratelli, dove avevamo la sede, e le aziende. È stato sempre questo il punto di forza. Noi, al contrario di Federmeccanica, associamo le aziende mentre Federmeccanica associa le associazioni territoriali delle imprese. Questo vuol dire che quando Federmeccanica riunisce il board ha attorno al tavolo delle persone che hanno già dovuto fare delle mediazioni all'interno delle proprie organizzazioni e quindi al tavolo arrivano delle esigenze talmente mediate che alla fine diventa impossibile muoversi. Invece da noi chi negoziava aveva le mani un po' più libere, anche di esercitare la fantasia.

La maggiore dimensione delle imprese chimiche e la presenza delle multinazionali hanno contribuito al diffondersi di relazioni industriali innovative, ma meno di quanto si pensi. Certo Montedison faceva scuola in campo di relazioni industriali e di diritti sindacali, nel senso che indicava la linea anche alle altre imprese ed era nelle condizioni di imporre la propria visione all'interno delle nostre assemblee, però la verità è che erano soprattutto le imprese minori che avevano l'esigenza della pace sociale, perché facevano più fatica a governare il conflitto. Il rapporto padrone lavoratori era importante soprattutto per la piccola impresa. Nei miei rapporti internazionali ho constatato che la chimica è dappertutto così, in tutti i Paesi è in una posizione di avanguardia in campo sociale.

Gli altri settori che firmavano il contratto Fulc hanno beneficiato del clima positivo, del fatto che noi impostavamo certi ragionamenti, ma hanno fatto sempre di tutto per distinguersi. Non posso affermare che la gomma abbia copiato quello che facevamo noi. Forse noi aiutavamo a creare un clima favorevole, poi loro prendevano la loro strada. Ad esempio, nel ‘90 noi facemmo una sorta di rivoluzione nel sistema retributivo e nessun altro settore ci seguì, addirittura qualcuno si schierò in modo molto contrario. Col tempo abbiamo anche inglobato qualche settore, per cui ad un certo punto abbiamo dovuto fare la scelta di differenziare le norme contrattuali in ragione delle caratteristiche delle imprese, creando delle possibilità di vantaggio o di deroga per le aree più deboli.

Noi ci siamo impegnati profondamente per la formazione dei quadri, sia aziendali che sindacali, anche nelle aziende. Nel contratto del ’94 è stato inserito l'istituto del premio di partecipazione e abbiamo fatto centinaia di corsi di formazione in giro per l'Italia, sempre insieme, perché era importante il coinvolgimento. Io non ero soddisfatto del grado di proiezione nelle periferie dei messaggi che partivano dal centro, però rispetto a quello che succedeva negli altri settori il nostro ha avuto una sua coerenza di comportamenti. I contratti aziendali seguivano abbastanza le indicazioni del contratto nazionale. Un altro elemento che secondo me bisogna rimarcare è che il lavoratore chimico mediamente è un lavoratore altamente scolarizzato. Abbiamo percentuali elevate di diplomati e laureati, per noi non va bene la “tuta blu”, ma bisogna parlare di “camice bianco”. La quantità degli impiegati è elevatissima rispetto ad altri settori.

Il sindacato

Il sindacato ha avuto un ruolo importante, ritengo molto positivo, nella costruzione di relazioni industriali partecipative. Il suo era un ruolo attivo e ho sempre riconosciuto che gran parte delle innovazioni che abbiamo fatto nel tempo nascevano dai colloqui che avevamo tra vertici del sindacato e noi. Le esigenze venivano fuori da un dialogo tra le parti, noi eravamo in grado di fare il progetto, costruivamo il modello, però le idee non erano solo nostre e tenevano in conto le cose che ci diceva il sindacato. Il contratto del ’79 ha consentito a noi di Federchimica di dire alle nostre imprese che era possibile negoziare con il sindacato perché siamo stati in grado di fare un contratto che era al risparmio, però garantendo un dialogo. Poi c'è stato qualche altro piccolo passo e nel contratto del 1983 abbiamo inserito il premio di presenza. Ricordo 26 ore filate di negoziato sul premio di presenza. A quell'epoca nel settore chimico avevamo rilevato un tasso di assenteismo del 13%, tenendo presente che i lavoratori chimici sono in larga maggioranza uomini. In queste condizioni il sindacato ha avuto il coraggio di stabilire un premio di presenza, non avallando più quei comportamenti e sottoscrivendo la disponibilità a fare dello straordinario. Quella è stata un'ulteriore prova di disponibilità e così nell'86 abbiamo costruito l'Osservatorio nazionale, che di fatto è un sistema di dialogo permanente tra le parti. Infatti i contratti successivi al 1986 sono sempre stati discussi molto per tempo, le piattaforme contrattuali presentate dal sindacato erano il frutto di temi che avevamo già affrontato. Non solo discusso, ma studiato, approfondito, per esempio con gli incontri internazionali. I nostri critici parlavano di turismo sindacale, ma noi ci siamo recati in vari Paesi per confrontarci con i nostri omologhi, sempre congiuntamente, sui vari temi del momento. In questi incontri internazionali ci si formava a vicenda, erano un'occasione di approfondimento, per cui quando si arrivava al rinnovo contrattuale certi orientamenti di fondo erano già maturati, si dovevano definire solo gli aspetti quantitativi. E infatti i contratti venivano fatti velocemente e quasi sempre senza o con pochissimi scioperi.

Le presenze non Cgil Cisl Uil erano molto scarse e solo in qualche zona e senza un peso reale a livello nazionale. Anche rispetto a queste organizzazioni noi abbiamo sempre avuto un atteggiamento positivo, c'era un certo confronto anche se faticoso, perché dopo aver fatto una trattativa con Cgil Cisl Uil bisognava riaprirla in qualche modo con Cisnal o con l'associazione dei quadri o con altri. Però lo si faceva. Ma il loro peso era assolutamente limitato. Rispetto, rapporti cordiali, ma niente di più.

Il tema della violenza, anche nell'esperienza personale, non l'ho sentito come importante. Direi che è stato un ulteriore elemento che ha favorito lo svilupparsi di nuove relazioni industriali, ma che ha agito su un contesto che già cercava condizioni di partecipazione ed era sicuramente maturo.

Welfare contrattuale

Quello del welfare è un passaggio fondamentale. Nella chimica è stata significativa la scelta di fare qualcosa di importante a livello nazionale. In tutti i settori c'è stata un'evoluzione verso forme più moderne di welfare, tipo ad esempio l'assistenza sanitaria, alcuni vantaggi per i lavoratori dal punto di vista formativo e altro. Però di solito queste iniziative sono state assunte a livello di grande impresa, con la conseguenza che all'interno dei settori si creava un’obiettiva differenza di status tra il lavoratore della grande impresa e il lavoratore della piccola. Ricordo situazioni in cui ci sarebbe stata la necessità di operazioni di mobilità del personale che venivano impedite dal fatto che i lavoratori non volevano lasciare un'azienda perché avevano dei benefici in termini di welfare. Non tanto per lo stipendio. Noi abbiamo avuto l'idea di agire a livello nazionale per primi e abbiamo fatto un fondo pensioni e un fondo di assistenza sanitaria.

Qualcuno ha posto il problema di un'azione paternalistica da parte delle imprese, ma lo poneva in termini ideologici, nella pratica il sindacato non poteva non sedersi al tavolo e partecipare perché la gente capiva e anche perché noi ci rivolgevamo direttamente al lavoratore. Ricordo un caso alla Solvay di Rosignano, dove siamo andati a presentare per la prima volta Fonchim quando ancora non era formalmente costituito e in sala c'erano centinaia e centinaia di lavoratori. Quando si fanno simili iniziative e i lavoratori dicono di sì è chiaro che il sindacato può certamente mettere in guardia su alcuni aspetti, ma non può sottrarsi. Il paternalismo era un'altra cosa, se è il signor Brambilla a fare nella sua impresa un asilo nido può essere paternalismo, ma se diviene una norma contrattuale il problema è diverso. Il vantaggio del contratto nazionale è questo. Per far nascere i fondi sicuramente ha aiutato la contrattazione, tra l'altro è chiaro che quello che si spendeva per realizzare il fondo veniva in qualche modo sottratto dagli aumenti contrattuali, questo non ha creato problemi nella misura in cui i lavoratori hanno aderito. Chi per ragioni sue non l’ha fatto probabilmente ne ha risentito perché non ha avuto l'aumento salariale e nemmeno i benefici.