Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “L’idea del dialogo. Cultura del lavoro, contrattazione, relazioni industriali nella chimica italiana”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2017
Mi sono trovato per circostanze strane ad assumere la direzione delle relazioni industriali di Aschimici nel 1972. E' stata un'occasione particolare, ero senza una struttura, dato che quella preesistente era andata via. Io ero vergine di relazioni industriali e ho trovato un ambiente vergine, praticamente il vuoto. C'era solo un giovane funzionario ma mancava uno staff, non ero affiancato a qualcuno, per cui mi sono dovuto inventare delle modalità di operare. Questo secondo me ha favorito la nascita di esperienze piuttosto nuove rispetto al passato. Tra l'altro la chimica, che occupava oltre 200mila persone, nel 1969 aveva avuto momenti di conflittualità significativi in occasione del rinnovo del contratto nazionale di lavoro.
Mi
sono affacciato a quell'esperienza con un settore che aveva diversi problemi, tre
in particolare. Uno, la chimica è un insieme di impianti delicatissimi e una
delle esigenze fondamentali per l'imprenditore è la pace sociale, la pace
all'interno della fabbrica, non tanto per questioni ideologiche, ma perché se
si passa ad azioni sindacali disordinate si rischia di danneggiare seriamente
gli impianti, alcuni dei quali non possono essere mai fermati pena interventi
costosissimi. All'inizio degli anni Settanta si parlava se fosse possibile fare
degli accordi con il sindacato non per evitare lo sciopero, ma per
regolamentare le condizioni della fabbrica in caso di sciopero. C'era l'esigenza
della pace o per lo meno di una regola per la guerra. Praticamente si chiedeva che
ci fosse un assetto minimo degli impianti che doveva essere sempre garantito.
L'azienda, nei limiti del possibile, rinuncia a commercializzare i prodotti che
produce in quella fase, però li produce perché non può fermare l'impianto. Non
era assolutamente così nella maggior parte degli impianti dell'industria
metalmeccanica, dove si possono fermare le macchine senza grossi problemi.
Un
secondo aspetto in quella fase era la preoccupazione per la situazione
dell'ambiente e della sicurezza. La chimica manipola prodotti che necessitano
di una particolare attenzione, di una specifica formazione, di regole. Nel 1976
esplode l'Icmesa, un disastro ecologico che ha accentuato l'attenzione di tutti
sulla problematica dell'ambiente e della sicurezza. Basta riflettere un po' per
accorgersi che preoccupandosi di questi problemi si finisce per parlare delle
relazioni industriali. Vuol dire parlare della qualità del lavoratore, della
formazione, della partecipazione. Nei primi anni Settanta avevamo stabilito un
rapporto con il pretore Guariniello che ci faceva delle lezioni per chiarire
alcuni aspetti della legislazione in materia e questi incontri li facevamo a
mo’ di corsi di formazione ai quali potevano partecipare sia i sindacalisti che
i datori di lavoro e i dirigenti. Tutto questo portava a un clima di tipo
partecipativo.
Poi
c'era un terzo problema, sempre parlando dei primi anni Settanta, ed era il
problema legato all'unificazione del punto di contingenza. L'Italia aveva la
scala mobile come regola per adeguare i salari all'andamento del costo della vita.
La scala mobile prevedeva cifre che erano differenziate a seconda
dell'inquadramento del lavoratore, perché il valore punto era maggiore nelle
scale gerarchiche più alte e il lavoratore medio non aveva un recupero completo
dell'erosione subita dal salario, per cui in linea teorica c'era la possibilità,
all'interno del tasso di inflazione, di dare dei soldi nel contratto. Questa
opportunità, nel momento in cui Lama e Agnelli nel 1975 concordano
l'unificazione del punto di contingenza, finisce. Tra l'altro, nel settore
chimico il salario era definito in percentuali. Cioè le voci come gli scatti di
anzianità, gli straordinari, il lavoro notturno erano tutte espresse in
percentuale rispetto ai minimi contrattuali e alla contingenza. Nel momento in
cui la contingenza è diventata una dinamica fortissima, perché l'unificazione
del punto ha portato a un risultato che non solo saturava l'inflazione ma anche
di più, ci si è venuti a trovare nell'impossibilità di fare i contratti.
Di
fronte a queste tre preoccupazioni, questi tre impedimenti, si fece la scelta
non di rifiutare la definizione dei contratti, ma anzi di accentuare il dialogo
tra le parti per cercare di vedere se non erano proprio le parti che potevano
in qualche modo agevolare la soluzione di questi problemi. Infatti, a partire
dal contratto del 1976, perché era quello che veniva subito dopo l'accordo Lama
Agnelli, si è iniziato a stabilire degli impegni reciproci molto importanti. Con
la disponibilità a verificare la giustezza del criterio di percentualizzazione
delle indennità che venivano pagate e dei criteri di utilizzazione della
contingenza come base di calcolo per tutti gli elementi del salario.
Poi,
con il contratto del 1979, si sono spenti praticamente tutti gli automatismi. Il
settore chimico compie una sorta di miracolo, firmando un contratto nazionale
finanziato con i risparmi derivanti dalla fine degli automatismi. A conti fatti
quel contratto costava zero perché grazie all’accordo si sarebbe risparmiato evitando
di pagare gli effetti della contingenza su tante voci retributive. Quel
risultato aveva però un’importante contropartita ed era il riconoscimento del
sindacato come interlocutore. Se si spengono gli automatismi allora non si può
poi ritardare a rinnovare i contratti, non si può evitare il rispetto delle
scadenze per cercare di risparmiare. Bisogna essere leali. Se così non fosse
stato il sindacato non avrebbe mai dato il proprio assenso a un'intesa che eliminava
gli automatismi che garantivano degli aumenti retributivi. La verità è che il
sindacato ha voluto conquistare il diritto a negoziare. Questa è la vera svolta
importante, in cui probabilmente un ruolo lo hanno avuto certamente non solo le
ideologie, non solo gli stili, ma anche gli uomini in quanto tali, perché non
c'è dubbio che l'intesa cresceva perché si era creato un riconoscimento di
fondo tra le persone e le controparti.
Questo
cambiamento è stato possibile per il sostegno degli imprenditori del settore,
perché una delle caratteristiche di quegli anni, di quella che ancora non era la
Federchimica, era lo stile di un rapporto intenso tra via Fatebenefratelli,
dove avevamo la sede, e le aziende. È stato sempre questo il punto di forza.
Noi, al contrario di Federmeccanica, associamo le aziende mentre Federmeccanica
associa le associazioni territoriali delle imprese. Questo vuol dire che quando
Federmeccanica riunisce il board ha attorno al tavolo delle persone che hanno
già dovuto fare delle mediazioni all'interno delle proprie organizzazioni e
quindi al tavolo arrivano delle esigenze talmente mediate che alla fine diventa
impossibile muoversi. Invece da noi chi negoziava aveva le mani un po' più
libere, anche di esercitare la fantasia.
La
maggiore dimensione delle imprese chimiche e la presenza delle multinazionali
hanno contribuito al diffondersi di relazioni industriali innovative, ma meno
di quanto si pensi. Certo Montedison faceva scuola in campo di relazioni
industriali e di diritti sindacali, nel senso che indicava la linea anche alle
altre imprese ed era nelle condizioni di imporre la propria visione all'interno
delle nostre assemblee, però la verità è che erano soprattutto le imprese
minori che avevano l'esigenza della pace sociale, perché facevano più fatica a
governare il conflitto. Il rapporto padrone lavoratori era importante
soprattutto per la piccola impresa. Nei miei rapporti internazionali ho
constatato che la chimica è dappertutto così, in tutti i Paesi è in una
posizione di avanguardia in campo sociale.
Gli
altri settori che firmavano il contratto Fulc hanno beneficiato del clima
positivo, del fatto che noi impostavamo certi ragionamenti, ma hanno fatto
sempre di tutto per distinguersi. Non posso affermare che la gomma abbia
copiato quello che facevamo noi. Forse noi aiutavamo a creare un clima favorevole,
poi loro prendevano la loro strada. Ad esempio, nel ‘90 noi facemmo una sorta
di rivoluzione nel sistema retributivo e nessun altro settore ci seguì,
addirittura qualcuno si schierò in modo molto contrario. Col tempo abbiamo
anche inglobato qualche settore, per cui ad un certo punto abbiamo dovuto fare
la scelta di differenziare le norme contrattuali in ragione delle
caratteristiche delle imprese, creando delle possibilità di vantaggio o di
deroga per le aree più deboli.
Noi
ci siamo impegnati profondamente per la formazione dei quadri, sia aziendali
che sindacali, anche nelle aziende. Nel contratto del ’94 è stato inserito l'istituto
del premio di partecipazione e abbiamo fatto centinaia di corsi di formazione
in giro per l'Italia, sempre insieme, perché era importante il coinvolgimento.
Io non ero soddisfatto del grado di proiezione nelle periferie dei messaggi che
partivano dal centro, però rispetto a quello che succedeva negli altri settori
il nostro ha avuto una sua coerenza di comportamenti. I contratti aziendali
seguivano abbastanza le indicazioni del contratto nazionale. Un altro elemento
che secondo me bisogna rimarcare è che il lavoratore chimico mediamente è un
lavoratore altamente scolarizzato. Abbiamo percentuali elevate di diplomati e
laureati, per noi non va bene la “tuta blu”, ma bisogna parlare di “camice
bianco”. La quantità degli impiegati è elevatissima rispetto ad altri settori.
Il sindacato
Il
sindacato ha avuto un ruolo importante, ritengo molto positivo, nella
costruzione di relazioni industriali partecipative. Il suo era un ruolo attivo
e ho sempre riconosciuto che gran parte delle innovazioni che abbiamo fatto nel
tempo nascevano dai colloqui che avevamo tra vertici del sindacato e noi. Le esigenze
venivano fuori da un dialogo tra le parti, noi eravamo in grado di fare il
progetto, costruivamo il modello, però le idee non erano solo nostre e tenevano
in conto le cose che ci diceva il sindacato. Il contratto del ’79 ha consentito
a noi di Federchimica di dire alle nostre imprese che era possibile negoziare
con il sindacato perché siamo stati in grado di fare un contratto che era al
risparmio, però garantendo un dialogo. Poi c'è stato qualche altro piccolo
passo e nel contratto del 1983 abbiamo inserito il premio di presenza. Ricordo
26 ore filate di negoziato sul premio di presenza. A quell'epoca nel settore
chimico avevamo rilevato un tasso di assenteismo del 13%, tenendo presente che
i lavoratori chimici sono in larga maggioranza uomini. In queste condizioni il sindacato
ha avuto il coraggio di stabilire un premio di presenza, non avallando più quei
comportamenti e sottoscrivendo la disponibilità a fare dello straordinario.
Quella è stata un'ulteriore prova di disponibilità e così nell'86 abbiamo costruito
l'Osservatorio nazionale, che di fatto è un sistema di dialogo permanente tra
le parti. Infatti i contratti successivi al 1986 sono sempre stati discussi
molto per tempo, le piattaforme contrattuali presentate dal sindacato erano il
frutto di temi che avevamo già affrontato. Non solo discusso, ma studiato,
approfondito, per esempio con gli incontri internazionali. I nostri critici
parlavano di turismo sindacale, ma noi ci siamo recati in vari Paesi per
confrontarci con i nostri omologhi, sempre congiuntamente, sui vari temi del
momento. In questi incontri internazionali ci si formava a vicenda, erano
un'occasione di approfondimento, per cui quando si arrivava al rinnovo
contrattuale certi orientamenti di fondo erano già maturati, si dovevano definire
solo gli aspetti quantitativi. E infatti i contratti venivano fatti velocemente
e quasi sempre senza o con pochissimi scioperi.
Le
presenze non Cgil Cisl Uil erano molto scarse e solo in qualche zona e senza un
peso reale a livello nazionale. Anche rispetto a queste organizzazioni noi
abbiamo sempre avuto un atteggiamento positivo, c'era un certo confronto anche
se faticoso, perché dopo aver fatto una trattativa con Cgil Cisl Uil bisognava
riaprirla in qualche modo con Cisnal o con l'associazione dei quadri o con altri.
Però lo si faceva. Ma il loro peso era assolutamente limitato. Rispetto,
rapporti cordiali, ma niente di più.
Il
tema della violenza, anche nell'esperienza personale, non l'ho sentito come
importante. Direi che è stato un ulteriore elemento che ha favorito lo svilupparsi
di nuove relazioni industriali, ma che ha agito su un contesto che già cercava
condizioni di partecipazione ed era sicuramente maturo.
Welfare contrattuale
Quello
del welfare è un passaggio fondamentale. Nella chimica è stata significativa la
scelta di fare qualcosa di importante a livello nazionale. In tutti i settori
c'è stata un'evoluzione verso forme più moderne di welfare, tipo ad esempio
l'assistenza sanitaria, alcuni vantaggi per i lavoratori dal punto di vista formativo
e altro. Però di solito queste iniziative sono state assunte a livello di
grande impresa, con la conseguenza che all'interno dei settori si creava un’obiettiva
differenza di status tra il lavoratore della grande impresa e il lavoratore
della piccola. Ricordo situazioni in cui ci sarebbe stata la necessità di
operazioni di mobilità del personale che venivano impedite dal fatto che i
lavoratori non volevano lasciare un'azienda perché avevano dei benefici in
termini di welfare. Non tanto per lo stipendio. Noi abbiamo avuto l'idea di
agire a livello nazionale per primi e abbiamo fatto un fondo pensioni e un
fondo di assistenza sanitaria.
Qualcuno
ha posto il problema di un'azione paternalistica da parte delle imprese, ma lo
poneva in termini ideologici, nella pratica il sindacato non poteva non sedersi
al tavolo e partecipare perché la gente capiva e anche perché noi ci
rivolgevamo direttamente al lavoratore. Ricordo un caso alla Solvay di
Rosignano, dove siamo andati a presentare per la prima volta Fonchim quando
ancora non era formalmente costituito e in sala c'erano centinaia e centinaia
di lavoratori. Quando si fanno simili iniziative e i lavoratori dicono di sì è
chiaro che il sindacato può certamente mettere in guardia su alcuni aspetti, ma
non può sottrarsi. Il paternalismo era un'altra cosa, se è il signor Brambilla
a fare nella sua impresa un asilo nido può essere paternalismo, ma se diviene
una norma contrattuale il problema è diverso. Il vantaggio del contratto
nazionale è questo. Per far nascere i fondi sicuramente ha aiutato la
contrattazione, tra l'altro è chiaro che quello che si spendeva per realizzare
il fondo veniva in qualche modo sottratto dagli aumenti contrattuali, questo
non ha creato problemi nella misura in cui i lavoratori hanno aderito. Chi per
ragioni sue non l’ha fatto probabilmente ne ha risentito perché non ha avuto
l'aumento salariale e nemmeno i benefici.