Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “L’idea del dialogo. Cultura del lavoro, contrattazione, relazioni industriali nella chimica italiana”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2017
A quindici anni me ne sono andato da casa e sono andato a Pompei a fare il cameriere poi, siccome mio zio era andato in Germania, a diciotto anni l'ho raggiunto. Lì ho lavorato per otto mesi in un'azienda del gas. L'anno successivo sono andato in Svizzera a lavorare insieme a un amico, avevo diciannove anni e sono stato assunto come aiuto muratore, poi siccome ero sveglio mi hanno messo ad azionare la gru. Lavorare all'estero però non mi piaceva. La domenica compravo il Corriere della Sera e ho visto che sia Pirelli che Fiat facevano delle assunzioni e allora ho fatto la domanda in Pirelli.
Era il settembre del 1963 e il cinque novembre dello stesso anno, dopo un colloquio ad ottobre, ho iniziato a lavorare. In Pirelli sono stato messo nello stabilimento di produzione degli pneumatici in Bicocca, nel reparto cerchietti, dove si facevano i cerchi delle gomme che poi venivano rivestiti e quindi nella fase successiva si realizzavano gli pneumatici. Il mio reparto era il numero 8.644 e si entrava all'ingresso di viale Sarca 222. Al momento del mio ingresso eravamo in 340, in maggioranza donne, perché il lavoro era abbastanza leggero e si lavorava ognuno su una macchina. Le qualifiche erano basse ed era il reparto dove si guadagnava meno. La maggior parte dei lavoratori arrivava da Bergamo, Brescia, dalla Brianza e da Milano. Da fuori città arrivavano con i pullman e chi faceva il primo turno lo prendeva alle quattro e mezzo o alle cinque. Io sono rimasto in quel reparto fino al momento della pensione perché mi trovavo bene e non ho mai chiesto di essere trasferito. Non ho quasi mai lavorato sui tre turni e anche per questo mi piaceva rimanere lì: i due turni si svolgevano dalle 6 alle 14 e dalle 14 alle 22. Il primo mese, subito dopo l'assunzione, abitavo a Seriate e andavo avanti e indietro con il pullman e una sera, avendo fatto il secondo turno, mi sono addormentato e ho fatto otto chilometri in più di strada. Per tutto il periodo in cui sono rimasto in reparto ho sempre lavorato sulla stessa macchina. Indossavo una tuta grigia.Sindacato
Appena
entrato in fabbrica è venuto un vecchietto da me chiedendomi se volevo
iscrivermi al sindacato, io ho risposto di sì e ho chiesto la tessera della
Cisl perché avevo già un mio orientamento preciso. Mi sono interessato subito
alle vicende sindacali interne e dopo un po' ho iniziato a frequentare la sede
sindacale che c'era vicino alla fabbrica, in via Nota, ed era aperta al cambio
dei turni. Ero giovane, non avevo impegni di altro genere e vivevo in pensione
per cui quella era anche l'occasione per incontrarmi con altre persone al di
fuori dalla fabbrica. Quando è stato votato il primo consiglio di fabbrica,
cosa che è avvenuta già nel 1967, io sono stato eletto delegato di reparto.
Sono entrato poi nel comitato cottimi che si occupava di contrattare i ritmi
per tutta l'azienda.
Un
giorno, ero stato eletto da poco, stavo lavorando sulla mia macchina, quando è
arrivato accanto a me uno, che poi ho saputo essere Cofferati, a controllare i
miei tempi. A un certo punto ha preso in mano la manopola e mi ha aumentato la
velocità della macchina, al che gli ho dato un colpo sulla mano e gli ho detto
che se voleva cambiare i ritmi doveva dirlo a me che l'avrei fatto io e lui non
doveva toccare la mia macchina. Allora lui mi disse, leggendo il mio nome sul
suo foglio: “Pascale, guardi che sono un compagno”. “A maggior ragione”, ho
risposto io.
Sono
sempre stato rieletto delegato e ho fatto parte del consiglio di fabbrica
generale, il “consiglione”. Nel mio reparto eravamo due delegati della Cisl, uno
della Cgil e uno della Uil.
Nel
1973 sono entrato nell'esecutivo del consiglio. Eravamo quattro della Cgil, tre
della Cisl e due della Uil, tutti a tempo pieno. A un certo punto ho cominciato
a essere stanco di quell'impegno e ho detto che non mi sarei più ricandidato,
allora Tino Fumagalli mi ha proposto di entrare in segreteria dei chimici a
Milano, dove ho seguito il settore della gomma plastica e sono rimasto fino a
quando sono andato in pensione.
Io
sono un baby pensionato, sono andato in pensione il 1° gennaio del 1992 e
facevo cinquant'anni a marzo. A quel punto non potevo più essere in segreteria,
ma mi è stato chiesto di continuare a collaborare e così lavoravo più di prima.
Nel
mio reparto erano presenti i Cub, ma gli aderenti non erano molti. C'era un
elettricista che arrivava ogni tanto a discutere con me, ma un vero nucleo non
esisteva come invece era presente in altri reparti. I reparti che partivano
spontaneamente a fare delle lotte, magari anche su problemi giusti, erano
quelli dove noi sapevamo esserci delle figure che riuscivano a egemonizzare i
lavoratori andando oltre l'iniziativa sindacale e con loro c'erano sempre
discussioni. Contestavano tutto, non solo noi della Cisl, anche se noi eravamo
presi di mira maggiormente e ci accusavano di essere venduti, ma i battibecchi
c'erano con tutti, anche con i delegati della Cgil. Anzi, con la Cgil il
confronto spesso era più duro perché la Cgil non ammetteva nessuna presenza
alla sua sinistra.
Non
ho mai subito nessuna violenza, anche se ho assistito ad atti violenti. Personalmente
non ho avuto scontri pesanti. Mi ricordo solo una discussione una notte in cui,
con la preoccupazione del terrorismo, come consiglio di fabbrica organizzavamo
i turni di guardia alla fabbrica, quattro o cinque per volta. Una volta uno di
questi che stava con me mi ha chiesto a che partito politico facessi riferimento,
gli ho risposto che ero democristiano e abbiamo discusso animatamente.
Quando
c'erano gli scioperi, durante i quali facevamo il blocco delle portinerie,
accendevamo i fuochi davanti ai cancelli e non facevamo entrare gli impiegati,
qualche volta gli animi si scaldavano e allora occorreva intervenire a calmare
la gente. A ogni sciopero per il rinnovo del contratto c'era qualche
licenziamento conseguenza di questi scontri.
Quando
sono stato in esecutivo avevamo sentore di qualche presenza di terroristi in
fabbrica, ma non è mai accaduto niente che io sappia.
La
partecipazione dei lavoratori alle lotte, sia sulle vicende interne che sui
contratti nazionali, era alta. Quando c'erano gli scioperi e le manifestazioni
per il rinnovo dei contratti nazionali, se devo confrontare i chimici con i
metalmeccanici, certamente la nostra partecipazione era un po' meno
significativa. È vero però che noi avevamo bisogno di meno ore di sciopero per
raggiungere il nuovo contratto.
Gli
scioperi su temi generali erano molti. Mi ricordo che quando è aumentato il
latte di venti lire abbiamo fatto lo sciopero con una manifestazione di tutta
la nostra zona. Con la Pirelli c'erano la Breda e le altre fabbriche che
stavano lì intorno. Facevamo le manifestazioni e i cortei fino al grattacielo
Pirelli. Aumentava il tram e si faceva sciopero. Tutte queste proteste erano
abbastanza pesanti in termini di ore. Nel periodo caldo non c'era mese nel quale
la busta paga non venisse ridotta. La fabbrica si fermava, ma gli anziani ci
dicevano: "Ragazzi, noi il grattacielo l'abbiamo fatto, non fatevelo
portare via".
Relazioni industriali
Generalmente
i rapporti con i capi e con la direzione erano buoni. In reparto ci occupavamo
di piccole questioni come i richiami che venivano fatti ai lavoratori, che i
servizi fossero in ordine, l’utilizzo della sala fumo, l'ambiente di lavoro,
mentre per le cose più importanti come i ritmi o le pause si faceva riferimento
all'esecutivo. A volte dovevamo battere i pugni e con qualche capo si litigava,
ma l'importante era il modo di rapportarsi tra noi e i capi i quali, peraltro,
non godevano di particolare autonomia.
Fino
al 1973,’74, cioè prima dell'esplodere della crisi, come esecutivo del
consiglio di fabbrica, con l'azienda, ai livelli alti, si riusciva abbastanza a
ragionare. Sui temi dei ritmi, dei passaggi di categoria, dell'applicazione del
contratto nazionale generalmente il confronto era costruttivo e nella direzione
c'era abbastanza disponibilità, tranne qualche caso. Ad esempio, per quanto
riguarda l'ambiente abbiamo tentato tante volte di intervenire in modo
decisivo, ma non ci siamo mai riusciti. Si faceva quel che si poteva. A volte
ci ascoltavano, ma a volte ci dicevano che non si poteva. C'erano reparti dove
l'ambiente era veramente pessimo, come alla vulcanizzazione, con il calore e
l'odore fortissimi. C'erano delle ventole che aspiravano i fumi, ma le
condizioni di lavoro erano bestiali. Così nel reparto mescola, dove si faceva
la gomma. Erano i reparti dove i lavoratori indossavano la tuta bianca.
Certamente
le relazioni sindacali erano meno aspre rispetto ai metalmeccanici. In
occasione dei rinnovi dei contratti nazionali di lavoro noi eravamo informati
sull'avanzamento delle trattative e quando ci chiedevano di intensificare la
lotta e di bloccare i cancelli sapevamo che voleva dire che eravamo vicini alla
firma.
Contrattazione
La
contrattazione sul tema dell'ambiente si limitava a qualche piccolo miglioramento,
all'installazione di una ventola. Sulla sicurezza l'azienda ti ascoltava e
alcune modifiche si potevano fare. In quegli anni esisteva la cassetta delle
idee e l'azienda chiedeva a tutti i lavoratori di segnalare quali problemi
c'erano sul loro posto di lavoro relativamente ai temi della sicurezza. Su
questa questione c'era un coinvolgimento abbastanza significativo e grossi
problemi non ne abbiamo mai avuto.
Si
lavorava su tre turni rigidi e si seguivano gli orari contrattuali, un po' più
di flessibilità c'era per quanto riguardava la manutenzione e in quel caso si
discuteva con i capi sui recuperi, sull'organizzazione degli interventi. Per
chi lavorava su macchine individuali c'era una pausa di dieci minuti ogni due
ore per i bisogni fisiologici.
Diverse
vertenze aziendali sono state fatte sui tempi di lavoro, con l'obiettivo di
conquistare delle pause, però c'era il problema di evitare che decurtassero il
cottimo, perché se non si riusciva a fare la produzione prevista questo veniva
ridotto, e i lavoratori non volevano vedere diminuito il proprio salario. Su
questi temi non passava giorno che non ci fossero discussioni con i capi e la
direzione, si organizzavano gli scioperi di reparto e quando non si riusciva si
chiamava tutta la fabbrica alla protesta.
Ogni
anno o due si contrattava un premio di produzione aziendale uguale per tutti,
ma diversificato in base alla categoria di appartenenza. Altro tema sempre
aperto era quello dei passaggi di categoria.
Quando
la Pirelli ha iniziato a entrare in crisi abbiamo cominciato a discutere di
utilizzo degli impianti e di organizzazione del lavoro e sono state create le
isole di produzione che assicuravano una maggiore produttività, con l'utilizzo
della macchine cresciuto da sei a otto ore. Su questo ci siamo scontrati
parecchio con l'azienda e anche con gli operai che non erano abituati al nuovo
modo di lavorare e che non accettavano il cambiamento. Il sindacato ha accolto
le novità, ma abbiamo faticato, perché era uno stravolgimento totale delle
modalità di lavoro. Abbiamo partecipato a dei corsi di formazione per
prepararci, perché in Pirelli ogni operaio lavorava sulla sua macchina da solo
e solamente in qualche caso erano in due, ora invece si trattava di organizzare
un lavoro in gruppo. I dipendenti coinvolti furono 16mila.
L'obiettivo
era salvare l'azienda, ma quando si iniziò a parlare della chiusura di Bicocca,
con lo spostamento delle coperture a Settimo Torinese e altre produzioni a
Tivoli e a Villafranca in Sicilia, allora il contrasto si inasprì. Bicocca era
il cuore della Pirelli, per l'azienda doveva chiudere perché era lo
stabilimento più vecchio, che si trovava ormai all'interno della città. Con
molta probabilità avevano già i progetti per la lottizzazione dell'area. Un
processo che prevedeva sì l'abbandono della Bicocca, ma l'ampliamento di altri
insediamenti produttivi, che la politica, e forse anche qualche area sindacale,
pensavano fosse accettabile. Noi ci siamo mossi in tutti i modi possibili per
bloccarlo. Una volta come Cisl siamo stati dal presidente della giunta
regionale lombarda Giuseppe Guzzetti e dopo avergli esposto qual era la
situazione, dicendo che secondo noi era una scelta sbagliata, Guzzetti ci ha domandato:
“Ma Leopoldo lo sa?”. La domanda mi ha sorpreso, ma poi ho iniziato a
riflettere e ho cominciato a capire che qualcosa stava profondamente cambiando
nella proprietà dell'azienda. Noi proponevamo che se proprio si voleva chiudere
la Bicocca si doveva cercare nell'area milanese un luogo dove avviare una nuova
azienda con macchinari moderni per la produzione degli pneumatici e poi gli
eventuali esuberi li avremmo gestiti. Guzzetti, rivolto a me, ha chiesto se un
simile progetto poteva reggere economicamente e io ho risposto che dato che a
Bollate esisteva già un piccolo insediamento Pirelli si poteva partire da lì.
Dopo alcuni anni, attraverso scioperi, proteste e interventi a livello politico
e sindacale, anche nazionale, è nato il nuovo stabilimento di Bollate. Però gli
addetti agli pneumatici, che in Bicocca erano tremila, sono scesi a 560, con
una produzione raddoppiata.
Licenziamenti
non ce ne sono stati grazie all’utilizzo degli ammortizzatori sociali: cassa
integrazione e prepensionamenti. Inizialmente l'azienda ha fatto delle
incentivazioni e anche qualche giovane se n'è andato. Hanno accettato anche
coloro che abitavano più lontano, perché la possibilità di trovare un altro
lavoro in quegli anni c'era. Essendo una fabbrica vecchia, con i
prepensionamenti se ne sono andati in parecchi e nessuno è rimasto per strada. Tutto
questo processo è avvenuto tra gli anni ‘74, ‘75 e l'accordo prevedeva la
chiusura di Bicocca, ma il mantenimento dei cavi, della ricerca e dei
laboratori dove lavorava parecchia gente.
Welfare aziendale
Avevamo
una mutua interna che metteva a disposizione studi medici privati, cliniche,
come ad esempio la convenzione con la Pio X.
Funzionava
una cassa di previdenza interna alimentata dall'azienda e quando uno andava in
pensione oltre al Tfr riceveva quei soldi.
La
Pirelli aveva anche le colonie per i figli dei dipendenti in Liguria a Pietra Ligure
e a Milano Marittima.
In
tutti quegli elementi di welfare era presente anche il sindacato. C'era una
commissione che andava nelle colonie a controllare la qualità del cibo, la
condizione della struttura, la pulizia.
C'era
uno spaccio aziendale dove potevamo acquistare i prodotti dell'azienda a prezzo
scontato e l'azienda regalava un pacco dono quando nasceva un figlio.
Con
la crisi tutte queste cose sono state abbandonate, noi abbiamo cercato di
difenderle, ma tra questi elementi di welfare e i posti di lavoro ovviamente
abbiamo scelto i secondi. I vecchi operai accusavano noi giovani di essere in
qualche modo responsabili della perdita di tutto questo: “Prima ci avete
venduto il grattacielo e ora avete perso tutto il resto”.