Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Impegno e passione. Gli anni caldi della Cisl in Lombardia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016
Sono nata nel 1938 a Saronno e ho frequentato solo la quinta elementare, poi mi sono fatta una mia cultura. Le mie amiche erano tutte laureate, io non ho potuto studiare perché a casa mia soldi non ce n'erano. La mia era una famiglia operaia e io ho lavorato per dieci anni nella stessa fabbrica dove erano occupati i miei genitori, la De Angeli Frua. Mamma ha lavorato fino al secondo figlio. Lei stampava i tessuti con il tampone a mano, mio padre invece era occupato al finissaggio e a quarant'anni era già malato di asma bronchiale cronica. Mio fratello maggiore, il maschio di famiglia, doveva studiare. Mentre io, compiuti i quattordici anni, ho dovuto andare a lavorare. Mia madre mi ha accompagnato da un medico e gli ha detto: “Le dia qualcosa per i suoi pianti interminabili perché questa mi fa impazzire”.
Provengo
da una famiglia cattolica e ho fatto una bellissima esperienza in Azione
cattolica. Mi sono iscritta subito alle Acli e anche all'Azione cattolica e a
diciannove anni facevo parte del gruppo diocesano delle propagandistiche. Andavamo
nelle parrocchie a presentare le attività dell'Azione cattolica. Facevo parte
della commissione lavoro diocesana. Allora c'era don Libero Tresoldi, c'era Sandro
Antoniazzi ragazzino di Gl (Giovani lavoratori di Azione cattolica).
Ho
iniziato a lavorare in un'azienda che allora si diceva chimica, ma non lo era
perché facevano stivali, pantofole e sono stata assunta per aspettare gli
stivali che uscivano dall'autoclave, ma essendo molto magra mi hanno dovuto
mandare in magazzino perché non ero in grado.
Poi
l'azienda quasi falliva e dopo sei anni di lavoro ho voluto andare alla De
Angeli Frua, avevo vent'anni. I miei non volevano perché mio padre alla De Angeli
si è ammalato, però in casa in quel momento non lavorava nessuno: mio padre era
malato, mia sorella era più piccola e mio fratello studiava. Sono stata assunta
nel reparto della stampa a mano, un paio di giorni dopo mi hanno mandata a
prendere i colori per la stampa e io ero incuriosita dai colori perché la
pittura è sempre stata la mia passione. Notato questo mio interesse mi hanno
spostata a fare le prove colore, le campionature, lavoravo con la bilancia
dell'orefice. Sono rimasta in De Angeli dieci anni, ma dopo otto mesi ero già
in commissione interna.
Il
sindacato l'ho conosciuto da subito. Dopo tre mesi di lavoro nella prima
fabbrica mi sono iscritta, ma per la pressione di mio padre più che per una mia
scelta. Mi sono tesserata alla Cisl perché mio papà era un collettore per
l’organizzazione. Dopo una settimana dal mio ingresso in fabbrica papà mi ha
chiesto com'era la situazione sindacale. Io gli ho spiegato che c'erano la Cgil
e la Cisl. Ovviamente mi ha detto che dovevo iscrivermi alla Cisl, che lui
chiamava ci esse elle. I rapporti tra le due organizzazioni in fabbrica erano
molto difficili, in maggioranza era la Cisl con dei bravissimi attivisti in
commissione interna, ma era un’azienda con problemi e ad un certo punto si
scoprì che non venivano pagati i contributi.
Entrata
in De Angeli mi sono immediatamente iscritta passando dal settore chimico al
tessile. Avevo già iniziato a partecipare a dei corsi sulla busta paga con
Giovanna Bramante e mi sono trovata candidata alla commissione interna senza
saperlo. Mi era stato chiesto di candidarmi ma mi ero rifiutata dicendo che non
ero in grado e poi che in commissione erano tutti uomini. In fabbrica c'erano
1.600 dipendenti, la commissione era composta di nove persone e io sono stata
l'unica donna eletta. I lavoratori erano in maggior parte uomini, le donne
erano occupate essenzialmente nei reparti della stampa a mano e dell'incisione.
La maggioranza era iscritta alla Cgil. Io sono entrata in fabbrica nei primi
mesi del 1959, nel 1963 ci sono stati i primi licenziamenti degli impiegati, è
stata condotta bene una grande vertenza e la maggioranza è diventata Cisl. La De
Angeli era un'azienda molto paternalistica, all'interno c'era una bellissima
biblioteca che a me è servita molto, dove ho imparato molto, c'era la scuola di
disegno, quella di taglio per le ragazze che volevano imparare a fare la sarta,
c'era anche la mutua interna ma il paternalismo non ha mai frenato la partecipazione.
I
primi problemi di cui mi sono occupata in quegli anni sono state le
ristrutturazioni e la cassa integrazione. Nel 1961, ‘62 abbiamo combattuto una
battaglia importante per il premio di produzione, il famoso P su H, che poi non
era legato realmente alla produttività. La De Angeli è stata una delle prime
aziende a realizzare questa contrattazione, ma è stata dura perché la Cgil era
contraria alla contrattazione aziendale, dicendo che se in una fabbrica si
facevano gli accordi e in altre non si riusciva in quel modo si dividevano i
lavoratori. È stata dura anche perché c'erano difficoltà sia nella trattativa
che nella conduzione della lotta. L'obiettivo che noi indicavamo non era una
cifra, ma il diritto alla contrattazione aziendale che era la bandiera della
Cisl. A Saronno due erano le fabbriche che dovevano sfondare: la Lazzaroni e la
De Angeli Frua, che allora erano le più grandi del territorio.
Alla
De Angeli c'era una grande tradizione di iniziativa sindacale, ho trovato un
archivio di venti anni di attività. Oltre allo stabilimento di Saronno, la De Angeli
ne aveva diversi altri ad Omegna, Milano, Ponte Nossa, Legnano. La fabbrica di
Saronno era una scuola per le diverse professionalità.
Ad
un certo punto mi è stata fatta la proposta di uscire dall'azienda e andare a
lavorare al sindacato. Il sindacalista che seguiva la zona era di Belluno e a
causa la morte della moglie, avendo due figli, ha dovuto rientrare a casa. Sandra
Codazzi periodicamente arrivava dalle nostre parti per cercare di reclutare
giovani disponibili a entrare nel sindacato, ma io le ho sempre detto di no
perché pensavo di non esserne in grado e poi ero già impegnata sui temi del
lavoro in Azione cattolica. In quell’occasione mi hanno detto che non c'era
nessuno pronto per sostituire il sindacalista che se n'era andato e mi hanno chiesto
di dare una mano per due, tre mesi. Il 10 ottobre 1968 ho lasciato la fabbrica,
lo stesso giorno in cui lasciava la Marelli anche Lorenzo Cantù. Da due mesi
siamo arrivati a sei, dopo di che il mio segretario Crementi, senza dirmelo, ha
telefonato all'azienda dicendo di chiudere il mio rapporto di lavoro. Non
gliel'ho mai perdonata, soprattutto perché non accettavo che uno decidesse per
me. L'ho scoperto quando la direzione mi ha mandato a chiamare per ritirare la
liquidazione, perché lui non aveva avuto il coraggio di dirmelo. Ci sono state
vivaci discussioni in direttivo, ma alla fine sono stata assunta alla Cisl.
Nel
mio nuovo incarico dovevo seguire 92 fabbriche. Inizialmente erano 56, ma erano
gli anni della contrattazione. La zona era quella di Castellanza, Tradate e
Saronno. Una volta Emilio Zeni mi ha mandato a chiamare dicendomi che doveva
farmi un encomio perché avevo fatto quattromila iscritti, un numero che nessuno
aveva mai fatto. Erano aziende nuove, dove il sindacato non era mai arrivato e
facendo i contratti era normale iscrivere le persone. Nelle aziende più consolidate,
come ad esempio la Cantoni o la Tosi, io mi portavo a fare le assemblee Giovanna,
una splendida ragazza di Castellanza, la più bella che c'era, una tessitrice
della Cantoni, una mia attivista. Mi hanno accusata di fare concorrenza sleale.
Mentre io facevo l'assemblea lei girava tra i lavoratori e faceva le deleghe e
tutti i ragazzi la firmavano. I primi anni Settanta sono stati anni di grande
crescita del sindacato, ma soprattutto della Cisl.
Dopo
cinque anni di quell'esperienza è arrivato un dirigente nazionale, Idolo
Marcone, e mi ha detto che dovevo andare all'Unione provinciale, io non volevo
perché per me la cosa più bella era fare le vertenze aziendali. Ero gratificata,
stavo bene quando conquistavo un'azienda e riuscivo a fare il contratto
aziendale. Tenendo conto che il 30% non applicava il contratto, la battaglia
era per l'applicazione del contratto nazionale e la conquista di un premio
aziendale.
Anche
in questo caso ho dovuto accettare e nel 1974 sono entrata nella segreteria
dell'Unione provinciale di Varese dove dovevo occuparmi dei temi sociali, ma a
me piaceva l'industria e quindi ho avuto quell'incarico. In quel periodo si
formavano i primi presidi sanitari nelle zone e ho costruito il distacco di
Diego Averna dall'ospedale di Cittiglio. A Varese non ci sono stati problemi
particolari. In segreteria c'era Marino Bergamaschi che era entrato con me ed era
un po' più a sinistra, Alberto Boldrini il segretario generale che veniva dai
chimici era il più moderato, io ero quella che teneva a bada Gianni Bon, perché
lui faceva anche gli scherzi ai congressi. Non avevamo la Fisba, perché di
agricoltura a Varese non ce n'era. Zeni era per l'unità sindacale.
Dopo
soli tre anni che ero nella Cisl territoriale sono stata chiamata al nazionale.
Anche in questo caso ero contraria, ma poi ho accettato e sono andato a Roma a
sostituire la Codazzi. Segretario generale della Cisl era Pierre Carniti, era
venuto a Milano per una manifestazione per ricordare Achille Grandi e aveva
voluto incontrarmi. Ci siamo trovati a casa mia insieme a Boldrini e agli altri
componenti della segreteria con l'obiettivo di spiegare a Carniti che avrei
dovuto rimanere a Varese. Ma alla fine ho ceduto e nel 1977 sono andata a Roma,
anche se pure in quell'occasione io mi sentivo inadeguata a ricoprire quel ruolo.
Alla Filta nazionale ho fatto due anni con segretario generale Vittorio Meraviglia.
In quel periodo la sede nazionale della Filta era a Milano, ma era tagliata
fuori da tutti i giochi nazionali, alla fine sarà trasferita a Roma, e io sono
stata immediatamente mandata a Roma in una sede che in quel momento era
definita come sede del Sud, da Roma in giù. Molti avevano sostenuto la mia
candidatura, ma in realtà dentro il sindacato dei tessili ero considerata
troppo di sinistra, troppo innovativa, e per far diventare quelle idee
patrimonio di tutta l'organizzazione serviva qualcuno dall'esterno e a quel
punto è arrivato Rino Caviglioli. Quando nel 1985 ha lasciato sono diventata
segretario generale della Filta e ho ricoperto quel ruolo fino alla metà del 1992.
Poi sono andata in confederazione per tre anni e mezzo. Segretario generale era
Sergio D'Antoni che io non ho mai votato, però gliel'ho sempre detto.
Nel
1967 abbiamo fatto un contratto difficilissimo, con un aumento in percentuale
dell'uno e mezzo, però c'erano due cose che hanno interessato: c'era la legge
sulla maternità che tutelava le donne e il primo approccio per la parità salariale.
E’ stato il risultato di una grande battaglia contrattuale delle donne che
hanno partecipato attivamente agli scioperi e se c'erano dei crumiri erano loro
che andavano a schernirli, gli buttavano delle monetine.
Sui
temi generali di cui si cominciava a parlare in quegli anni come riforma della
sanità, pensioni casa, la partecipazione era più critica. Nelle assemblee che
si facevano anche all'esterno della fabbrica, i comizi come si chiamavano
allora, la presenza era limitata.
Ho
creduto molto nell'unità sindacale e ho sofferto quando il percorso si è
fermato e mi infastidivano coloro che l'ostacolavano. Anche dentro la nostra
organizzazione avevamo pezzi a Brescia, in parte a Bergamo, a livello nazionale,
che erano contrari all'unità. I nostri anziani, in particolare quelli che
provenivano dalle tintorie, non volevano in alcun modo stare insieme ai comunisti
della Cgil. Quando però il processo si è fermato, dentro di me ero contenta di
non aver mischiato i documenti, contrariamente a quanto fatto in alcune zone,
come ad esempio a Busto, dove avevano costituito un'unica segreteria.
La
mia prima assemblea dopo l'approvazione dello Statuto dei lavoratori l'ho fatta
in Cantoni dove si parlava della situazione aziendale, il tema era
l'assegnazione di macchinario, perché si passava da un tipo di telaio a navetta
al nuovo telaio senza navetta che cambiava i tempi di lavorazione.
Quell'assemblea è stata una grande emozione, anche perché l'uso del microfono
davanti a trecento persone non era una cosa semplice e poi bisognava andare
preparati perché ci facevano delle domande astruse, anche fuori dall'argomento
dell'assemblea, e io dovevo saper rispondere.
L'egualitarismo
è stato un tema fondamentale di conquista molto sentito dagli operai, in
particolare delle piccole aziende. Mentre nelle aziende maggiori, ad esempio,
nelle mense mangiavano insieme, nelle piccole fabbriche c'era il tavolo degli
operai e il tavolo degli impiegati. Erano le aziende che li tenevano
volutamente separati perché gli impiegati non dovevano iscriversi al sindacato.
L'obiettivo era raggiungere le stesse condizioni degli impiegati: la malattia e
il Tfr sono stati due grandi cavalli di battaglia dell'egualitarismo. Una
battaglia sostenuta in particolare dalla Cisl.
Gli
anni della moderazione salariale sono stati anni difficili, il nostro settore era
sempre in ristrutturazione e sono gli anni dell’introduzione del 6×6 nelle
aziende. Quante volte nelle assemblee mi hanno dato del venduto! Con la crisi
abbiamo ottenuto una copertura maggiore da parte della cassa integrazione, ma
le imprese sostenevano che non ce la facevano più, noi sostenevamo l'idea di un
maggior utilizzo degli impianti che avrebbe dovuto favorire nuovi investimenti
e quindi il mantenimento dell'occupazione. La proposta del 6×6 prevedeva che si
lavorasse anche il sabato e la domenica, solo le donne erano escluse dal turno
notturno. A coprire quel turno arrivarono giovani dalle Marche e dalla
Sardegna. Su tre turni ruotavano anche le donne mentre il quarto turno era
fisso ed era coperto quasi integralmente da questi nuovi immigrati. Le donne
non accettavano di lavorare il sabato e la domenica, c'è stata una guerra, ma
dopo qualche mese sono venute a ringraziarci perché avevano imparato a gestire
in modo flessibile il tempo libero di cui disponevano. La prima assemblea dove
abbiamo proposto questa nuova turnazione è stata alla Cantoni, c'erano anche
dei segretari nazionali, ma io da quell'assemblea sono uscita piangendo. Si
partiva sempre da qualche grande azienda perché una volta introdotta lì la
novità veniva poi trasferita in tutte le altre fabbriche.
Nel
congresso del 1969 il tema centrale era l'incompatibilità e Vito Scalia era
schierato con coloro che erano a favore mentre inizialmente Bruno Storti era
contrario. Io ero con Scalia. Nel congresso successivo Scalia era contro
l'unità sindacale. Abbiamo fatto una grande battaglia, io mi sono sempre
schierata per l'unità sindacale, ho fatto parte di quella sinistra cattolica
progressista che faceva riferimento all'Azione cattolica e alle Acli.
Credo
di essere stata un'ottima segretaria nella mia categoria, ho fatto tante
innovazioni intervenendo in varie parti d'Italia e facendo capire che i
dirigenti locali non erano più all'altezza di quel compito. Ma mai mettendo un
dirigente contro l'altro. Lavoravo finché riuscivo a convincere la persona che
era tempo di lasciare. La Filta era una categoria affettiva, composta in
maggioranza di donne, anche se non nei gruppi dirigenti.
Il
mio rapporto con la politica è stato molto distaccato. Posso quasi dire di aver
avuto un po' di timore della politica, la paura di farmi coinvolgere e non ho
mai frequentato partiti politici perché per me l'autonomia era fondamentale. Ho
partecipato solo più avanti ai Comitati Prodi. Credo che la politica abbia in
parte condizionato l'azione della Cisl, ma nella mia esperienza a Varese non ho
mai sentito la presenza o subito pressioni da parte dei partiti, in particolare
della Democrazia cristiana.
Può
darsi che nel periodo dell'unità sindacale noi si sia andati un po' al seguito
delle iniziative politiche, ma io non lo vivevo così. Sicuramente c'era una
contaminazione che però non ho vissuto come tale. Il giorno in cui hanno rapito
Aldo Moro ero al ministero del Lavoro per la trattativa Tosi.
Nell'innovazione
sindacale la Cisl ha inciso sia nelle idee di base, quelle di Mario Romani sul
valore della contrattazione decentrata, sia più avanti con l'idea della
concertazione, le idee di Ezio Tarantelli.