Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Impegno e passione. Gli anni caldi della Cisl in Lombardia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016
Sono nato a Modena il 16 settembre 1930, ho frequentato il liceo classico poi mi sono iscritto all'università, ma non ho concluso gli studi. La mia famiglia era numerosa, eravamo nove fratelli, io sono il più vecchio, mio padre era un medico condotto, guadagnava abbastanza ma nove figli erano pesanti da far crescere. Mia madre era laureata in matematica e insegnava a Torino fino a quando si è sposata, poi è rimasta a casa dedicandosi alla famiglia.
Mio padre spesso lavorava dalle otto del mattino fino alle dieci di sera, era non solo il medico condotto ma il medico di tutte le confraternite religiose della città, naturalmente gratis perché non si faceva pagare. Tutte le mattine, prima di andare in ambulatorio, alle sette andava a messa e lo stesso mia madre, che era una fervente credente.
Sono cresciuto in un ambiente cattolico e il
rapporto con la Democrazia cristiana è nato quasi naturalmente. Ho collaborato
con Ermanno Gorrieri, che allora era soprattutto un ex capo partigiano delle Brigate
Italia, molto stimato, molto conosciuto, che era stato nella segreteria della
Camera del lavoro unitaria.
Quando c'è stata la scissione della Cgil Gorrieri aveva
bisogno di qualcuno che l'aiutasse a spiegare i motivi della rottura e aveva
coinvolto un gruppo di studenti universitari della Fuci che giravano nelle
campagne a illustrare le idee e le ragioni della Cisl. Ho iniziato nel 1949 ad
avere rapporti con la Democrazia cristiana e con il sindacato svolgendo dei
piccoli compiti. Ho sempre lavorato solo nell’organizzazione sindacale e ogni
tanto qualcuno, soprattutto nei primi anni, mi criticava dicendo che non avevo
mai visto una fabbrica e io gli rispondevo che avevo fatto la gavetta in zone
dove andare in giro a parlare della Cisl non era per nulla facile.
Allora
si facevano gli incontri di formazione come le tre sere o le sei sere in giro
per le campagne del modenese. Ogni tanto facevo un salto in sede per i piccoli
incarichi che avevo e un giorno ho visto sul suo tavolo una lettera di Luigi Macario
che annunciava la selezione per il corso annuale alla scuola di Firenze. Gorrieri
mi ha visto interessato e mi ha detto che se volevo partecipare avrei dovuto scrivergli
una presentazione e lui l’avrebbe firmata. Eravamo nella primavera, estate del
1955, ho partecipato alla selezione e sono stato ammesso. A ottobre sono
arrivato a Firenze e sono rimasto lì fino al giugno dell'anno successivo. Era
l'ultimo corso diretto da Benedetto De Cesaris che poi Giulio Pastore ha
licenziato per ragioni non sindacali. (Si era messo con una donna separata). A
conclusione del corso c'era un pranzo di commiato e appena terminato Macario mi
ha chiamato e mi ha detto che dovevo andare a Sesto San Giovanni, aggiungendo
che una delle ragioni era perché conoscevo i comunisti, dato che a Modena allora
i comunisti, insieme ai socialisti, erano oltre il 75%, forse anche di più. A
me la proposta ha fatto piacere, però Macario mi ha detto che prima dovevo
andare ad aiutare Idolo Marcone a Pavia, impegnato nello sciopero dei
braccianti e dei salariati agricoli. Quando ho chiesto quando avrei dovuto
presentarmi, Macario mi ha risposto: ieri. Così sono andato un giorno a casa e
il giorno successivo sono partito per Pavia dove sono rimasto per un mesetto,
poi sono arrivato a Milano dove il segretario generale era Ettore Calvi e il
facente funzioni era Pier Virgilio Ortolani, perché Calvi era parlamentare.
Ortolani mi ha detto che il mio stipendio era di 40mila lire e per me, che non
avevo mai preso uno stipendio, andava benissimo, mi hanno trovato un posto dove
dormire a Sesto e lì sono rimasto per due anni. Nel settembre del 1958 Ortolani
e Sandro Pastore, che allora era il segretario organizzativo della Cisl di
Milano, mi hanno detto che dovevo spostarmi a Monza, dove c'era Casiraghi che
non reggeva più. Era il periodo delle crisi e dei licenziamenti nelle aziende
tessili, una fase molto difficile.
Il
mio atteggiamento era quello della disponibilità e quindi se per
l'organizzazione serviva che andassi a Monza per me andava bene. Monza era un
territorio molto importante e impegnativo e temevo un po' di non farcela, però
ci sono andato e sono stato accolto molto bene. A Monza c'era Costantino
Salomone che era impegnato giorno e notte per l'organizzazione e con lui ho
iniziato a collaborare con l'approvazione del direttivo. Sono rimasto lì per
due anni, dal settembre del ‘58 al giugno del ’60, quando Pierre Carniti, con
cui eravamo molto amici, perché le mogli si conoscevano e durante l'estate al
mare passavamo le serate insieme, mi ha detto che Macario voleva parlarmi. Senza
sapere che cosa volesse, sono andato a Roma da lui e Macario mi ha detto che
dovevo andare ad Aosta perché c'erano dei problemi e il segretario non era più
in grado di affrontarli.
Ad
Aosta ho trovato Enzo Friso e ho verificato che la situazione era abbastanza
solida. Il mio incarico era di segretario regionale della Valle d'Aosta. Alla
Cogne c'erano più di mille tesserati che pagavano regolarmente 250 lire al mese
per l'iscrizione al sindacato, poi c'erano altre poche realtà: una fabbrica
tessile e delle miniere. Il primo passo è stato quello di costruire una
piattaforma per aprire una vertenza con la Cogne sul premio di produzione. Dato
che la situazione non si sbloccava abbiamo deciso una giornata di sciopero, e
già questa cosa ad Aosta ha sollevato delle perplessità. Lo sciopero però non
ha portato allo sblocco della trattativa. Era il mese di giugno, dopo le ferie
di agosto abbiamo deciso un nuovo sciopero e quindi l'occupazione della
fabbrica. L'occupazione è durata più di venti giorni. A metà dell'occupazione
Bruno Storti mi ha chiamato a Roma. Di fronte all'intera segreteria riunita Storti
mi ha chiesto spiegazioni sull'occupazione, dicendomi che l'occupazione delle
fabbriche non faceva parte della tradizione e dei modi di agire della Cisl. Poi
ha preso la parola Dionigi Coppo con fare da pubblico ministero. Io ho spiegato
che la scelta era stata condivisa da tutte le rappresentanze sindacali e che si
era arrivati all'occupazione perché con gli scioperi non si arrivava a niente e
non si riusciva a concludere la vertenza. Di fronte alle osservazioni di Storti
e dei componenti della segreteria ho detto che per me quella era la scelta
corretta, ma che se volevano io potevo lasciare il mio impegno in Val d'Aosta,
però che dovevo portare a termine la vertenza. Al che Storti ha detto: "Fai
del tuo meglio e chiudi la vertenza al più presto". A quel punto la
trattativa si è spostata all’Intersind a Milano e dopo alcuni giorni l'abbiamo
chiusa con un premio di produzione di 20mila lire, che era praticamente
l'equivalente di metà stipendio. Un buon risultato. Durante la vertenza avevamo
aperto una sottoscrizione per sopperire alle giornate di salario perse, anche
quella aveva dato un buon esito. Chiusa la vertenza della Cogne, sono rimasto
ancora lì. In Val d'Aosta non c'erano altre presenze industriali significative.
C'erano è vero i due cantieri del traforo del Monte Bianco e del Gran San
Bernardo dove erano occupati parecchi edili, ma non era il mio settore e lo
seguiva un nuovo collega che era da poco arrivato e così ero libero.
Durante
la vertenza era venuto in valle Franco Volontè e insieme in macchina siamo
andati a Milano per la trattativa all'Intersind e abbiamo un po' parlato tra di
noi. Lui non condivideva le lotte unitarie. Nel frattempo io proseguivo nel mio
lavoro di formatore per la confederazione, incontrando in giro per l'Italia
parecchie persone e in quelle occasioni, e attraverso contatti telefonici, ho
cominciato a dire che era tempo di dare una sterzata all'andamento della
federazione dei metalmeccanici. In una di queste occasioni mi sono trovato a Roma
con Nino Pagani, e siccome ero in macchina, l'ho portato a Genova prima di
tornare a Milano. Durante il viaggio abbiamo parlato molto e costruito una
sorta di programma per tentare di cambiare la linea della Fim al congresso che
era imminente. Volontè era un volpone e in vista del congresso aveva convocato
i segretari delle strutture più importanti. Io, che rappresentavo un’organizzazione
piccola come quella della Val d'Aosta, non sono stato invitato e nemmeno Pagani,
che pure aveva più dei mille iscritti che avevo io, però lui si è presentato lo
stesso all'incontro. Io ho detto che non ci sarei andato, ma ho parlato con
Carniti e con Franco Castrezzati. Dopo una riunione ci siamo trovati nella
trattoria “Il paladino” di Milano, all'angolo tra via Tadino e viale Tunisia,
dove abbiamo deciso di presentare la nostra lista al congresso nazionale di
Bergamo e dove abbiamo vinto con una forte maggioranza. Dopo il congresso i tre
leader della nostra lista Carniti, Castrezzati e Alberto Tridente hanno
incontrato Volontè per concordare il da farsi.
L’accordo
prevedeva di cambiare la segreteria sostituendo Paolo Pomesano, che era un
socialdemocratico di Torino, con un rappresentante del gruppo che aveva vinto
il congresso. Gli altri componenti la segreteria in quel momento erano Volontè
e Luigi Zanzi. Carniti, Castrezzati e Tridente erano i candidati più ovvii
perché erano i più rappresentativi del sindacato metalmeccanici. Ma i tre si
sono autoesclusi perché molto impegnati nelle lotte sindacali: Tridente a
Torino con la Fiat, Carniti a Milano, Castrezzati a Brescia con la Om, per cui si
sono fatti il mio nome e quello di Antonino Pagani. Volontè non voleva
assolutamente Pagani e così sono entrato io. Eravamo nell'aprile 1962. In Fim
mi occupavo del settore sindacale e nel ‘62, ‘63 ho seguito tutta la trattativa
alla Fiat dove c'era stato un accordo di principio prima del contratto, che
andava concretizzato con trattative che sono durate quasi sette mesi. Seguivo
anche l'amministrazione. Con il congresso del 1965 in segreteria sono entrati
anche Nino Pagani e Alberto Gavioli.
Mi
ero sposato nel 1958. Vivevo a Sesto San Giovanni dove la Cisl mi aveva trovato
un appartamento all'ultimo piano nelle case Inail, in quello che era il
grattacielo della città che guarda sulla stazione. Mia moglie era un'insegnante
di scienze naturali e le hanno trovato un posto di lavoro allo Ial. Quando mi sono
trasferito a Monza siamo rimasti ad abitare a Sesto e andavo avanti e indietro
tutti i giorni, mentre quando sono andato ad Aosta ci siamo trasferiti là e lei
ha avuto subito un insegnamento, mentre quando sono entrato in segreteria
nazionale della Fim abbiamo abitato a Milano.
Nel
1969 io ero “obsoleto”. Durante il congresso ero a Parigi per un contatto con
la Cfdt, il sindacato francese con cui avevamo un rapporto abbastanza stretto e
non ho ottenuto un grande successo personale, anche perché non ero d'accordo
sul percorso di scioglimento della Fim che si stava realizzando per costruire
il sindacato unitario. Però non ho mai contestato questa scelta perché la mia
lealtà nei confronti del gruppo e della cordata era assoluta, non ritenevo di
dover passare all'opposizione. Anche se erano molti quelli che la pensavano
come me, ho deciso di starmene tranquillo. Dopo il congresso Macario mi ha
chiesto che cosa avrei voluto fare e io gli ho prospettato tre opportunità:
l'organizzazione internazionale a Ginevra, l'organizzazione europea a
Bruxelles, l'ufficio internazionale della confederazione. Questa è stata la
soluzione scelta e così sono entrato a far parte dell'ufficio internazionale
della Cisl.
Responsabile
politico era Baldassarre Armato, ma la persona che lo gestiva concretamente era
Fabrizia Baduel. Era un incarico molto appagante, la mia attività consisteva
nel seguire i migranti italiani all'estero. In quel momento non esisteva
praticamente niente e dal 1970 ho iniziato a girare il mondo a trovare gli
emigrati, quasi sempre a spese del governo perché tra conferenze e riunioni
varie riuscivo a non far spendere niente alla confederazione. Nel lavoro con
gli emigrati italiani mi sono trovato di fronte a un problema, perché
all'estero la Cgil era identificata come il sindacato dei comunisti, la Uil
come quello dei socialisti e la Cisl come quello dei democristiani. Ho fatto
molta fatica a far capire che la Cisl era autonoma, spiegando che
indipendentemente dalle mie scelte politiche la Cisl non era espressione di
nessun partito. Nella Cisl c'è di tutto, c'è libertà e la possibilità per tutti
di essere a casa propria. Era difficile, perché era una convinzione molto
diffusa.
Conoscevo
un po' di gente che incontravo a Ginevra dove andavo spesso per partecipare al
direttivo dell'internazionale, conoscevo quasi tutti i segretari dei metalmeccanici
in giro per il mondo e facevo riferimento a questi e all'Inas, che aveva
un'ottima struttura ed era diretta con pugno di ferro da Arciglio Ravizza,
fratello del segretario generale degli edili. Ho svolto quel compito fino al
1979. In quell'anno la Baduel, che era al Comitato economico e sociale europeo,
ha lasciato e sono stato nominato al suo posto. Una decisione prevista, anche
se in tempi più lunghi. Al Comitato economico sociale sono rimasto per undici
anni e contemporaneamente ho avviato una collaborazione con la Cisl della
Lombardia che Emilio Gabaglio, allora responsabile del settore internazionale,
poi diventato segretario confederale, aveva concordato con Melino Pillitteri.
Nel
1990 ho lasciato l'incarico europeo. Ho sofferto un po' questa decisione, che
non è stata gestita bene, poi ho continuato a mantenere la collaborazione con
la Cisl Lombardia fino al 2000. L'ultimo mio periodo in Cisl ha coinciso con il
primo periodo della segreteria di Carlo Borio con il quale non mi trovavo e
rispetto al quale non avevo nessunissima stima. Ho scritto un paio di lettere
che non hanno avuto nessuna risposta. Così quell’anno mi sono ritirato
definitivamente e ho potuto dedicarmi ai miei interessi tra i quali il gioco
del bridge.
Sul
finire degli anni Sessanta nelle fabbriche c'erano vari problemi. In siderurgia
si discuteva della valutazione oggettiva delle mansioni e dell'introduzione
delle paghe di posto che avevano avuto un grande successo all'Italsider di
Cornigliano, un'idea elaborata e sostenuta da Pietro Merli Brandini. Altro tema
era quello dei premi di produzione e il parametro P su H che doveva servire per
avere un criterio oggettivo per misurare la produttività.
Sono
stato sempre molto prudente nel valutare i processi di cambiamento nel mondo
del lavoro. Occorre considerare che molto del nuovo processo di partecipazione
era frutto di ciò che avevamo conquistato nel contratto del 1966, un contratto
giudicato fallimentare: ma avevamo ottenuto la trattenuta sindacale. Questa
permetteva ai collettori e ai membri della commissione interna di non dovere
più andare dai lavoratori a chiedere i soldi, ma semplicemente una firma su un
modulo e ciò ha dato molto spazio alle adesioni, ha contribuito a far crescere
l'organizzazione e, seppure ancora in minima parte, la partecipazione.
Nel
1969, durante la stagione contrattuale - ero ancora nella segreteria della Fim
- è nata e si è sviluppata la richiesta di far entrare i sindacalisti nelle
fabbriche per fare le assemblee e spiegare i contenuti delle richieste
contrattuali. I padroni erano contrari e così è stato architettato di
organizzare degli scioperi durante i quali gli operai portavano in fabbrica un
sindacalista che faceva un comizio e poi tornava fuori. Tra gli artefici di
quella iniziativa c'era Carniti.
Devo
dire che in quell'occasione Confindustria ha fatto buon viso perché avrebbero
potuto arrestarci tutti. Io sono andato alla Philips di Monza, che era una
fabbrica abbastanza grande e importante. Davanti al cancello sono stato
circondato da un gruppo di lavoratori che mi hanno portato all'interno. A Monza
avevo dei vecchi amici, ho fatto il mio comizio e tutto si è svolto
tranquillamente. Il direttore del personale, che era una persona a modo, che
poi ho avuto modo di incontrare nelle trattative per il rinnovo del contratto,
perché faceva parte della delegazione di Confindustria, mi ha detto che aveva
ascoltato il mio intervento. È stata una vicenda entusiasmante, anche se mi ha
lasciato un po' di amaro in bocca perché io ero per lottare per realizzare
delle buone regole e poi rispettarle invece in quell'occasione eravamo noi i
primi a infrangere le regole e questo mi dava un po' fastidio. È sempre stato
questo il mio atteggiamento in tutta l’esperienza sindacale.
Le
nuove presenze sindacali come i Cub che si organizzarono dentro le fabbriche in
realtà secondo me non contavano niente.
In
Fim sono arrivati personaggi come Tiboni, che era a Brescia e Castrezzati non lo
voleva più, così Carniti ha deciso di trasferirlo a Milano, poi da Trento è
arrivato Mattei. C'erano un po' di personaggi di questo genere. Ad esempio a
Brescia c'era un piccoletto che mi raccontava di essere andato ad occupare la
sede della Dc con questo slogan: "Sì sì sì siamo tutti qui a fare la pipì
nella sede della Dc". Comunque in quegli anni tutti convivevano dentro la
Cisl. Non si trattava però di posizioni molto diffuse, molto più forte era
l'idea dell'unità sindacale. Quando si arrivò a Firenze uno e Firenze due ero ormai
all'ufficio internazionale, ero contrario allo scioglimento delle categorie, però
rispettavo le scelte dell'organizzazione così come ritenevo che dovessero
essere rispettate le mie posizioni. Andavo in giro per il mondo a parlare con
gli emigrati italiani, dicevo che c'era in corso un processo unitario, ma non mi
soffermavo più di tanto. Sostenevo allora che il massimo dell’unità possibile -
e la storia lo ha dimostrato - era quello della federazione unitaria. Aver
voluto forzare la mano per spingersi più in là in realtà ha portato alla
rottura e ai Cofferati e alla Camusso.
Con
la Baduel ho sempre avuto un rapporto abbastanza stretto, lei era la
responsabile dell'Ufficio internazionale della Cisl ma era anche la persona di
fiducia di Storti per tutte le questioni internazionali. Storti in quel momento
era presidente della Cisl internazionale e la Baduel era il suo factotum e
spesso quando ero a Roma per le trattative andavo a cena con lei e si parlava
dei problemi interni all'organizzazione e del contrasto tra le due grandi linee
che erano presenti in Cisl. Un contrasto vivo già da diversi anni. Parlavamo
delle difficoltà anche sue di essere fedele al suo ruolo e al rapporto con Storti
e i problemi che ne nascevano, convinti che noi dicessimo cose giuste. Mi
trovavo a Parigi e ho ricevuto una telefonata dalla Baduel che mi chiedeva di
incontrare Storti in occasione della riunione del direttivo della Cisl
internazionale a Bruxelles. Ho sentito Macario e lui mi ha detto di farlo pure.
Così ci siamo visti a Bruxelles a cena noi tre e io ho detto a Storti che
sbagliava a stare con quei cialtroni che sostenevano la posizione conservatrice
della Cisl, che rappresentavano i braccianti agricoli e poco altro. Ho spiegato
che era tempo di fare un passo avanti perché se il sindacato non era unito non
contava niente e lui in qualche modo abbozzava dicendomi però che non si poteva.
Negli
anni successivi Storti ha cambiato posizione, è passato con noi, avendo compreso
- più di quanto molti nella Cisl non fossero ancora disposti a sostenere - che
l'avvenire dell'organizzazione stava in uno sforzo più unitario. Dall'altra
parte è rimasto Sartori, che era il leader della componente minoritaria, la
frangia in qualche modo più legata alla Dc più conservatrice. Poi Sartori si è
ammalato e siamo andati a trovarlo insieme a Carniti a casa sua nelle ultime
settimane di vita e il testimone di quella componente è passato nelle mani di Franco
Marini. Marini, che da segretario della Federpubblici era stato uno dei
fondatori dell'opposizione interna insieme a Macario, Frandi e Armato, dopo ha
cambiato posizione. E’ stato un voltagabbana. Un comportamento che però lo ha
premiato, infatti è diventato prima aggiunto di Carniti e quindi segretario
generale della Cisl.
Le
vicende nazionali influivano assai poco nei territori e nei luoghi di lavoro
perché ognuno lì faceva le scelte che riteneva più giuste.
Con
Pizzinato eravamo amici, perché siamo stati un mese insieme in Russia. Un
giorno, eravamo alla vigilia del referendum del 1985, avendo impiegato
parecchio per trovarmi perché ero in giro a Bruxelles e altrove, mi ha domandato
se ero ancora un buon amico di Carniti. Ovviamente ho detto di sì, Pizzinato allora
mi ha chiesto di dire a Carniti che Lama voleva parlargli. Di fronte alle mie
perplessità - perché Lama non lo chiama direttamente? - Pizzinato mi ha fatto
capire che sarebbe stato meglio l’intervento di una terza persona. Allora ho
chiamato Carniti e gli ho detto che Pizzinato, che era un uomo di Lama, voleva
parlargli dicendogli che probabilmente voleva cercare una qualche forma di
intesa per evitare un'eccessiva esasperazione della situazione. Carniti ci ha
riflettuto un po' e poi mi ha risposto: “E’ troppo tardi”.
Secondo
me la politica non influenzava le scelte sindacali. Macario, ad esempio, aveva
un rapporto di amicizia con Pietro Ingrao e una volta l'ha invitato al
direttivo della Fim. Quando c'era qualche problema con la Dc era Storti che
diceva ai democristiani che cosa dovevano fare e non viceversa. Per quello che
ho conosciuto io, Storti era molto rispettato. Ho avuto modo di lavorare molto
con i comunisti della Fiom e successivamente della Cgil, la maggior parte
persone oneste. Era gente che ci credeva. Ricordo un segretario della Fiom di
Bologna, Albertino Masetti, con cui seguivamo le fabbriche dell'Intersind e non
abbiamo mai avuto problemi in merito a questioni sindacali. Lui era un
comunista doc, di quelli stalinisti. Come Rinaldo Scheda, altro stalinista, ma
di una onestà intellettuale incredibile. Ho sempre trovato persone con le quali
sul piano sindacale si riusciva ad andare d'accordo.
La
grande spinta alla partecipazione di fine anni Sessanta inizio anni Settanta è
nata al di fuori della fabbrica per poi trasferirsi all'interno dei reparti.
L'idea della delega e della trattenuta sulla busta paga è nata nel chiuso delle
direzioni nazionali del sindacato e poi questa si è trasferita nei luoghi di
lavoro e ha facilitato moltissimo l'attività delle commissioni interne e dei
rappresentanti sindacali. La delega ha favorito un notevole rafforzamento del
sindacato rispetto a quella che era la sua condizione fino ai primi anni Sessanta.
In
quel periodo il sindacato faceva fatica ad andare avanti e io personalmente
sono andato in Svizzera a Ginevra, alla sede della Cisl internazionale, a
prendere dei contributi di settemila franchi perché eravamo con l'acqua la
gola. Formalmente erano soldi americani, ma il riferimento per noi era la Federazione
internazionale dei metalmeccanici, senza alcun condizionamento di nessun
genere.
Nelle
scelte della Cisl contava molto una visione pragmatica, dietro non c'era una
filosofia precisa. L'impronta l'aveva data Mario Romani e negli anni successivi
ad arricchire la linea culturale della Cisl c'era De Panfilis che faceva un po'
da sponda a Storti sul terreno culturale. La Cisl non ha subito eccessivi
condizionamenti da quello che era il sentire abbastanza diffuso degli anni fino
al ’69, inizi anni Settanta, era semmai il suo pragmatismo che la portava a
condividere alcune scelte più avanzate che nascevano dalla concreta esperienza,
ma certamente la Cisl non è stata succube della Cgil, né del Partito comunista.
Con la Cgil si praticava un negoziato quotidiano per trovare un punto
d'incontro per essere più efficaci nei confronti degli interlocutori.
La
Baduel sarebbe stata un ottimo segretario confederale invece è stata
sacrificata, un po' per la sua amicizia con Storti, rapporto che lo metteva in
difficoltà a proporla in quel ruolo, un po' per la sua provenienza da una
famiglia di imprenditori di Perugia e un po' per il fratello comunista. Quando ero
delegato dei giovani democristiani di Modena, Ugo Baduel era delegato dei
giovani democristiani di Perugia e successivamente è diventato comunista.
Verso
la fine del 1978 si era aperta la possibilità che la presidenza al Comitato
economico e sociale europeo, che per rotazione toccava ai lavoratori, potesse toccare
a un rappresentante italiano. La Baduel era interessata a quel ruolo e mi ha
chiesto di parlarne con Macario, cosa che ho fatto sostenendo che valesse la
pena sostenerla. Macario ne ha parlato con la Cgil, si è trovato un accordo e
la Baduel è diventata presidente del Comitato economico e sociale. Poco tempo
dopo però si è candidata al Parlamento europeo per il Partito comunista. Io
sono rimasto di stucco, l'avevo sostenuta, avevamo un rapporto di lunga data
fin dai tempi della Fim e che lei non mi avesse detto niente mi sembrava
inaccettabile. A quel punto si è dimessa e io sono entrato al Comitato.
In
quegli anni i nostri rimborsi erano pagati in franchi belgi e quando li
ricevevo dovevo andare in banca a cambiarli in lire italiane. Un bel giorno in
banca trovo Fabrizia Baduel, che era stata eletta parlamentare europea, che
quando mi vede mi viene incontro a braccia aperte, ma io ho fatto finta di
niente e mi sono girato dall'altra parte. Le volevo bene e quel gesto mi è
costato, ma mi sembrava che fosse doveroso. Qualche tempo dopo, su
sollecitazione di Merli Brandini, le ho scritto una lettera ma lei non mi ha
risposto. L'ho detto a Merli Brandini e dopo qualche tempo ho ricevuto un
biglietto in cui mi diceva che se fossi passato da Roma le avrebbe fatto
piacere incontrarmi.
Nel
mio impegno nell'ambito dell'Ufficio internazionale della Cisl pian piano mi
sono in qualche modo appropriato dei rapporti con i sindacati dei paesi
socialisti, dopo aver fatto una grande battaglia per affermare che dovevamo
avere rapporti con questi sindacati. La mia idea era che se si fossero
mantenuti rapporti solo tra i governi, i sindacati sarebbero rimasti tagliati
fuori. Oltretutto, avere rapporti non vuol dire fare amicizia. Questa
iniziativa è proseguita e si è rafforzata in Lombardia, in particolare nei contatti
che abbiamo sviluppato unitariamente con gli ungheresi.
Per
molti anni la politica europea della Cisl è stata gestita da Giacomina Cassina,
una carissima amica. Io ero un battitore libero, ad esempio non ho condiviso
l'idea del continuo allargamento dell'Unione europea e tanto meno la
possibilità dell’ingresso della Turchia e più volte al Comitato economico
sociale mi sono trovato a votare contro da solo.
Grazie
al mio incarico ho girato il mondo: praticamente tutta l'Europa, tutte le
Americhe, il Magreb, i paesi dell'area socialista, ma di turismo sociale non ne
ho mai fatto.
Al mio rientro da un viaggio in Argentina, credo il
primo, nel 1972, ‘73, ho steso un rapporto per l'ufficio internazionale e la segreteria:
non ricordo se Klosterman, presidente dello Smata, il sindacato argentino
dell'automobile, e Ruci, presidente della Cgt argentina, fossero già stati
trucidati. Oltre agli "apprezzamenti" sulle Acli, analizzando
sinteticamente la situazione del Paese, concludevo che il giustizialismo peronista
costituiva un sistema che garantiva il massimo possibile di partecipazione
democratica dei lavoratori alla gestione del Paese, attraverso il monopolio
sindacale, la gestione del collocamento, del sistema sanitario e di quello pensionistico.
Il rapporto fu respinto ed io fui invitato a stenderne uno meno drastico. A
distanza di oltre quaranta anni, alla luce degli avvenimenti successivi,
compresa "Plaza de Majo”, devo concludere che avevo perfettamente ragione.
Dal 1963 al 1967 sono stato membro del Comitato consultivo della Ceca e per un
anno presidente, eletto in concorrenza con un prestigioso componente la segreteria
della Ig Metal, il potente sindacato dei metalmeccanici tedeschi - due milioni
di iscritti, a fronte dei nostri 100mila - e deputato del Bundestag nel gruppo
della Spd. Nell'esercizio di queste funzioni, insieme all'Ufficio di presidenza,
abbiamo effettuato una visita in Olanda, con ricevimento offertoci dalla regina
Gugliemina: naturalmente avrei dovuto pronunciare un indirizzo di saluto e di
ringraziamento il cui testo era stato oggetto di faticosa preparazione nei
giorni precedenti: al momento indicato - avevamo già avuto il piacere di
cominciare a gustare le prelibatezze del buffet - ho estratto dalla tasca il
foglietto con il testo di quello che avrei dovuto dire, ma cominciato a leggere "Madame la reine..."
le parole scritte hanno iniziato a ballarmi davanti agli occhi e così, rimesso
in tasca il foglietto, tra l’evidente costernazione degli amici presenti, ho
proseguito a braccio pronunciando - secondo me - uno dei più bei discorsi della
mia vita. Puoi immaginare le risate, sia immediatamente che in occasioni successive
al ricordo dell'avventura.
La
Cisl ha avuto tre segretari generali bravi: Pastore, Storti bravissimo e
Carniti. Poi a una certa distanza viene Pezzotta, il resto è praticamente
fuffa.