Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Non serve stare sui tetti. Il sindacato della contrattazione e della responsabilità”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2014
Made in Italy?
Il made in Italy è la nostra forza! Il valore delle
produzioni italiane è assicurato dalla capacità della manodopera locale! La
qualità è garantita dalla filiera produttiva locale! Difendiamo le nostre
produzioni! Quante volta abbiamo sentito ripetere affermazioni simili, quanti
imprenditori hanno vantato con queste parole le loro imprese. Parliamo di moda,
agroalimentare, arredamento e design, produzioni invidiate in tutto il mondo.
Capita però che proprio i paladini del made in Italy,
industriali dotati di buona stampa che si presentano come i difensori delle
produzioni nazionali, appena si offrono le opportunità per fare cassa o
tagliare i costi non ci pensino un attimo a esternalizzare lavorazioni cruciali
o vendere i loro gioielli.
Così alla Cassina di Meda, storica azienda
dell’arredamento di alta gamma, appartenente al gruppo Frau, è toccato ai
lavoratori difendere le eccellenze italiane, sfruttando nella loro battaglia un
altro nome forte del nostro povero bel Paese: la Ferrari. Impedendo così il
trasferimento in Romania del lavoro di cucitura, uno degli elementi che segnano
la qualità del prodotto, salvo poi finire, insieme ad altri prestigiosi marchi,
nelle mani della multinazionale statunitense Haworth. Peraltro, una conclusione
che i lavoratori di Meda hanno salutato come un cambiamento tutto sommato
positivo. “La recente acquisizione del Gruppo Frau da parte degli americani non
è un fatto negativo, anzi – sottolinea il delegato Cassina della Filca Cisl,
Cesare Favè -, non si tratta di un’azienda diretta concorrente e ha bisogno di
noi per reggere la concorrenza con altre imprese, perché a lei mancano i
settori che invece caratterizzano il gruppo Frau e quindi penso che andremo
d'accordo. In questa vicenda sono emersi gli interessi della vecchia proprietà
che erano di tipo finanziario più che industriale”.
Favé a Meda ci è nato e in Cassina è entrato nel
1989, iniziando subito il suo impegno, prima come rappresentante dei lavoratori
per la sicurezza e dal 1996 come delegato. Oggi vive a Seregno, ha 55 anni e un
figlio di 24. Dopo aver frequentato la terza media ha iniziato a lavorare in
una piccola azienda artigiana dell'arredamento dove erano in due dipendenti e
lì ha imparato il mestiere. Ci è rimasto per quindici anni per poi essere
assunto in Cassina, dove attualmente è occupato come rivestitore, cioè mette i
rivestimenti sugli imbottiti.
L'azienda ha più unità produttive a Meda e dintorni,
complessivamente occupa 280 addetti. Prima di essere acquisita nel 2005da Frau,
dal momento in cui è stata ceduta dalla famiglia Cassina è passata attraverso
altre due proprietà e in tutte queste transizioni non ci sono mai state
conseguenze particolarmente negative per i lavoratori.
I primi due anni della gestione Frau sono stati
estremamente positivi, poi è arrivata la crisi. Già all'inizio del 2008 nei
reparti è iniziata a diffondersi la voce secondo cui la manodopera era
eccessiva, in quel momento gli addetti erano circa 330, e subito dopo è
arrivata la cassa integrazione con la messa in mobilità di 55 persone. Fino a
quel momento non c'era mai stata una riduzione di personale. In quel frangente
si sono visti solo dei tagli e nessun impegno dell'azienda sul futuro, nessun
investimento.
La crisi non era dovuta a perdite di mercati, ma a
una diffusa riduzione dei consumi, in particolare in Europa. Cappellini, altra
azienda del gruppo, insediata anch’essa in Brianza, ha vissuto una situazione
molto più pesante della Cassina, con il passaggio da 120 persone a venti.
“Probabilmente noi abbiamo pagato per sostenere le altre – spiega Favè -, anche
Frau ha ridotto gli addetti di 66 unità. Quell’anno si è iniziato a parlare di
riduzione dei costi di produzione e quindi essenzialmente dell’occupazione.
Hanno mandato del lavoro in Romania, con dei modelli realizzati in Italia, e a
quel punto abbiamo cominciato ad allarmarci. Si trattava di una
esternalizzazione, con dei terzisti, non è stata costituita nessuna filiale.
Fino a quel momento tutte le lavorazioni erano fatte direttamente in azienda
oppure da fornitori vicini alla fabbrica, sempre del territorio. Inizialmente
si è trattato di lavori semplici, come cuscini con cuciture normali, per
verificare le capacità e la qualità di questi fornitori, poi la direzione nel
2011 ha fatto capire di puntare sulla Romania come punto di forza della
produzione Cassina. Di terzisti qui in Brianza ne abbiamo già altri tre, oltre
alle cucitrici che lavorano in azienda e a quelle che lavorano da casa.
L'obiettivo era quello di avere come unico terzista la Romania e inserire le
nostre cucitrici interne e le tre che lavorano da casa in una cooperativa,
portandole più o meno allo stesso livello dei costi della Romania. Questo pur
sapendo che in un prodotto di alta gamma la cucitura è una delle lavorazioni
più importanti”.
L’incredibile proposito dei responsabili aziendali ha
suscitato l’immediata reazione dei lavoratori. “Non solo ci siamo mobilitati,
ma ci siamo proprio arrabbiati – sottolinea con forza il delegato Filca -
perché utilizzare le lavorazioni in Romania per un prodotto di questo genere
che caratterizza il made in Italy era proprio una cosa improponibile. Durante
tutta la vertenza noi eravamo molto molto più determinati rispetto alla Cgil.
Abbiamo iniziato a fare degli scioperi molto duri, tipo quelli che si facevano
negli anni ‘70 e che in Cassina non si erano mai visti. Abbiamo utilizzato
molto i messaggi che contrapponevano la scelta di andare in Romania con i
continui proclami di Luca Cordero di Montezemolo, e del treno Italo che stava
partendo proprio in quei giorni, sul valore del made in Italy. Abbiamo
sperimentato tutti i mezzi di comunicazione, i social network, Internet, la
carta stampata e le televisioni, sviluppando il massimo di fantasia che siamo
riusciti a costruire. Le notizie hanno immediatamente varcato l'oceano e sono
arrivate negli Stati Uniti, ai nostri clienti e ai clienti di Frau.
Abbiamo coinvolto la politica locale e nazionale,
abbiamo lavorato con le segreterie sindacali territoriali. Con l'aiuto del
sindaco di Meda abbiamo contattato la Regione, che si è subito attivata con
Montezemolo. Durante la fase critica degli scioperi e della vertenza gli
impiegati si sono impegnati molto, soprattutto quelli che avevano i contatti
con i clienti a cui hanno mandato informazioni sul rischio di trasferimento
delle produzioni in Romania. Già nella prima giornata di protesta ci sono stati
dei segnali di ritorno. In particolare proprio dagli americani, che dicevano
‘non compriamo più i vostri mobili se il lavoro non viene fatto all'interno
dell'azienda o comunque nel comprensorio industriale’. In quel momento la
direzione accusava noi di avere creato i problemi proprio perché avevamo
diffuso la notizia di questo rischio”.
L'adesione agli scioperi e alle iniziative sindacali
in Cassina non è mai stata molto alta, ma in questa occasione i lavoratori
hanno sempre sostenuto con convinzione l’azione dei loro rappresentanti. In
azienda sono presenti Cisl e Cgil e la Cisl è maggioritaria, complessivamente
gli iscritti però sono solo un terzo dei lavoratori. Gli rsu erano quattro Cisl
e due Cgil, ma adesso sono ridotti a due e uno, perché ci sono state delle
dimissioni.
La svolta arriva alla vigilia del gran premio di
Formula 1 di Monza. I lavoratori erano pronti a muoversi e a utilizzare quella
vetrina che avrebbe dato molto fastidio al patron della Ferrari, perché la
protesta si sarebbe vista in tutto il mondo.
Favè è un vigile del fuoco volontario e in occasione
il gran premio è normalmente impegnato all'interno del circuito. Insieme ai
suoi colleghi aveva già studiato un piano per farsi inquadrare dalle telecamere
durante la corsa.
Ma ecco l’inattesa sorpresa. Al pomeriggio del
venerdì di prove libere prima della gara i rappresentanti sindacali vengono
convocati dalla direzione aziendale e il piano di esternalizzazione viene
cancellato. Nel giro di quindici giorni la vicenda si chiude con un nulla di
fatto. Il progetto è rientrato, finito in niente. Una bolla di sapone.
“Abbiamo tenuto il punto fino alla fine e la nostra
azione è stata vincente, anche se ancora oggi ci domandiamo cosa sia accaduto
quel giorno – ricorda Cesare Favè -. Ci aspettavamo una risposta negativa a
tutte le nostre richieste e ci siamo trovati spiazzati, perché hanno accettato
tutto quanto e le persone che hanno tentato quell'operazione poco tempo dopo
sono state allontanate.
La nostra idea è sempre stata quella che un marchio
come Cassina non potesse trasferirsi dal luogo dove è nato e dove ha sede, però
quando abbiamo visto le esternalizzazioni in Romania, e soprattutto quando
siamo arrivati al progetto di trasferire la cucitura, abbiamo iniziato a
preoccuparci, a pensare che forse l'idea che noi avevamo non era la stessa
della proprietà e che l'azienda potesse essere in qualche modo smantellata. I
dirigenti sostenevano che il lavoro di cucitura non era così significativo e
importante, ma noi ricordavamo loro che sul sito, come elemento che dimostrava
la qualità delle nostre produzioni, sia delle poltrone Frau che di Cassina,
c'erano proprio le cuciture.
Avevamo anche una preoccupazione di carattere più
generale, perché se si permetteva un'operazione di questo genere a Montezemolo,
che si presentava come l'ambasciatore del made in Italy, poi a ruota lo
avrebbero seguito molti altri e sarebbe stato lo smantellamento non solo della
nostra azienda, ma dell'intero settore. Di questo abbiamo discusso tra noi
colleghi, abbiamo portato la nostra preoccupazione in Provincia e in Regione.
Durante la mobilitazione abbiamo avuto il sostegno dei lavoratori di tutte le
altre aziende del settore della zona, anche se qualche concorrente diretto
cominciava a sfregarsi le mani. È stato un periodo tremendo di ipertensione,
ero sottoposto a ogni tipo di pressione, di sollecitazione, è stato un impegno
totale. Mi ha aiutato anche il sostegno di mio figlio che leggeva tutto quello
che pubblicavano i giornali, ne parlavamo in casa”.
Il sindacato ha impostato la sua iniziativa in una
logica di territorio e di settore, ma nonostante questo non ha mai trovato
l’appoggio di Confindustria che si è sempre defilata. L’impostazione sindacale
invece è stata un cavallo di battaglia nel rapporto con il Comune, la Provincia
e la Regione ed è stata un punto di riferimento fondamentale.
In questa vicenda sono emerse le ambizioni e gli
interessi della proprietà, poco interessata agli aspetti industriali, tanto è
vero che ad un certo punto era stata anche prospettata l'idea di spostare
l'azienda, tentando con il Comune di Meda uno scambio sull'area, che da
produttiva avrebbe dovuto diventare residenziale.
Quali fossero i disegni della proprietà non era
chiaro. Addirittura lo show room era in condizioni davvero disastrose,
fatiscente, con il pavimento che si sollevava e i muri scrostati, ma sul quale
non veniva fatto nessuno investimento e, anzi, tra il personale che avrebbe
dovuto essere espulso dall'azienda c'erano proprio gli addetti a quella
struttura.
In Cassina il sindacato ha sempre contrattato forme
di flessibilità sulla base delle esigenze che si manifestano in un'azienda
quotata in borsa, dove normalmente si lavora meno a inizio mese e bisogna
lavorare di più alla fine, quando si chiudono i conti, così come in occasione
delle trimestrali, e i lavoratori non si sono mai tirati indietro. Anche questa
volta il sindacato non si è limitato a contrastare i progetti dell’azienda considerati
sbagliati, ma ha accompagnato le proteste con precise proposte.
Oltre al fatto che in Romania non si dovesse andare,
si insisteva sul fatto che si dovesse investire sul prodotto, sul rinnovamento
dello spazio espositivo e sulla ristrutturazione dell’immobile. Dopo il cambio
di strategia sono iniziati gli investimenti. Hanno rifatto lo show room, hanno
richiesto tutte le certificazioni di qualità, hanno sistemato la sala mensa,
sono intervenuti sulla parete esterna della fabbrica, che confina con un torrente
che creava problemi di umidità e infiltrazioni sulle pareti. Sulle linee
produttive hanno inserito nuovi macchinari con investimenti significativi.
“Da lì in poi fortunatamente siamo andati avanti bene
e continuiamo ad andare avanti bene – conclude il suo racconto Favè -. Nel 2012
abbiamo avuto un po' di cassa integrazione speciale e della mobilità, con
l'uscita di una quindicina di persone, però tutte accompagnate alla pensione,
ma questa volta le riduzioni sono state affiancate da nuovi investimenti.
Oggi finalmente c'è una proprietà molto più attenta,
sono americani ma sanno qual è il valore del made in Italy. Passiamo da una
società che parlava di made in Italy, ma era sostanzialmente una finanziaria, a
una realtà industriale che parla di prodotto e di qualità, una delle quattro
più importanti del settore negli Stati Uniti, l'unica non quotata in Borsa e
che è intenzionata a togliere dalla Borsa di Milano il gruppo di cui Cassina è
parte. Quando c'è un cambiamento qualche preoccupazione tra noi lavoratori c'è
sempre, però in questa occasione l'operazione ci è stata spiegata bene, sono
state precisate le ragioni, abbiamo fatto un incontro al quale ha partecipato
anche Montezemolo e tutto procede come prima.
Non è il primo cambiamento e nel corso della storia
recente ce ne sono stati altri, siamo certi comunque che per due o tre anni gli
assetti produttivi non muteranno, poi vedremo. Senza dimenticare che noi
lavoriamo per Haworth già da tre anni. Il prodotto Cassina, oltre che sulle
linee classiche, è giocato molto sulla creatività e l'innovazione. Cassina non
si adegua alle linee degli altri, ma cerca di imporre le proprie, facendo sì
che la concorrenza sia costretta a confrontarsi con i suoi modelli. Un tempo
tra i lavoratori entrare in Cassina era considerato un fatto di prestigio, ora
questo sentimento è meno presente, però è sempre un’azienda che ha una buona
attrattività, dove si cerca di venire a lavorare. C'è un alto livello di
fidelizzazione e infatti forse i giovani sono troppo pochi”.