mercoledì 10 giugno 2020

MARIO RIGO - Alfa Romeo - Milano

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “I motori di Milano. Tute blu per il secolo veloce”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2013

Sono nato a Biringhello di Rho il 3 aprile 1947. Mia madre e mio padre erano contadini, abitavamo in cascina, una famiglia come molte altre che in quegli anni sono passate dall'agricoltura all'industria. Gli ultimi anni di attività mio padre li ha trascorsi in fonderia all'Alfa Romeo al Portello ed è morto di silicosi nel ’52. Io avevo poco più di quattro anni, probabilmente si è ammalato a causa delle terre che si usavano in fonderia. Mia madre, rimasta sola, è andata a lavorare come operaia alla Citterio, il salumificio di Rho.

Quando è morto mio padre, mia madre ha fatto rientrare mia sorella di 14 anni che era in collegio e l'ha mandata a lavorare. Avevo anche un fratello, che è più vecchio di me di due anni, che non avevo mai conosciuto perché era sempre ammalato e l'ho incontrato la prima volta su un pullman che ci portava in colonia al mare a Cesenatico. Ho frequentato la prima elementare a Biringhello, poi, insieme a mio fratello, che per la sua malattia aveva perso due anni, con l'intervento dell’Enaoli siamo stati affidati alla Sacra famiglia di Cesano Boscone, che ci ha mandati a scuola in collegio in Liguria, ad Andora, dove abbiamo frequentato la seconda e la terza elementare. La quarta e la quinta, invece,  l'abbiamo fatta a Coquio Trevisago, sul lago di Varese. Infine, sempre con la Sacra famiglia, ho frequentato le tre classi di avviamento industriale a Cesano Boscone a Milano.

Sono rientrato in famiglia a 14 anni. Nel cortile della cascina dove abbiamo abitato fino al 1961, viveva anche il figlio del nostro padrone di casa, che era un capo alla carrozzeria dell'Alfa Romeo e ha suggerito a mia mamma di iscrivermi alla scuola aziendale dell'Alfa. L'Alfa aveva un buon nome, era un posto di lavoro sicuro e chi entrava nella scuola si assicurava un futuro. Per essere ammessi occorreva superare degli esami. La prima mattina mi sono presentato all'ottava portineria per affrontare l'esame di italiano. Ho fatto anche quelli di matematica e di meccanica, poi sono stato sottoposto ad un esame psico attitudinale. Li ho passati e ho iniziato a frequentare la scuola. Inizialmente tutti i ragazzi del mio corso stavano insieme, poi invece siamo stati separati. Fin dal primo anno si faceva mezza giornata in officina e mezza in aula. Ogni mese ricevevamo una pagella con una valutazione dei risultati raggiunti e se c'erano dei problemi venivano convocati i genitori.
Per andare all'Alfa prendevo il tranvai che arrivava più o meno all’altezza della Rai e che ad un certo punto è stato soppresso. Partiva da Gallarate e passava lungo il Sempione fino a Musocco, dove si cambiava con un altro mezzo che arrivava da una direzione diversa. Io impiegavo circa 40 minuti. A cuola stavamo otto ore, all'ingresso timbravamo il cartellino, a mezzogiorno pranzavamo alla mensa aziendale e timbravamo ancora alla ripresa pomeridiana e all'uscita serale. Eravamo assicurati all’Inail contro gli infortuni, ma non venivano versati i contributi previdenziali all'Inps. Eravamo pagati: il primo anno 35 lire all'ora, il secondo anno 50 e il terzo 75. Ogni fine mese prendevamo la busta paga e alla fine dei tre anni ho ricevuto anche una sorta di Tfr. Il primo anno non mi sono impegnato molto, ma poi il mio interesse è cresciuto e il terzo anno sono uscito di slancio. Non tutti frequentavano i tre anni, c'era chi ne faceva solo due. Il secondo anno imparavamo a lavorare sulle macchine utensili: tornio, frese, rettifiche, mentre il primo anno era solo aggiustaggio e tracciatura. Il secondo anno in aula come materie avevamo macchine, meccanica, tecnologia e matematica. Il terzo anno tutti i giorni facevamo mezza giornata al tecnigrafo ad imparare il disegno. Avevamo come insegnante anche un sacerdote, don Annibale Orsenigo, che noi chiamavamo Dao o anche pallino, perché era piccolo e portava i capelli alla Einstein. Era un prete di frontiera, che insegnava in numerose scuole professionali di Milano e che ci formava attraverso l'insegnamento di cultura generale che era un mix di letteratura, musica, arte, etica. L’obiettivo della scuola, infatti, era quello di preparare non solo dei bravi tecnici, ma dei quadri aziendali per i quali si riteneva necessaria una preparazione generale più ampia. Solo che questo sacerdote ci ha introdotti anche alla dottrina sociale della Chiesa e ai temi della giustizia sociale e ci ha fatto scoprire il sindacato. Da lui ho iniziato a sentire parlare di Maritain, di Mounier, di Peguy. Ho seguito don Annibale fino alla sua morte. Quel sacerdote, nel 1970, a Roma, ha celebrato il mio matrimonio con Lena.

Mi trovavo bene alla scuola dell’Alfa, mi sentivo come a casa nostra, andavamo a mangiare in mensa con gli operai, vedevamo uscire le nuove vetture come la Giulia. Ci sentivamo grandi. La gestione della mensa era esterna. Ricordo che una volta c’erano stati dei problemi con un pasto e per riparare all'errore commesso diedero gratuitamente a tutti un bicchiere di vino. Il vino allora si pagava, era servito in mastelli di legno con una donna che riempiva i bicchieri con un mestolo dando dell'ubriacone a tutti gli uomini che arrivavano da lei. Di solito gli allievi non lo bevevano, ma quella volta il vino toccava anche a noi. Alcuni operai ci hanno intimato di andare a prenderlo, così noi ci siamo messi in coda e abbiamo preso il nostro bicchiere di vino che poi hanno bevuto i più anziani.
Eravamo ragazzi, ma tre anni sono lunghi ed eravamo perfettamente integrati. Quando passavamo dall'officina molti ci chiamavano, scambiavano qualche parola con noi, potevamo essere loro figli.

La scuola aziendale era collocata nella zona nord del Portello ed era l'unica costruzione in muratura. Alla fine dei tre anni io e i miei compagni di corso siamo stati tutti assunti, anche quelli che non avevano avuto grandi risultati scolastici. Io sono entrato all'Alfa Romeo il 12 ottobre 1964, circa tre mesi dopo la conclusione del corso a fine giugno. Sono stato occupato all'ausiliaria, che era uno dei tre settori professionali in cui era organizzata la fabbrica - gli altri erano manutenzione ed esperienze - come operaio di terzo livello polivalente, tornitore su una linea che di tornitori ne aveva 70.
La nostra idea, quella di molti dei ragazzi che frequentavano la scuola dell'Alfa, era di proseguire gli studi alla sera per diventare periti. A me purtroppo è capitato di dover fare subito i turni, così mi sono messo d'accordo con un mio collega per favorirlo: io facevo sempre il secondo turno mentre lui faceva sempre il primo e poteva studiare. A causa di una ragazza di cui si era innamorato, però, non ha quasi mai frequentato la scuola e così a fine anno è stato bocciato. A quel punto abbiamo deciso di cambiare, io sono passato al primo turno e lui al secondo, e così ho potuto cominciare a frequentare l'istituto tecnico serale. Sei anni alla Pastor Angelicus di Quarto Oggiaro, dove mi sono diplomato.

In questo periodo ho continuato a frequentare Don Orsenigo dalle suore del Buon Pastore, in via San vittore 35, dove lui faceva il cappellano e dove aveva fondato un gruppo con lavoratori dell'Alfa, della Fiat con anche le ragazze. Era uno dei pochi gruppi misti che il cardinale Montini aveva autorizzato. Lì ho conosciuto mia moglie, che lavorava anche lei all’Alfa Romeo. In quel gruppo ci si preparava ad entrare nel mondo del lavoro, abbiamo studiato il marxismo, il socialismo, la dottrina sociale della Chiesa.

Nel ’67, ‘68 ho fatto il servizio militare, il car a Potenza e poi 12 mesi a Legnago del Friuli. Nell'agosto del 1968 ho ripreso il lavoro come tornitore di terzo livello e a frequentare la scuola serale. Poco dopo il mio rientro in fabbrica, avevo 21 anni, sono stato eletto nella commissione interna, l'ultima commissione votata prima della nascita dei consigli di fabbrica. Il mio reparto, l'ausiliaria, era un’area molto sindacalizzata, sulla mia linea c'erano due rappresentanti di commissione interna Fiom, uno comunista e l’atro socialista, che non andavano d'accordo tra di loro. Nel reparto è nata una vertenza sull'inquadramento dei lavoratori che erano stati declassati, io mi sono inserito e ho cominciato ad assumere un ruolo sindacale, dando voce alla loro protesta. Gli operai mi seguivano, mentre i due della commissione interna avevano un atteggiamento più moderato e non gradivano il mio comportamento. Ero iscritto al sindacato, alla Cisl, fin dai primi giorni di assunzione all'Alfa, ma lì la maggioranza era Fiom ed io ero molto giovane, eppure sono riuscito a trascinare tutti gli operai nella vertenza, che poi ha aperto la strada alle altre vertenze tra le aree degli operai professionalizzati. La vicenda è stata chiusa positivamente il 13 dicembre del 1968 e io sono stato eletto in commissione interna e subito sono diventato distaccato per conto della Fim.

Il distaccato di linea aveva un ufficio dove stava con gli altri commissari e aveva come compito principale quello di vigilare sull'applicazione del contratto.. Appena comparso il mio nome tra i candidati alle elezioni per la commissione interna la direzione mi ha trasferito d'autorità dall'ausiliaria alla manutenzione, ma lì sono rimasto 15 giorni perché poi essendo stato eletto sono stato staccato dalla produzione.
In una prima fase convissero commissione interna e consiglio di fabbrica. In occasione del primo rinnovo del consiglio di fabbrica nel 1971, siccome non ero sul mio posto di lavoro, sono stato cooptato nel consiglio e la commissione ha cessato di esistere. Formalmente la commissione interna avrebbe potuto esistere ancora a lungo, solo molto più avanti negli anni, infatti, le organizzazioni sindacali e la Fiat hanno fatto l'accordo per cancellarla.

Tutte le lunghe vicende dell'Alfa Romeo dal punto di vista sindacale sono state gestite unitariamente. Quando sono entrato in commissione interna l'idea dell'unità era diffusa tra la gente, però era faticosa. Molte volte le nuove forme di lotta che abbiamo introdotto, come ad esempio gli scioperi a scacchiera, facevano fatica ad essere comprese tra i leader più anziani. Nonostante questo, però, tra noi si sviluppavano anche rapporti di amicizia, io ad esempio ho avuto sempre un ottimo rapporto con Domenico Grossi, l’anziano commissario stalinista che lavorava sulla mia linea. Da lui ho imparato a conoscere il contratto e a contrattare.
I distaccati in quel tempo avevano in dotazione una pesante giubba nera fornita dall'azienda. La giubba andava benissimo quando passavamo nei tunnel sotterranei per andare da nord a sud dello stabilimento e sembrava di essere nella galleria del vento.

Nel 1969, quando ancora non era in vigore lo statuto dei lavoratori e i dirigenti sindacali esterni non potevano entrare in fabbrica per tenere le assemblee, noi abbiamo organizzato l'ingresso di Trentin, allora giovane dirigente della Fiom. Un gruppo abbastanza numeroso di delegati e di commissari, in gran parte della Fiom, e alcuni giovani si sono dati appuntamento sul cancello numero cinque. Trentin ha iniziato a parlare con me mentre i guardiani curavano soprattutto i vecchi delegati noti per essere comunisti. A quel punto Trentin mi ha preso sottobraccio e siamo entrati senza problemi. Se ne sono accorti troppo tardi, quando ormai il leader sindacale era dentro la fabbrica e cominciava a stringere le mani agli operai presenti. Due giorni dopo il capo dei guardiani, un ex carabiniere, un galantuomo, ci ha convocati e, rivoltosi a me, mi ha detto: “O lei è un furbastro oppure deve avere qualche santo in paradiso perché noi non ci siamo accorti quando è entrato”. Quella con Trentin fu una grande assemblea, lui in piedi sulla scala che saliva verso la mensa, con migliaia di operai ad ascoltarlo. L'idea dell'unità era molto forte, si voleva l'unità sindacale, l'unità tra operai e impiegati. Rapidamente conquistammo il diritto al distacco anche per gli impiegati e così da tre i distaccati passarono a sei.

A Milano nel 1970, ’71 abbiamo eletto circa 200 delegati in rappresentanza di oltre 12mila lavoratori. Ho continuato a fare il distaccato fino al 1973, nel frattempo nel 1972 mi ero diplomato. Ero molto impegnato come distaccato, studiavo e facevo attività sindacale. Le trattative si facevano all'Intersind, spesso di sera. È stato un periodo in cui l'impegno era totalizzante e quasi per me non c'era altro, quasi non vedevo più mia moglie. Quando sono rientrato nel reparto volevo lasciare l'azienda.
Sono sempre rimasto operaio di terzo livello e quando ho ripreso il mio lavoro ho mantenuto questo livello. Preso il diploma, il presidente Luraghi, come era tradizione in Alfa Romeo, mi ha mandato una cartolina autografata con un premio di 100mila lire.

Il 17 febbraio del 1972, in una giornata in cui nevicava, si è chiusa la vertenza per la revisione dell’inquadramento. Per arrivare a questo nei mesi precedenti in quasi tutti i reparti si erano succedute vertenze sul tema dell'inquadramento degli operai.

In quel periodo si era creato un nuovo gruppo omogeneo per gli impiegati e tecnici della manutenzione. Si fecero le elezioni e sono stato rieletto delegato e da quel momento lo sono sempre stato in rappresentanza degli impiegati, anche se non lo ero. Naturalmente ero conosciuto, perché quando c'erano le assemblee prendevo la parola, ero il numero uno della Fim, andavo a fare le assemblee alle verniciature, in manutenzione, alle meccaniche, ero giovane, magro e probabilmente anche bravo.
A metà degli anni 70 avevamo iscritto al sindacato l'80% degli operai e il 36% degli impiegati.

Sono arrivato ad Arese a fine 1985 ed ho avuto il passaggio come impiegato di sesta categoria solo 10 anni dopo e con grande fatica perché la Fiat non concedeva aumenti e passaggi a coloro che erano impegnati nel sindacato. La sesta categoria, con 113mila lire di aumento, mi è stata data grazie all'intervento di un ingegnere che mi conosceva e che ha sostenuto il mio passaggio di livello dopo che più volte era stato rifiutato.

Ho fatto tantissime attività sindacale anche da impiegato sia in azienda che in ambito provinciale, che a Roma. Facevo parte del coordinamento nazionale auto dell'Alfa Romeo. Poi ho fatto parte del coordinamento nazionale auto Fiat, che era molto più esclusivo. Ho sempre avuto l'impressione che noi si discutesse poco e di qualcosa su cui si erano già messi d'accordo prima. Ho fatto parte anche del direttivo provinciale della Fim, dove sono sempre intervenuto, così come intervenivo sempre ad ogni riunione del consiglio di fabbrica dell'Alfa. Qualche amico mi prende in giro dicendo che io non ho mai lavorato, in effetti è vero che sono sempre stato impegnatissimo per le attività sindacali, ma mia moglie usa dire che se mi avessero pagato le ore straordinarie saremmo diventati ricchi perché il tempo dedicato a quelle attività era enorme.

L'Alfa Romeo aveva impianti al Portello, ad Arese, a Pomigliano dove costruivano i furgoni e i motori a stella per gli aereoplani, poi è nata l'Alfa Sud. L'Alfa era anche le filiali di Milano, Padova, Bari, Montesilvano, era anche la Spica di Livorno, che produceva componenti per automobili, in particolare le candele. Una vertenza siamo andati a farla anche lì.

L’Alfa Romeo ha iniziato ad avere difficoltà nel 1973, con bilanci in rosso, in occasione della prima crisi petrolifera. Dal punto di vista sindacale è stata una vertenza continua, la “mitica Alfa” si diceva, “la fabbrica rossa”, la “fabbrica è nostra”: questi gli slogan che hanno caratterizzato a lungo le vertenze in azienda in quegli anni. Giorgio Bocca in un articolo scritto per Repubblica disse che l'Alfa Romeo ero un'azienda ingovernabile.
Col passare degli anni i più anziani tra i lavoratori si andavano convincendo che così non si poteva andare avanti. Dal 1980 in poi questa è diventata una convinzione diffusa. Massacesi e Medusa hanno cercato di rimettere in piedi l'azienda, era l'ultimo tentativo, ma non ci sono riusciti. A quel punto erano tutti convinti che doveva prenderci qualcuno.

Divenne quindi naturale cercare un acquirente, si scatenò una battaglia nazionalistica, la stessa Fiat non voleva l'Alfa Sud e una sera Romiti si recò Nusco per incontrare De Mita che lo convinse, o lo obbligò, a prendersi anche Pomigliano. Così la Fiat si prese tutto. E’ paradossale che oggi la fabbrica che esiste ancora è proprio quella che la Fiat in quel momento non voleva. In una situazione che rischiava di non avere futuro i lavoratori alla fine accettarono di buon grado l'arrivo della Fiat e credo che il progetto Alfa Lancia fosse importante e che aveva prospettive positive per cercare di aggredire fasce di mercato di alto livello. Era un progetto industriale sano, purtroppo non è andata così. Per i primi anni, tra l'85 e il ‘90, è andata bene. L'azienda ha avuto risultati positivi, ma poi è iniziata la crisi con la cassa integrazione e la Fiat ha cominciato a pensare di abbandonare lo stabilimento di Arese. In quegli anni in Fiat vinse l'idea della finanziarizzazione, mentre la parte industriale venne in parte abbandonata. Vinse Romiti su Ghidella.

Cambiò anche l'organizzazione del lavoro. La fonderia in Alfa non c'era più, la forgia non c'era più, si spostavano interi reparti. L'introduzione dell'informatica, dei computer stava modificando oltre che l'organizzazione del lavoro anche le figure operaie. L'inquadramento unico non reggeva più. Cambiavano anche i lavoratori, che ormai erano diventati piccoli borghesi. Si assisteva al grande spostamento dall'industria ai servizi, le fabbriche automobilistiche si concentravano e si riducevano di numero. Su tutto questo il sindacato era in gravissimo ritardo.
Non si costruivano più automobili per metterle nei silo, ma si producevano in base alla domanda.
È nato così il problema di costruire le Giulietta al sabato. Il sindacato aveva ancora una formidabile organizzazione in fabbrica, ma erano tutte persone cresciute in una realtà molto diversa, quella degli anni ’60, ‘70, invece il mondo della fabbriche, il lavoro stavano profondamente cambiando. Non avevamo la cultura, la formazione capace di capirequanto stava avvenendo, si viveva ancora con l'idea del conflitto, della contrapposizione continua, senza renderci conto che eravamo profondamente arretrati. Avevamo perso la capacità propositiva di cambiare le cose nelle fabbriche e, attraverso il cambiamento nelle fabbriche, cambiare la società.

Non ho mai avuto nessuna simpatia per il radicalismo. Non ho mai amato i gruppi extraparlamentari, anche perché i loro comportamenti erano ambigui. Sono stato tra quelli che hanno promosso i cortei interni, ma ad un certo punto ho smesso perché davanti e dietro si formavano gruppetti che sfuggivano al nostro controllo e combinavano guai di ogni genere, c'era addirittura qualcuno che faceva gesti osceni davanti alle impiegate, altri che buttavano per aria tutti i documenti che trovavano sulle scrivanie e cose di questo tipo. Col tempo la loro lotta, che pure era di minoranza, con numerosi gruppi divisi tra di loro, narcisisti, divenne sempre più aggressiva, intimidatoria, fino a diventare violenta, sino al paraterrorismo e al terrorismo vero e proprio. Io ho sempre cercato di parlare con queste persone, ma era difficile, perché non c'erano punti di contatto. Non ho mai subito minacce, molte volte li abbiamo condannati, ma non sapevamo bene come comportarci, come reagire. Faticavamo a capire la loro logica, come si muovevano, mentre tra di loro, anche se erano divisi, in qualche modo si intendevano e si organizzavano.

Il primo atto di violenza significativo avvenuto in Alfa è stato il rapimento del direttore di produzione, l’ingegnere Michele Minguzzi. A conclusione del rapimento, una sera lo hanno abbandonato in una discarica. Poi hanno aggredito il capo responsabile del montaggio motori, un reparto dove c'erano alcuni che noi tenevamo d'occhio. In questo caso sono convinto che a bastonarlo non siano stati terroristi, ma alcuni operai di quel reparto. Successivamente questi episodi si moltiplicarono e si diffusero, soprattutto ad Arese. Ormai il baricentro produttivo organizzativo, ma anche politico sindacale si era spostato lì e ad Arese, attraverso le liste di collocamento, in quegli anni entrarono numerose persone con il preciso intento di infiltrarsi tra gli operai e nell'organizzazione sindacale. Come hanno dimostrato le vicende successive, quando emersero le presenze di componenti di Prima linea e di altri gruppi terroristici. Alcuni di questi venivano da noi a chiedere di iscriversi alla Fim e per noi era difficile dirgli di no, però in qualche caso riuscimmo ad evitarlo.
Io e Gandini, un mio collega dell'Alfa Romeo, fummo invitati una volta ad un convegno a Mestre con delegati che arrivavano da grandi aziende di Genova, Torino, Venezia e altre città. In quell'occasione capii profondamente che cosa era il terrorismo, come si infiltrava nei luoghi di lavoro e che tecniche utilizzava per svolgere la propria azione.
Sul finire degli anni ‘70 ero andato in chiesa dove abito e fuori erano esposti dei giornali e delle riviste cattoliche, tra le quali anche un numero di Aggiornamenti Sociali che riportava un articolo sul terrorismo. L'ho preso e mi sono seduto in chiesa a leggerlo. Leggendo quel testo ho cominciato a capire il terrorismo dal punto di vista politico e culturale. La rivista faceva riferimento a numeri precedenti e mi sono fatto mandare tutti gli arretrati che avevano trattato la questione del terrorismo e della violenza. Questo a ulteriore conferma del fatto che noi avevamo una difficoltà di comprensione del fenomeno.
C'era anche una diffidenza reciproca, un sospetto tra le persone che influiva sulle nostre riflessioni. Ricordo un episodio durante lo svolgimento di un consiglio di fabbrica mentre era in corso il rapimento dell'ingegner Renzo Sandrucci. Mentre si discuteva venimmo informati che erano stati distribuiti dei volantini delle Brigate Rosse alle meccaniche e ce li portarono lì. Alla riunione erano presenti dirigenti sindacali provinciali, regionali e nazionali e anche alcuni giornalisti. In quell'occasione ero il presidente dell'assemblea e anche il relatore. Mi feci portare tutti i volantini che erano stati raccolti nei reparti e li timbrai con il timbro Flm. Dopo di che li distribuì ai giornalisti presenti e ne diedi uno per ogni organizzazione sindacale e ne mandai una copia anche alla direzione aziendale. Il giorno dopo il responsabile della Fim che aveva partecipato all'assemblea e a cui avevo consegnato copia del documento si è recato in tribunale. Al controllo di sicurezza gli venne trovato il documento delle Brigate Rosse che aveva ancora in borsa, venne immediatamente bloccato e trasferito in via Moscova alla caserma dei carabinieri. Subito si sono mobilitati Sandro Antoniazzi e Lorenzo Cantù che si sono recati in caserma, ma non c'è stato niente da fare. Lo hanno rilasciato alla sera e mi ha telefonato dicendomi: “Guarda che verrai chiamato perché ho spiegato che quel volantino me l'avevi dato tu”. Mi disse anche che erano arrivati da Torino due giovanotti, collaboratori del generale dalla Chiesa, che sapevano tutto di lui. Dopo avergli parlato sono usciti dall'ufficio e dopo un po' sono rientrati, gli hanno stretto la mano e l'hanno mandata a casa. Una decina di giorni dopo ho ricevo l'invito dal magistrato Pomarici a recarmi a Palazzo di giustizia. Arrivato da lui, mi ha letto il verbale della dichiarazione che aveva fatto il sindacalista della Fim, mi ha chiesto se era vero e io ho confermato. Al che mi ha fatto firmare la mia deposizione, mi ha stretto la mano e me ne sono andato.

Ho lavorato al Portello fino al 1985, fino a quando è arrivata la Fiat. Sono rimasto lì fino all'ultimo perché ero responsabile del magazzino attrezzature delle meccaniche di gruppi e motori, l'ultimo mese praticamente da solo. Prima di andarmene ho passato in rassegna tutte le attrezzature che c'erano nel magazzino, selezionando ciò che andava inviato ad Arese e i materiali ormai obsoletti da buttare. In quel frangente, inoltre, decisero di costruire la spaider a Pomigliano e quindi dovetti mandare in Campania le attrezzature necessarie. Sono stato l'ultimo a lasciare le meccaniche.
Da Arese sono uscito nel 1998, poi ho fatto 13 mesi di mobilità di accompagnamento alla pensione e sono andato in pensione l'1 dicembre 1999.