Sono nato a
Biringhello di Rho il 3 aprile 1947. Mia madre e mio padre erano contadini,
abitavamo in cascina, una famiglia come molte altre che in quegli anni sono
passate dall'agricoltura all'industria. Gli ultimi anni di attività mio padre li
ha trascorsi in fonderia all'Alfa Romeo al Portello ed è morto di silicosi nel ’52.
Io avevo poco più di quattro anni, probabilmente si è ammalato a causa delle
terre che si usavano in fonderia. Mia madre, rimasta sola, è andata a lavorare
come operaia alla Citterio, il salumificio di Rho.
Quando è morto
mio padre, mia madre ha fatto rientrare mia sorella di 14 anni che era in
collegio e l'ha mandata a lavorare. Avevo anche un fratello, che è più vecchio
di me di due anni, che non avevo mai conosciuto perché era sempre ammalato e
l'ho incontrato la prima volta su un pullman che ci portava in colonia al mare
a Cesenatico. Ho frequentato la prima elementare a Biringhello, poi, insieme a
mio fratello, che per la sua malattia aveva perso due anni, con l'intervento
dell’Enaoli siamo stati affidati alla Sacra famiglia di Cesano Boscone, che ci
ha mandati a scuola in collegio in Liguria, ad Andora, dove abbiamo frequentato
la seconda e la terza elementare. La quarta e la quinta, invece, l'abbiamo fatta a Coquio Trevisago, sul lago
di Varese. Infine, sempre con la Sacra famiglia, ho frequentato le tre classi
di avviamento industriale a Cesano Boscone a Milano.
Sono rientrato
in famiglia a 14 anni. Nel cortile della cascina dove abbiamo abitato fino al
1961, viveva anche il figlio del nostro padrone di casa, che era un capo alla
carrozzeria dell'Alfa Romeo e ha suggerito a mia mamma di iscrivermi alla
scuola aziendale dell'Alfa. L'Alfa aveva un buon nome, era un posto di lavoro
sicuro e chi entrava nella scuola si assicurava un futuro. Per essere ammessi
occorreva superare degli esami. La prima mattina mi sono presentato all'ottava
portineria per affrontare l'esame di italiano. Ho fatto anche quelli di
matematica e di meccanica, poi sono stato sottoposto ad un esame psico attitudinale.
Li ho passati e ho iniziato a frequentare la scuola. Inizialmente tutti i
ragazzi del mio corso stavano insieme, poi invece siamo stati separati. Fin dal
primo anno si faceva mezza giornata in officina e mezza in aula. Ogni mese
ricevevamo una pagella con una valutazione dei risultati raggiunti e se c'erano
dei problemi venivano convocati i genitori.
Per andare
all'Alfa prendevo il tranvai che arrivava più o meno all’altezza della Rai e
che ad un certo punto è stato soppresso. Partiva da Gallarate e passava lungo
il Sempione fino a Musocco, dove si cambiava con un altro mezzo che arrivava da
una direzione diversa. Io impiegavo circa 40 minuti. A cuola stavamo otto ore,
all'ingresso timbravamo il cartellino, a mezzogiorno pranzavamo alla mensa
aziendale e timbravamo ancora alla ripresa pomeridiana e all'uscita serale.
Eravamo assicurati all’Inail contro gli infortuni, ma non venivano versati i
contributi previdenziali all'Inps. Eravamo pagati: il primo anno 35 lire all'ora,
il secondo anno 50 e il terzo 75. Ogni fine mese prendevamo la busta paga e
alla fine dei tre anni ho ricevuto anche una sorta di Tfr. Il primo anno non mi
sono impegnato molto, ma poi il mio interesse è cresciuto e il terzo anno sono
uscito di slancio. Non tutti frequentavano i tre anni, c'era chi ne faceva solo
due. Il secondo anno imparavamo a lavorare sulle macchine utensili: tornio,
frese, rettifiche, mentre il primo anno era solo aggiustaggio e tracciatura. Il
secondo anno in aula come materie avevamo macchine, meccanica, tecnologia e
matematica. Il terzo anno tutti i giorni facevamo mezza giornata al tecnigrafo
ad imparare il disegno. Avevamo come insegnante anche un sacerdote, don
Annibale Orsenigo, che noi chiamavamo Dao o anche pallino, perché era piccolo e
portava i capelli alla Einstein. Era un prete di frontiera, che insegnava in
numerose scuole professionali di Milano e che ci formava attraverso
l'insegnamento di cultura generale che era un mix di letteratura, musica, arte,
etica. L’obiettivo della scuola, infatti, era quello di preparare non solo dei
bravi tecnici, ma dei quadri aziendali per i quali si riteneva necessaria una
preparazione generale più ampia. Solo che questo sacerdote ci ha introdotti
anche alla dottrina sociale della Chiesa e ai temi della giustizia sociale e ci
ha fatto scoprire il sindacato. Da lui ho iniziato a sentire parlare di
Maritain, di Mounier, di Peguy. Ho seguito don Annibale fino alla sua morte. Quel
sacerdote, nel 1970, a Roma, ha celebrato il mio matrimonio con Lena.
Mi trovavo bene
alla scuola dell’Alfa, mi sentivo come a casa nostra, andavamo a mangiare in
mensa con gli operai, vedevamo uscire le nuove vetture come la Giulia. Ci
sentivamo grandi. La gestione della mensa era esterna. Ricordo che una volta
c’erano stati dei problemi con un pasto e per riparare all'errore commesso diedero
gratuitamente a tutti un bicchiere di vino. Il vino allora si pagava, era
servito in mastelli di legno con una donna che riempiva i bicchieri con un
mestolo dando dell'ubriacone a tutti gli uomini che arrivavano da lei. Di solito
gli allievi non lo bevevano, ma quella volta il vino toccava anche a noi.
Alcuni operai ci hanno intimato di andare a prenderlo, così noi ci siamo messi
in coda e abbiamo preso il nostro bicchiere di vino che poi hanno bevuto i più
anziani.
Eravamo ragazzi,
ma tre anni sono lunghi ed eravamo perfettamente integrati. Quando passavamo
dall'officina molti ci chiamavano, scambiavano qualche parola con noi, potevamo
essere loro figli.
La scuola
aziendale era collocata nella zona nord del Portello ed era l'unica costruzione
in muratura. Alla fine dei tre anni io e i miei compagni di corso siamo stati
tutti assunti, anche quelli che non avevano avuto grandi risultati scolastici.
Io sono entrato all'Alfa Romeo il 12 ottobre 1964, circa tre mesi dopo la
conclusione del corso a fine giugno. Sono stato occupato all'ausiliaria, che
era uno dei tre settori professionali in cui era organizzata la fabbrica - gli
altri erano manutenzione ed esperienze - come operaio di terzo livello
polivalente, tornitore su una linea che di tornitori ne aveva 70.
La nostra idea,
quella di molti dei ragazzi che frequentavano la scuola dell'Alfa, era di
proseguire gli studi alla sera per diventare periti. A me purtroppo è capitato
di dover fare subito i turni, così mi sono messo d'accordo con un mio collega
per favorirlo: io facevo sempre il secondo turno mentre lui faceva sempre il
primo e poteva studiare. A causa di una ragazza di cui si era innamorato, però,
non ha quasi mai frequentato la scuola e così a fine anno è stato bocciato. A
quel punto abbiamo deciso di cambiare, io sono passato al primo turno e lui al
secondo, e così ho potuto cominciare a frequentare l'istituto tecnico serale.
Sei anni alla Pastor Angelicus di Quarto Oggiaro, dove mi sono diplomato.
In questo
periodo ho continuato a frequentare Don Orsenigo dalle suore del Buon Pastore,
in via San vittore 35, dove lui faceva il cappellano e dove aveva fondato un
gruppo con lavoratori dell'Alfa, della Fiat con anche le ragazze. Era uno dei
pochi gruppi misti che il cardinale Montini aveva autorizzato. Lì ho conosciuto
mia moglie, che lavorava anche lei all’Alfa Romeo. In quel gruppo ci si
preparava ad entrare nel mondo del lavoro, abbiamo studiato il marxismo, il
socialismo, la dottrina sociale della Chiesa.
Nel ’67, ‘68 ho
fatto il servizio militare, il car a Potenza e poi 12 mesi a Legnago del
Friuli. Nell'agosto del 1968 ho ripreso il lavoro come tornitore di terzo
livello e a frequentare la scuola serale. Poco dopo il mio rientro in fabbrica,
avevo 21 anni, sono stato eletto nella commissione interna, l'ultima
commissione votata prima della nascita dei consigli di fabbrica. Il mio
reparto, l'ausiliaria, era un’area molto sindacalizzata, sulla mia linea
c'erano due rappresentanti di commissione interna Fiom, uno comunista e l’atro socialista,
che non andavano d'accordo tra di loro. Nel reparto è nata una vertenza
sull'inquadramento dei lavoratori che erano stati declassati, io mi sono
inserito e ho cominciato ad assumere un ruolo sindacale, dando voce alla loro
protesta. Gli operai mi seguivano, mentre i due della commissione interna
avevano un atteggiamento più moderato e non gradivano il mio comportamento. Ero
iscritto al sindacato, alla Cisl, fin dai primi giorni di assunzione all'Alfa, ma
lì la maggioranza era Fiom ed io ero molto giovane, eppure sono riuscito a
trascinare tutti gli operai nella vertenza, che poi ha aperto la strada alle
altre vertenze tra le aree degli operai professionalizzati. La vicenda è stata
chiusa positivamente il 13 dicembre del 1968 e io sono stato eletto in commissione
interna e subito sono diventato distaccato per conto della Fim.
Il distaccato di
linea aveva un ufficio dove stava con gli altri commissari e aveva come compito
principale quello di vigilare sull'applicazione del contratto.. Appena comparso
il mio nome tra i candidati alle elezioni per la commissione interna la
direzione mi ha trasferito d'autorità dall'ausiliaria alla manutenzione, ma lì
sono rimasto 15 giorni perché poi essendo stato eletto sono stato staccato
dalla produzione.
In una prima
fase convissero commissione interna e consiglio di fabbrica. In occasione del
primo rinnovo del consiglio di fabbrica nel 1971, siccome non ero sul mio posto
di lavoro, sono stato cooptato nel consiglio e la commissione ha cessato di
esistere. Formalmente la commissione interna avrebbe potuto esistere ancora a
lungo, solo molto più avanti negli anni, infatti, le organizzazioni sindacali e
la Fiat hanno fatto l'accordo per cancellarla.
Tutte le lunghe
vicende dell'Alfa Romeo dal punto di vista sindacale sono state gestite
unitariamente. Quando sono entrato in commissione interna l'idea dell'unità era
diffusa tra la gente, però era faticosa. Molte volte le nuove forme di lotta
che abbiamo introdotto, come ad esempio gli scioperi a scacchiera, facevano
fatica ad essere comprese tra i leader più anziani. Nonostante questo, però,
tra noi si sviluppavano anche rapporti di amicizia, io ad esempio ho avuto
sempre un ottimo rapporto con Domenico Grossi, l’anziano commissario stalinista
che lavorava sulla mia linea. Da lui ho imparato a conoscere il contratto e a
contrattare.
I distaccati in
quel tempo avevano in dotazione una pesante giubba nera fornita dall'azienda.
La giubba andava benissimo quando passavamo nei tunnel sotterranei per andare
da nord a sud dello stabilimento e sembrava di essere nella galleria del vento.
Nel 1969, quando
ancora non era in vigore lo statuto dei lavoratori e i dirigenti sindacali
esterni non potevano entrare in fabbrica per tenere le assemblee, noi abbiamo
organizzato l'ingresso di Trentin, allora giovane dirigente della Fiom. Un
gruppo abbastanza numeroso di delegati e di commissari, in gran parte della Fiom,
e alcuni giovani si sono dati appuntamento sul cancello numero cinque. Trentin
ha iniziato a parlare con me mentre i guardiani curavano soprattutto i vecchi
delegati noti per essere comunisti. A quel punto Trentin mi ha preso
sottobraccio e siamo entrati senza problemi. Se ne sono accorti troppo tardi,
quando ormai il leader sindacale era dentro la fabbrica e cominciava a
stringere le mani agli operai presenti. Due giorni dopo il capo dei guardiani, un
ex carabiniere, un galantuomo, ci ha convocati e, rivoltosi a me, mi ha detto:
“O lei è un furbastro oppure deve avere qualche santo in paradiso perché noi
non ci siamo accorti quando è entrato”. Quella con Trentin fu una grande assemblea,
lui in piedi sulla scala che saliva verso la mensa, con migliaia di operai ad
ascoltarlo. L'idea dell'unità era molto forte, si voleva l'unità sindacale,
l'unità tra operai e impiegati. Rapidamente conquistammo il diritto al distacco
anche per gli impiegati e così da tre i distaccati passarono a sei.
A Milano nel
1970, ’71 abbiamo eletto circa 200 delegati in rappresentanza di oltre 12mila
lavoratori. Ho continuato a fare il distaccato fino al 1973, nel frattempo nel
1972 mi ero diplomato. Ero molto impegnato come distaccato, studiavo e facevo attività
sindacale. Le trattative si facevano all'Intersind, spesso di sera. È stato un
periodo in cui l'impegno era totalizzante e quasi per me non c'era altro, quasi
non vedevo più mia moglie. Quando sono rientrato nel reparto volevo lasciare
l'azienda.
Sono sempre
rimasto operaio di terzo livello e quando ho ripreso il mio lavoro ho mantenuto
questo livello. Preso il diploma, il presidente Luraghi, come era tradizione in
Alfa Romeo, mi ha mandato una cartolina autografata con un premio di 100mila
lire.
Il 17 febbraio
del 1972, in una giornata in cui nevicava, si è chiusa la vertenza per la
revisione dell’inquadramento. Per arrivare a questo nei mesi precedenti in quasi
tutti i reparti si erano succedute vertenze sul tema dell'inquadramento degli
operai.
In quel periodo
si era creato un nuovo gruppo omogeneo per gli impiegati e tecnici della
manutenzione. Si fecero le elezioni e sono stato rieletto delegato e da quel momento
lo sono sempre stato in rappresentanza degli impiegati, anche se non lo ero.
Naturalmente ero conosciuto, perché quando c'erano le assemblee prendevo la
parola, ero il numero uno della Fim, andavo a fare le assemblee alle verniciature,
in manutenzione, alle meccaniche, ero giovane, magro e probabilmente anche
bravo.
A metà degli
anni 70 avevamo iscritto al sindacato l'80% degli operai e il 36% degli
impiegati.
Sono arrivato ad
Arese a fine 1985 ed ho avuto il passaggio come impiegato di sesta categoria
solo 10 anni dopo e con grande fatica perché la Fiat non concedeva aumenti e
passaggi a coloro che erano impegnati nel sindacato. La sesta categoria, con
113mila lire di aumento, mi è stata data grazie all'intervento di un ingegnere
che mi conosceva e che ha sostenuto il mio passaggio di livello dopo che più
volte era stato rifiutato.
Ho fatto
tantissime attività sindacale anche da impiegato sia in azienda che in ambito
provinciale, che a Roma. Facevo parte del coordinamento nazionale auto
dell'Alfa Romeo. Poi ho fatto parte del coordinamento nazionale auto Fiat, che
era molto più esclusivo. Ho sempre avuto l'impressione che noi si discutesse
poco e di qualcosa su cui si erano già messi d'accordo prima. Ho fatto parte
anche del direttivo provinciale della Fim, dove sono sempre intervenuto, così
come intervenivo sempre ad ogni riunione del consiglio di fabbrica dell'Alfa.
Qualche amico mi prende in giro dicendo che io non ho mai lavorato, in effetti
è vero che sono sempre stato impegnatissimo per le attività sindacali, ma mia
moglie usa dire che se mi avessero pagato le ore straordinarie saremmo
diventati ricchi perché il tempo dedicato a quelle attività era enorme.
L'Alfa Romeo
aveva impianti al Portello, ad Arese, a Pomigliano dove costruivano i furgoni e
i motori a stella per gli aereoplani, poi è nata l'Alfa Sud. L'Alfa era anche
le filiali di Milano, Padova, Bari, Montesilvano, era anche la Spica di Livorno,
che produceva componenti per automobili, in particolare le candele. Una
vertenza siamo andati a farla anche lì.
L’Alfa Romeo ha
iniziato ad avere difficoltà nel 1973, con bilanci in rosso, in occasione della
prima crisi petrolifera. Dal punto di vista sindacale è stata una vertenza
continua, la “mitica Alfa” si diceva, “la fabbrica rossa”, la “fabbrica è
nostra”: questi gli slogan che hanno caratterizzato a lungo le vertenze in
azienda in quegli anni. Giorgio Bocca in un articolo scritto per Repubblica
disse che l'Alfa Romeo ero un'azienda ingovernabile.
Col passare
degli anni i più anziani tra i lavoratori si andavano convincendo che così non
si poteva andare avanti. Dal 1980 in poi questa è diventata una convinzione
diffusa. Massacesi e Medusa hanno cercato di rimettere in piedi l'azienda, era
l'ultimo tentativo, ma non ci sono riusciti. A quel punto erano tutti convinti
che doveva prenderci qualcuno.
Divenne quindi
naturale cercare un acquirente, si scatenò una battaglia nazionalistica, la
stessa Fiat non voleva l'Alfa Sud e una sera Romiti si recò Nusco per
incontrare De Mita che lo convinse, o lo obbligò, a prendersi anche Pomigliano.
Così la Fiat si prese tutto. E’ paradossale che oggi la fabbrica che esiste
ancora è proprio quella che la Fiat in quel momento non voleva. In una
situazione che rischiava di non avere futuro i lavoratori alla fine accettarono
di buon grado l'arrivo della Fiat e credo che il progetto Alfa Lancia fosse
importante e che aveva prospettive positive per cercare di aggredire fasce di
mercato di alto livello. Era un progetto industriale sano, purtroppo non è
andata così. Per i primi anni, tra l'85 e il ‘90, è andata bene. L'azienda ha
avuto risultati positivi, ma poi è iniziata la crisi con la cassa integrazione
e la Fiat ha cominciato a pensare di abbandonare lo stabilimento di Arese. In
quegli anni in Fiat vinse l'idea della finanziarizzazione, mentre la parte
industriale venne in parte abbandonata. Vinse Romiti su Ghidella.
Cambiò anche
l'organizzazione del lavoro. La fonderia in Alfa non c'era più, la forgia non
c'era più, si spostavano interi reparti. L'introduzione dell'informatica, dei
computer stava modificando oltre che l'organizzazione del lavoro anche le
figure operaie. L'inquadramento unico non reggeva più. Cambiavano anche i
lavoratori, che ormai erano diventati piccoli borghesi. Si assisteva al grande
spostamento dall'industria ai servizi, le fabbriche automobilistiche si
concentravano e si riducevano di numero. Su tutto questo il sindacato era in
gravissimo ritardo.
Non si
costruivano più automobili per metterle nei silo, ma si producevano in base
alla domanda.
È nato così il
problema di costruire le Giulietta al sabato. Il sindacato aveva ancora una
formidabile organizzazione in fabbrica, ma erano tutte persone cresciute in una
realtà molto diversa, quella degli anni ’60, ‘70, invece il mondo della
fabbriche, il lavoro stavano profondamente cambiando. Non avevamo la cultura, la
formazione capace di capirequanto stava avvenendo, si viveva ancora con l'idea
del conflitto, della contrapposizione continua, senza renderci conto che eravamo
profondamente arretrati. Avevamo perso la capacità propositiva di cambiare le
cose nelle fabbriche e, attraverso il cambiamento nelle fabbriche, cambiare la
società.
Non ho mai avuto
nessuna simpatia per il radicalismo. Non ho mai amato i gruppi extraparlamentari,
anche perché i loro comportamenti erano ambigui. Sono stato tra quelli che
hanno promosso i cortei interni, ma ad un certo punto ho smesso perché davanti
e dietro si formavano gruppetti che sfuggivano al nostro controllo e
combinavano guai di ogni genere, c'era addirittura qualcuno che faceva gesti
osceni davanti alle impiegate, altri che buttavano per aria tutti i documenti
che trovavano sulle scrivanie e cose di questo tipo. Col tempo la loro lotta,
che pure era di minoranza, con numerosi gruppi divisi tra di loro, narcisisti,
divenne sempre più aggressiva, intimidatoria, fino a diventare violenta, sino
al paraterrorismo e al terrorismo vero e proprio. Io ho sempre cercato di
parlare con queste persone, ma era difficile, perché non c'erano punti di
contatto. Non ho mai subito minacce, molte volte li abbiamo condannati, ma non
sapevamo bene come comportarci, come reagire. Faticavamo a capire la loro
logica, come si muovevano, mentre tra di loro, anche se erano divisi, in
qualche modo si intendevano e si organizzavano.
Il primo atto di
violenza significativo avvenuto in Alfa è stato il rapimento del direttore di
produzione, l’ingegnere Michele Minguzzi. A conclusione del rapimento, una sera
lo hanno abbandonato in una discarica. Poi hanno aggredito il capo responsabile
del montaggio motori, un reparto dove c'erano alcuni che noi tenevamo d'occhio.
In questo caso sono convinto che a bastonarlo non siano stati terroristi, ma
alcuni operai di quel reparto. Successivamente questi episodi si moltiplicarono
e si diffusero, soprattutto ad Arese. Ormai il baricentro produttivo
organizzativo, ma anche politico sindacale si era spostato lì e ad Arese, attraverso
le liste di collocamento, in quegli anni entrarono numerose persone con il
preciso intento di infiltrarsi tra gli operai e nell'organizzazione sindacale. Come
hanno dimostrato le vicende successive, quando emersero le presenze di
componenti di Prima linea e di altri gruppi terroristici. Alcuni di questi
venivano da noi a chiedere di iscriversi alla Fim e per noi era difficile dirgli
di no, però in qualche caso riuscimmo ad evitarlo.
Io e Gandini, un
mio collega dell'Alfa Romeo, fummo invitati una volta ad un convegno a Mestre
con delegati che arrivavano da grandi aziende di Genova, Torino, Venezia e
altre città. In quell'occasione capii profondamente che cosa era il terrorismo,
come si infiltrava nei luoghi di lavoro e che tecniche utilizzava per svolgere
la propria azione.
Sul finire degli
anni ‘70 ero andato in chiesa dove abito e fuori erano esposti dei giornali e delle
riviste cattoliche, tra le quali anche un numero di Aggiornamenti Sociali che
riportava un articolo sul terrorismo. L'ho preso e mi sono seduto in chiesa a
leggerlo. Leggendo quel testo ho cominciato a capire il terrorismo dal punto di
vista politico e culturale. La rivista faceva riferimento a numeri precedenti e
mi sono fatto mandare tutti gli arretrati che avevano trattato la questione del
terrorismo e della violenza. Questo a ulteriore conferma del fatto che noi
avevamo una difficoltà di comprensione del fenomeno.
C'era anche una
diffidenza reciproca, un sospetto tra le persone che influiva sulle nostre
riflessioni. Ricordo un episodio durante lo svolgimento di un consiglio di
fabbrica mentre era in corso il rapimento dell'ingegner Renzo Sandrucci. Mentre
si discuteva venimmo informati che erano stati distribuiti dei volantini delle
Brigate Rosse alle meccaniche e ce li portarono lì. Alla riunione erano presenti
dirigenti sindacali provinciali, regionali e nazionali e anche alcuni giornalisti.
In quell'occasione ero il presidente dell'assemblea e anche il relatore. Mi
feci portare tutti i volantini che erano stati raccolti nei reparti e li timbrai
con il timbro Flm. Dopo di che li distribuì ai giornalisti presenti e ne diedi
uno per ogni organizzazione sindacale e ne mandai una copia anche alla
direzione aziendale. Il giorno dopo il responsabile della Fim che aveva
partecipato all'assemblea e a cui avevo consegnato copia del documento si è recato
in tribunale. Al controllo di sicurezza gli venne trovato il documento delle
Brigate Rosse che aveva ancora in borsa, venne immediatamente bloccato e
trasferito in via Moscova alla caserma dei carabinieri. Subito si sono
mobilitati Sandro Antoniazzi e Lorenzo Cantù che si sono recati in caserma, ma
non c'è stato niente da fare. Lo hanno rilasciato alla sera e mi ha telefonato
dicendomi: “Guarda che verrai chiamato perché ho spiegato che quel volantino me
l'avevi dato tu”. Mi disse anche che erano arrivati da Torino due giovanotti, collaboratori
del generale dalla Chiesa, che sapevano tutto di lui. Dopo avergli parlato sono
usciti dall'ufficio e dopo un po' sono rientrati, gli hanno stretto la mano e
l'hanno mandata a casa. Una decina di giorni dopo ho ricevo l'invito dal
magistrato Pomarici a recarmi a Palazzo di giustizia. Arrivato da lui, mi ha
letto il verbale della dichiarazione che aveva fatto il sindacalista della Fim,
mi ha chiesto se era vero e io ho confermato. Al che mi ha fatto firmare la mia
deposizione, mi ha stretto la mano e me ne sono andato.
Ho lavorato al
Portello fino al 1985, fino a quando è arrivata la Fiat. Sono rimasto lì fino
all'ultimo perché ero responsabile del magazzino attrezzature delle meccaniche
di gruppi e motori, l'ultimo mese praticamente da solo. Prima di andarmene ho
passato in rassegna tutte le attrezzature che c'erano nel magazzino,
selezionando ciò che andava inviato ad Arese e i materiali ormai obsoletti da
buttare. In quel frangente, inoltre, decisero di costruire la spaider a
Pomigliano e quindi dovetti mandare in Campania le attrezzature necessarie.
Sono stato l'ultimo a lasciare le meccaniche.
Da Arese sono
uscito nel 1998, poi ho fatto 13 mesi di mobilità di accompagnamento alla
pensione e sono andato in pensione l'1 dicembre 1999.