Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “L’idea del dialogo. Cultura del lavoro, contrattazione, relazioni industriali nella chimica italiana”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2017
La
mia prima esperienza di lavoro l'ho fatta alla Dm, un'azienda metalmeccanica di
Lugo, come tornitore. Sono rimasto lì per un paio d'anni fino al 1970 poi sono
andato all'Anic, al Petrolchimico, sempre come tornitore in officina, alla
manutenzione. Nel 1980 mi sono presentato alle elezioni per la Cisl e sono
stato eletto delegato di reparto continuando a lavorare fino a quando nel 1989
ho avuto il distacco, ma rimanendo in azienda, in un ufficio riservato ai tre
rappresentanti di Cgil Cisl Uil. Nel 1990 ho fatto il corso lungo a Firenze. A
un certo punto Arnaldo Martelli, che era il leader della Cisl in azienda, è
andato in pensione e io nel 1994 sono stato eletto segretario generale
provinciale della Flerica di Ravenna, fino a quando nel 2000 sono andato in
pensione sfruttando la legge sull'amianto.
Organizzazione del lavoro
Venivo
da un'azienda privata e quando sono entrato all'Anic ho trovato un
miglioramento, l'ambiente era più controllato, sulle attività di lavoro non
c'era una forte pressione. Il Petrolchimico era diviso in tre sezioni:
agricoltura, chimica e plastiche. C'era anche un laboratorio di ricerca che,
quando dovevano modificare una linea di prodotto, realizzava degli impiantini
pilota.
In
manutenzione avevamo una tuta blu mentre in laboratorio indossavano la tuta
bianca. In quel momento nell'impianto lavoravano circa tremila persone. Si
produceva il Pvc e, conoscendo la pericolosità del cloruro di vinile (Cvm),
c'era un controllo abbastanza stretto. La consapevolezza era arrivata da poco,
perché in precedenza non se ne conoscevano i rischi e i lavoratori lo
utilizzavano addirittura per refrigerare il cibo. Quando sono entrato io si
iniziava a parlare dei rischi perché erano emersi i problemi di salute di
qualcuno che si facevano risalire al Cvm e si è cominciato a intervenire sugli
impianti. Nell'area dell'agricoltura c'era il problema dei fumi e dei vapori,
però le malattie professionali sono state riconosciute solo a partire dagli
anni Novanta. Per quanto riguarda i macchinari c'erano controlli abbastanza assidui,
anche se ogni tanto qualcuno “saltava” causando incidenti gravi. Un altro
problema erano i nastri trasportatori, perché a volte qualche lavoratore veniva
preso dagli ingranaggi. Ogni volta che si presentava un problema si cercava di
intervenire per evitare che si ripetesse. Però incidenti gravi non ci sono mai
stati.
In
produzione si lavorava a ciclo continuo e una parte della manutenzione seguiva
gli impianti, mentre il resto della manutenzione, oltre agli impiegati, era
giornaliero.
Quando
ho lasciato, l'azienda era diventata Enichem, ma col passaggio da Anic a
Enichem non è cambiato praticamente nulla.
Sindacato
Mi
sono iscritto alla Cisl nell'azienda metalmeccanica dove ho iniziato a lavorare
e appena entrato al Petrolchimico sono stato avvicinato dai delegati per
chiedermi di tesserarmi. Ho aderito alla Cisl perché la mia formazione era
quella. Le proposte della Cgil erano lontane dal mio modo di pensare, la Uil
non la conoscevo. Il consiglio di fabbrica era composto da una quarantina di
delegati e l'esecutivo da quindici. Prima di procedere all'elezione dei
delegati chi voleva candidarsi veniva in assemblea e si presentava dicendo chi
era e che cosa aveva intenzione di fare. Avevamo la fortuna di avere la
maggioranza assoluta in azienda, sia nel consiglio di fabbrica che in
esecutivo, ed eravamo noi che conducevamo le trattative. Abbiamo sempre goduto
di autonomia rispetto alla segreteria nazionale.
I
lavoratori partecipavano molto alle iniziative sindacali, aderendo agli
scioperi quando era necessario e intervenendo alle assemblee che facevamo in
mensa, sia per le questioni aziendali che per quelle generali. Come mezzo di
informazione usavamo solamente i volantini che distribuivamo in portineria.
Come sindacato avevamo molta libertà di movimento all'interno dell'azienda,
potevamo andare nei reparti, parlare con la gente, sentire i loro problemi.
In
azienda non c'erano altre presenze e in consiglio di fabbrica avevamo fatto la
scelta di non dare spazio a formazioni politiche.
Relazioni industriali
Abbiamo
avuto una situazione favorevole, buoni rapporti con la direzione e relazioni
sindacali costruttive. Normalmente si discuteva di organizzazione del lavoro
all'interno dei reparti e si cercavano di mediare le diverse esigenze. Non era
mai una imposizione, perché in una trattativa con delle posizioni rigide non si
va da nessuna parte e quindi si cercava di gestire le necessità dei lavoratori
in funzione di quelle dell'azienda. Nella direzione abbiamo sempre trovato
ascolto, anche se la dirigenza locale doveva sempre aspettare l'ok dalla sede
centrale di Milano prima di darci le risposte, però siamo sempre riusciti a
fare delle mediazioni positive.
Sia
in termini di relazioni che di contrattazione abbiamo sempre avuto
disponibilità da parte dell'azienda a confrontarsi con le nostre proposte.
Riuscivamo a gestire le cose abbastanza bene. Costruivamo delle piattaforme
sulla base delle richieste dei lavoratori che venivano discusse nell'assemblea,
elaborate nel consiglio di fabbrica e nell'esecutivo e poi presentate dai tre
segretari che gestivano la trattativa e non c'era mai bisogno di arrivare allo
sciopero. Gli scioperi normalmente si facevano per esigenze di carattere
nazionale, mentre per le questioni aziendali difficilmente si doveva farvi
ricorso. Abbiamo sempre cercato di gestire le situazioni senza arrivare a un
conflitto frontale. Nelle assemblee non abbiamo mai avuto contrapposizioni
perché spiegavamo le ragioni delle nostre scelte. Siccome la Cisl aveva la
maggioranza, si cercava di gestire i problemi in funzione di un minimo di
risultato, perché alla fine era quello che contava. Non si vince con un “sì” o
un “no”, si vince se si ottiene un risultato e a Ravenna la condizione era
quella ed era anche l’impostazione dell'azienda.
Il
“no” non serve a nessuno. Dire no significava fermare l'impianto e fermare
l'impianto voleva dire perdere in produttività e perdere in busta paga e allora
si cercava di spiegare ai lavoratori che era meglio “un uno” piuttosto che “uno
zero”. Era inutile fare la voce grossa e poi portare a casa niente. Alla
direzione dello stabilimento e poi a quella di Milano noi cercavamo di far
capire che era importante avere risposte perché altrimenti si rischiava di dare
ragione a qualche esagitato che proponeva in continuazione lo sciopero
generale. E qualche segnale ci veniva dato, per poter gestire in modo più
sereno l'impatto con la gente e capire fin dove potevamo spingerci nella
trattativa.
Nell'ultimo
periodo in cui sono rimasto in azienda cominciavano ad arrivare dirigenti da
fuori che non erano espressione della cultura che caratterizzava il nostro
impianto e il rapporto diventava più difficile.
Contrattazione
Ho
sempre avuto l'impressione, negli incontri sindacali con gli altri
petrolchimici padani, che la nostra realtà fosse migliore e loro avessero più
problemi rispetto a noi.
Sui
temi della salute e della sicurezza abbiamo costruito delle piattaforme
sindacali aziendali. Tutti gli anni l'azienda faceva dei controlli sanitari ai
lavoratori e a quelli che erano in situazioni a maggior rischio venivano fatte
delle analisi specifiche in più. Queste erano il risultato delle nostre
richieste, però l'azienda le ha accolte e attuate. Era un confronto continuo
perché ogni tanto si scopriva qualcosa che non andava e allora si discuteva con
la direzione come intervenire a risolvere il problema.
La
questione degli orari non è mai stata un problema significativo per noi, ci fu
la richiesta di alcuni part-time per le donne ma erano cose minime.
Avevamo
un premio di produzione con riferimento alla produttività e con delle
indicazioni di carattere generale che riguardavano tutte le aziende del gruppo,
ma eravamo agli inizi di questa modalità, i parametri erano le quantità e la
qualità, ma il premio era poca cosa. L'assenteismo era basso e non incideva sui
risultati.
Quando
si è trattato di applicare il nuovo inquadramento sono sorte alcune difficoltà
perché cambiava completamente la valutazione del singolo in funzione dei
parametri che dovevano essere utilizzati sulla base dell'attività di ognuno. La
valutazione veniva fatta dal capo officina o dal capo impianto e lì ci furono
un po' di problemi perché l'azienda tendeva sempre a partire dal basso, però
c’era la possibilità di rivalutare periodicamente le condizioni di lavoro e la
professionalità delle persone e ogni tanto c'era il passaggio di qualcuno. Noi
cercavamo di giocare il nostro ruolo intervenendo nella discussione sulla
professionalità e la capacità dei lavoratori e ci muovevamo in base alle
sollecitazione delle persone.
Nel
periodo in cui sono rimasto in azienda non ci sono stati problemi di
ristrutturazioni o questioni che riguardavano l'occupazione, che è rimasta
stabile. Sull'organizzazione del lavoro si è discusso in particolare sulle
questioni che riguardavano la gomma, perché si cercava di migliorare la qualità
del prodotto in funzione delle esigenze di mercato. Per questo sono stati fatti
degli investimenti con delle migliorie sugli impianti, ma erano decisioni che
venivano prese a livello nazionale.
Welfare aziendale
In
azienda avevamo il Fida, che sosteneva con contributi economici i lavoratori
che avevano condizioni di particolare difficoltà, era un'iniziativa di tutto il
gruppo e c'era un ufficio a Milano che seguiva questa attività con una
interfaccia in stabilimento a Ravenna. Noi come sindacato segnalavamo i casi
particolari.
In
azienda c'era un cral e nel consiglio di fabbrica c'era un delegato con
l'incarico di seguirne l'attività.