Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Impegno e passione. Gli anni caldi della Cisl in Lombardia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016
Sono nato a Verolanuova, nella bassa bresciana,
il 18 ottobre 1943. Ho fatto le medie, poi ho studiato tre anni alla sera,
perito industriale, e ho smesso. Ho cominciato a lavorare a 14 anni, in una
fonderia. Facevo il manovale, poi altre mansioni un po' meno pesanti. Poi sono
andato in un'azienda di costruzioni meccaniche, stampa offset, la Omcsa di
Novate Milanese, 500 dipendenti. Inizialmente come apprendista, poi come
operaio. Ogni tanto mi aumentavano la paga, poi mi hanno passato “intermedio”,
come si diceva allora.
Sono andato anche alla Triulzi Industrie, perché un capo reparto mi ha portato di là. La Triulzi era una grande azienda di Novate Milanese, circa 1000 dipendenti, con stabilimenti in Russia. Sei mesi dopo ero in via Varesina, dove per caso ho incontrato il capo officina della Omcsa, che seguiva un po' tutta la parte della produzione, mi ha convinto a ritornare in quell'azienda e lì sono rimasto.
Sono andato anche alla Triulzi Industrie, perché un capo reparto mi ha portato di là. La Triulzi era una grande azienda di Novate Milanese, circa 1000 dipendenti, con stabilimenti in Russia. Sei mesi dopo ero in via Varesina, dove per caso ho incontrato il capo officina della Omcsa, che seguiva un po' tutta la parte della produzione, mi ha convinto a ritornare in quell'azienda e lì sono rimasto.
Nel 1962 ci sono state delle agitazioni, prima
per la mensa (10 lire di mensa). Per me era la prima volta ed ero l'unico
intermedio a scioperare. Ricordo un episodio particolare che mi emoziona ancora
oggi: lo sciopero avrebbe dovuto iniziare alle 14, ma nessuno si muoveva dai
reparti perché c'era la schiera degli ingegneri davanti alle cartelliere. Così
io sono andato in mezzo al corridoio, ho slacciato la mia palandrana, e mi sono
incamminato. E tutti gli operai dietro.
La ragione per la quale sono entrato al
sindacato è un po' particolare. Nel 1959 sono andato al campo scuola della Cisl
a Ortisei e il mio istruttore era Maresco Ballini, un vecchio dirigente dei
tessili. Allora era un po' tutto orizzontale e lui seguiva la zona di Rho. Dopo
quattro anni venne a chiedere a mia mamma, e al parroco, di convincermi a
entrare nel sindacato. E fu così che andai ai tessili.
Ho iniziato nel maggio del 1963. All'inizio mi
assegnarono alla zona della città di Milano, per il tessile e l'abbigliamento.
Allora solo a Milano si stava vivendo l'esperienza unitaria per il tessile e
l'abbigliamento. C'erano due federazioni nazionali, mentre Milano aveva
unificato la struttura. Poi successivamente venne la Filta. Avevamo gli uffici
proprio di fronte alla Fim, c'era Pietro Seveso segretario, Carniti era già lì
e c'erano già i primi problemi.
Già all'oratorio facevo delle attività,
organizzavamo gli spettacoli o la pesca di beneficenza. C'era un po' di anticomunismo,
ho partecipato alle manifestazioni del 1° maggio organizzate solo dalle Acli,
in bicicletta, sul Ponte della Ghisolfa. Si era impegnati, insomma, io ero
della Dc, delle Acli, eravamo un po' dentro in tutte queste cose. Forse era un
po' questa la ragione del mio impegno, oltre che un po' per lo spirito della
novità che rappresentava il sindacato. La mia era una famiglia operaia ma in
origine mio padre aveva un'azienda agricola nel bresciano, poi con la storia
dell'imponibile di manodopera - praticamente è stato costretto ad assumere 150
persone quando ne poteva pagare 50 - ha dovuto chiudere. Abbiamo lasciato
Brescia, siamo venuti a Milano, ed è stato un periodo nerissimo per la nostra
famiglia. Non era una famiglia impegnata, né politicamente, né socialmente.
Nel 1966-67 il contratto dei meccanici fu un
disastro. Ricordo che andavo a dare una mano ai metalmeccanici. Allora mi
avevano mandato nella zona di Legnano perché man mano che si cresceva come
autonomia ti davano le zone più importanti. E allora la zona di Legnano era
quella più importante per i tessili di Milano. Mi avevano dato anche 10.000 lire in più al mese. Andavo a dare una
mano a Giampiero Colombo, per i picchettaggi, ricordo per esempio alla fonderia
Cerrese. Mi sto emozionando, perché ricordo che sono andato là alle cinque del
mattino, io da solo, c'era la nebbia, non avevano mai scioperato. Sono usciti
tutti. Il '66/'67 non è stato un bel periodo per il sindacato. Anche il
contratto dei tessili non fu un gran contratto. Nel '68/'69 cominciarono le
battaglie e le contestazioni più dure.
Noi come tessili eravamo impegnati
prevalentemente sulla contrattazione aziendale, per ottenere diritti sindacali,
affissioni, assemblee, queste prime cose. Le conquistavamo fabbrica per
fabbrica. Noi avevamo il minimo di cottimo, il 10%, perché allora era in auge
la confezione in serie. Praticamente le ragazze lavoravano in catena, a
cottimo, ma non prendevano il cottimo. Questa era la situazione. E fu Mario
Colombo a impostare questo discorso ancora prima e poi con la piattaforma siamo
andati un po' a tappeto e unitariamente abbiamo fatto tutte queste cose, in
città, a Milano. Poi anche successivamente a Legnano, ma le confezioni erano
più presenti in città. Quindi lì si sono fatte moltissime trattative per il
minimo di cottimo.
A Milano c'erano un mare di aziende, solo agli
all'inizio degli anni 70 hanno cominciato a uscire dalla città. C'erano
aziende, come Les Rosiers di piazzale Accursio, 600 dipendenti. O la Nalca, la
Libea, la Cisal, la Valsa, erano decine e decine, per non dire centinaia. La
città era piena di fabbriche che confezionavano abiti, maglie, c'era di tutto,
capo spalla, camicette, e le operaie erano prevalentemente donne.
Sì, poi c'erano anche uomini per esempio nel
reparto del taglio, ma l'occupazione nel tessile era prevalentemente femminile.
Abbiamo superato le commissioni interne nel
'62/'63 e si sono cominciati a usare i rappresentanti aziendali. In Cisl ci fu
la battaglia sulla successione alle Sas, sezioni aziendali sindacali, per la
possibilità di fare contrattazione. Le Sas hanno preceduto i consigli
sindacali. Erano di nomina aziendale, mentre poi i consigli venivano eletti dai
lavoratori. Non si seguiva più la procedura nazionale dell'elezione della
commissione interna. Si nominavano dei rappresentanti ai quali si dava la
facoltà di fare contrattazione direttamente.
Innanzitutto facevamo tessere, uno dei diritti
sindacali era la delega, la trattenuta. Quando sono entrato io facevamo ancora
il collettaggio. Avevamo i collettori che andavano ogni mese nelle fabbriche a
raccogliere. Erano bravissime persone e senza di loro non facevi niente. Poi
man mano abbiamo avuto le deleghe e con le deleghe anche l'organizzazione è cresciuta.
Perché allora il sindacato era basato sugli iscritti, non c'erano altri
finanziamenti, non c'erano i pensionati. E solo avendo gli iscritti avevi la
possibilità di fare le Sas e quindi attraverso questo contrattare con le
aziende.
A Milano, ricordo, avevo fatto anche un grosso
convegno a Cinisello Balsamo ma non ricordo la data, proprio su questo, sulla
contrattazione e sul potere contrattuale dei delegati. Ricordo che in città
c'erano 500 lavoratori della Bassetti ed erano praticamente tutti iscritti alla
Cisl. Piero Bassetti era tornato dall'America con i concetti di job evaluation,
produttività, e fu messo in piedi un meccanismo per il premio di produttività
molto strutturato. Era un meccanismo per andare a controllare postazione per
postazione. E questa era contrattazione aziendale.
La contrattazione aziendale iniziò davvero
negli anni 60 per noi l'exploit fu a metà degli anni '60 nel '63,'64,'65.
C'era
il boom, le fabbriche nascevano, le aziende magari ti superavano a sinistra in
termini di salari perché in quel periodo magari davano anche più del contratto,
mettevano anche manifesti in città. Mi ricordo la Rosiers che mise un manifesto
dicendo “15 lire più del contratto di lavoro, se vieni da me a lavorare”.
Dopo
è cambiato tutto, quando dal punto di vista della strategia del sindacato si
decise che era ora di spostare il reddito a favore del lavoro dipendente. La
base di tutto il '68 e '69 fu un po' questa, nel senso che in rapporto a tutta
la ricchezza prodotta del nostro Paese al lavoratore e al lavoro dipendente
andava un po' poco rispetto a quello che avveniva negli altri Paesi europei.
Questo cambiò e fu Carniti a muoversi in questa direzione piuttosto
pesantemente. Questa fu la base concettuale e poi iniziarono le grandi lotte.
A
fine anni 60 si è avuta un'esplosione di vertenze aziendali perché è finito il
capo spalla, gli abiti, le giacche. Nell'abbigliamento questo si è sentito.
Ricordo quelli dell'Istituto cotoniero italiano che si lamentavano delle
importazioni da paesi come India e Pakistan. Tra fine degli anni 60 e metà
degli anni 70 è cambiata la moda e il tessile italiano andato in crisi. Le
confezioni in serie sono esplose a inizio degli anni 60 e sono durate 10/12
anni, al massimo 15 anni. Poi sono finite, sono rimaste solo le firme, le
griffe. A quell'epoca c'erano migliaia di dipendenti nel settore tessile, con gli artigiani si arrivava a livello
nazionale a 1.400.000 addetti. Non ricordo quanti fossero in Lombardia. Io so
che avevo 76.000 iscritti quand'ero segretario regionale.
Fino alla fine del '69 sono rimasto a Legnano.
Nel '70 sono andato a Roma un anno per conto
della federazione nazionale come esperto della contrattazione, ma in realtà
dovevo seguire la città di Roma sia per i tessili che gli alimentaristi. Ho
lavorato con Crea, con Lamagni.
Poi mi dovevo sposare così ho chiesto di
rientrare in Lombardia. Nell'ottobre del ‘71 sono andato a Bergamo come
operatore di zona, poi sono entrato nella segreteria provinciale e poi sono
stato segretario generale di Bergamo, sempre dei tessili, fino al '79. Nel '79
sono diventato componente della segreteria regionale dei tessili e nell'81 mi
hanno eletto segretario generale dei tessili della Lombardia. Nell'84 o '85
sono entrato nella segreteria nazionale dei tessili.
Nell'86 ho lasciato. Non avevo più voglia di
fare il pendolare inoltre un po' era cambiato il clima. Non ho lasciato solo io
in quel periodo. Anche Bruno Provasi e Lorenzo Moroni, segretari generali dei
metalmeccanici e dei chimici, hanno lasciato quell'anno.
Difficile spiegare in che senso il clima era
cambiato. Segretario generale in quegli anni era Franco Marini, ma non fu per
lui che lasciai. Il sindacato che avevo conosciuto io era nelle fabbriche, nei
luoghi di lavoro con i lavoratori, era preoccupato di fare tessere, di
contrattare. Poi c'è stata tutta la fase del processo unitario al quale abbiamo
creduto fino in fondo, a Bergamo avevamo fatto tessere unitarie a iosa. Poi
alla fine, però, abbiamo dovuto fare la scelta confederale. Con i miei capi che
mi dicevano (parlo del segretario generale di Bergamo, Pagani, poi andato in
confederazione), che erano contrari perché poi gli effetti sulla Fim… Mentre
invece quello che mi aveva convinto a farla, l'unità, era la contrarietà ai
discorsi che faceva la Cgil, ovvero "tanto quegli iscritti unitari sono
tutti Cgil". E noi invece in quella scelta confederale abbiamo preso l'85%
e abbiamo portato Bergamo a 16.000 iscritti. Il clima era questo, in sostanza.
Abbiamo fatto tutta la battaglia unitaria, nelle strutture, e poi sono
cominciate le divisioni.
Anche in Cisl il clima era cambiato. Man mano
crescevano i pensionati e diminuiva il ruolo delle categorie. Io non capivo
bene dove stesse andando la Cisl, che ruolo il sindacato volesse assumere.
Era anche il periodo in cui, e io ci
credevo molto, si è impostata la concertazione. La mia posizione era quella,
per esempio di fronte alle crisi aziendali, con le centinaia di occupazioni di
fabbrica che abbiamo fatto, di trovare delle soluzioni. Non sono mai stato per
gli scontri frontali. E su questo terreno abbiamo fatto molte iniziative, anche
quando ero segretario regionale, per coinvolgere gli imprenditori su un certo
percorso che consentisse di salvaguardare al meglio l'occupazione.
Agli inizi degli anni 60 erano continue
serrate, denunce da parte degli imprenditori. Il loro atteggiamento nei
confronti dei sindacati era: la fabbrica è cosa mia, cosa ci fai qui? Insulti
ai cancelli quando andavi ai picchetti, discriminazioni nei confronti dei
lavoratori impegnati nel sindacato, questo era abbastanza normale.
Quando impostavi una piattaforma per il rinnovo
di un accordo aziendale, quando iniziavi a contrattare c'erano reazioni
durissime da parte degli imprenditori. E il clima fu questo fino agli inizi
degli anni 70. Solo lo Statuto dei lavoratori e l'affermazione della
contrattazione aziendale, che già aveva anticipato alcuni diritti poi sanciti
dalla legge, ci ha consentito di avere spazi diversi nelle fabbriche e nelle
aziende. E di muoverci con meno preoccupazioni. Non tanto per noi, quanto per
gli attivisti fabbrica.
Avevamo più tutele, ma l'atteggiamento degli
imprenditori non era cambiato. Solo alcuni imprenditori particolari, per
esempio Giancarlo Lombardi o Piero Bassetti, avevano un atteggiamento diverso
ed erano più disponibili. Ma erano mosche bianche.
Il rapporto con i movimenti era variegato.
Movimenti come Lotta Continua o Potere Operaio a me creavano solo difficoltà e
ostacoli. Faccio un esempio: ero segretario di Bergamo e alla Imec di Carvigo,
600 persone lì e altre 400 di là dall'Adda, eravamo in sciopero per l'accordo
aziendale. Si tenga conto che la Imec stava attraversando un periodo non buono,
perché le donne non mettevano più la sottoveste. L'azienda era specializzata su
questa produzione, che era fortemente standardizzata. Le linee erano a cottimo
e la gente teneva a quel cottimo, solo che cadendo la standardizzazione del
prodotto praticamente lavoravano più di prima e non guadagnavo più niente di
cottimo perché il lavoro era più frazionato. Ed è stato allora che abbiamo
pensato, inventato, il “lavoro di gruppo”. E abbiamo impostato una grossa
vertenza, con scioperi e altro. Bene, mentre ancora stavamo trattando, fuori
dall'azienda gruppi di Lotta Continua e Potere Operaio hanno piantato le tende,
coinvolgendo qualcuno del consiglio di fabbrica, ostili a qualsiasi tipo di
trattativa. Dove volessero andare a parare non lo so. Poi in un'assemblea le
abbiamo fatte votare e al 90% hanno votato per la linea del sindacato. E fu
allora che abbiamo fatto questa esperienza dei lavori di gruppo alla Imec, una
delle poche del suo genere, tanto che mi chiamavano da tutta Italia per andare
a spiegarla. Per un
certo periodo la Imec si è salvata. Adesso è molto ridimensionata. Questi
atteggiamenti dei movimenti hanno portato anche a vedere il mio nome scritto
sui muri, ecc. E in consiglio di fabbrica ho avuto uno che è in galera ancora
adesso perché ha sparato a un vigile a Città Alta. Non era un bel periodo, i
rapporti non erano proprio tranquilli all'inizio degli anni 70. Non ho avuto
grandi esperienze del rapporto con gli studenti delle contestazioni nel '68.
Il
primo sciopero generale è stato, mi ricordo, nel '64, sulla casa a Milano. Ha
parlato Piervirgilio Ortolani, in piazza Duomo, 100.000 persone, e fu una cosa
strepitosa. Quello fu forse l'embrione dell'avvio di un discorso unitario.
Perché Milano è sempre stata un po' più avanti agli altri. I tessili sugli
scioperi generali ci sono sempre stati. La categoria dei tessili è una
categoria che faceva un po' da cerniera, nella Cisl, tra la destra che prima
era rappresentata da Scalia, da Marini, un po' più addolcita, un po' più
disponibile ma non la definirei neanche di destra, e le categorie
dell'industria con i meccanici, i poligrafici, poi c'eravamo noi, poi magari
c'erano chimici un po' più a destra di noi. Questo era il panorama, almeno per
quello che ricordo io.
Il
congresso del '69 ha sancito definitivamente la separazione tra attività
sindacale e influenze della politica.
L'incompatibilità era partita ancora prima.
Ricordo un episodio, penso fosse il '64, a Roma eravamo con i giovani, allora
c'era un certo Chioffi che organizzava i
giovani, ci avevano invitato per un dibattito con un ragazzo della Fim e una
ragazza della Fuci, siamo andati in via
Conciliazione nella sede della Fuci e abbiamo fatto un volantino. Abbiamo
finito alle cinque del mattino e alle 9.30, quando Storti doveva andare a fare
il comizio per l'elezione in Parlamento, siamo andati a distribuirlo.
Fu
il primo caso di contestazione aperta. E dimostra che il discorso dell'incompatibilità
tra cariche sindacali e politiche o pubbliche partì già da allora. Man mano poi
si è arrivati al congresso del '69. Dentro la Cisl in quegli anni c'era Storti
da una parte e Scalia dall'altra, il Nord e il Sud, l'industria e il pubblico
impiego.
A
livello locale, per l'attività di categoria, l'influenza delle dinamiche
nazionali e del dibattito nazionale sul tema dell'incompatibilità era relativa.
Almeno per noi che strutturalmente concepivamo l'autonomia come un valore.
Quand'ero in città non c'era nessun influenza della politica sul sindacato.
Quand'ero responsabile di zona non ho mai avuto problemi. Quand'ero segretario
a Bergamo qualche contatto, ma proprio perché l'Unione organizzava iniziative
oppure ti inserivano, come è capitato a me, nella giunta della Camera di commercio.
Ma era a quel livello, poche cose. Sono stati più gli orizzontali ad avere
questo genere di problemi di rapporti. Come categoria, o uno andava a cercare
contatti con la politica per ragioni proprie, per fare carriera per canali
trasversali, oppure non c'era rapporto. O perlomeno io non l'ho mai avvertito.
Nell'anno
che sono stato a Roma è stata solo battaglia e basta. La Pantanella occupata,
fabbriche tessili e di abbigliamento occupate, grandi manifestazioni davanti al
ministero dell'Industria, era ministro Donat Cattin in quel periodo. Picchetti
davanti al ministero, manifestazioni in via 20 settembre. Di episodi ce ne sono
moltissimi.
La
Pantanella, per esempio, era proprietà del Vaticano. Hanno deciso di chiudere
perché dovevano vendere l'area ed era quasi tutta Cgil. Quando sono arrivato io
ho cominciato a prendere contatti e sarà stato perché ero di Milano, sarà stato
perché ero fortunato, ma alla fine si sono iscritti tutti alla Cisl. E quindi
ho dovuto guidare la vertenza. E quindi andare a cercare gli incontri al
ministero, col prefetto, tutte queste cose.
Una
delle tante iniziative che abbiamo fatto è stata una manifestazione davanti al
ministero dell'Industria. Avevamo messo una tenda che ci aveva dato l'abate di
San Paolo, quello che poi si è sposato, don Franzoni. Era il vescovo di San
Paolo ma io l'ho sempre chiamato “l'abate”. Avevamo messo la tenda e facevamo
il picchetto in via Veneto.
Donat
Cattin aveva promesso che dopo il consiglio dei ministri avrebbe valutato la
situazione ma noi non potevamo aspettare così abbiamo fatto volantini, abbiamo
messo la tenda. E avevo avvisato il commissario Gargiulo che non avremmo fatto
confusione, ma giusto il tempo di allontanarmi per cinque minuti e andare a parlare
con un gruppo di operai che la polizia ci ha distrutto la tenda. Avevamo la
polizia da una parte e i carabinieri dall'altra, eravamo in mezzo. Così a certo
punto ho detto, ragazzi blocchiamo via Veneto. Si stavano preparando per far la
carica, gli scudi, gli elmetti, e stavano venendo giù. Così mi sono infilato
sotto la Jeep del primo, con le gambe sotto, attaccato al paraurti e non si
sono più mossi. E' arrivato un agente della Digos, della “politica” li
chiamavamo noi, che mi conosceva bene perché di manifestazioni a Roma ne organizzavamo moltissime, in giro per i
ministeri. E mentre ero sotto la Jeep abbiamo fatto la trattativa. Io gli ho
detto: tu fai ritirare i tuoi e noi dopo un'oretta sblocchiamo via Veneto e
torniamo a mettere la nostra tenda. Così hanno fatto marcia indietro, tra gli
applausi di tutta via Veneto.... E così è andata. Ma la vertenza della
Pantanella purtroppo è finita in niente, hanno venduto. Dicevano che un Equity
Fund di Los Angeles doveva comprare ma in realtà erano tutte storie, in realtà volevano
solo vendere e costruire. Così la Cisl ha manifestato contro il Vaticano, ma
non è stato l'unico episodio. Abbiamo anche manifestato contro l'esercito,
all'Aerostatica che faceva paracaduti. C'era una crisi occupazionale gravissima.
Le aziende chiudevano, l'atteggiamento padronale era molto duro.
Nel
'71 sono rientrato in Lombardia e sono stato trasferito a Bergamo, inizialmente
come operatore di zona e poi come componente della segreteria provinciale dei
tessili. Poi sono stato eletto segretario generale e lì sono rimasto fino al
'79, quando sono entrato nella segreteria regionale dei tessili.
A
Bergamo i rapporti unitari erano molto buoni, abbiamo fatto tanta
contrattazione aziendale, qualche occupazione di fabbrica. Alla fine degli anni
70, quando si sono incrinati i rapporti unitari, abbiamo dovuto fare la scelta
confederale. "Dovuto", ma l'abbiamo scelto. A un certo punto abbiamo
detto basta, c'era troppa confusione e non si poteva andare avanti in quella
situazione. Ho fatto le sedi unitarie sia a livello nazionale che locale,
ognuno manteneva la sua struttura, aveva i suoi organismi e poi c'erano gli
organismi unitari che si riunivano. La presenza della Filta nel sindacato
unitario dei tessili era forse più marcata della presenza della Fim nella Flm,
anche perché noi eravamo il sindacato maggioritario nei tessili.
L'esperienza
del sindacato unitario nei tessili è durata fino alla fine degli anni 70. Alla
fine si è chiusa perché le posizioni politiche stavano divergendo. Avevamo le
strutture unitarie ma le politiche andavano in un'altra direzione, erano ormai
diversificate e quindi era difficile andare avanti. Come ci si è divisi è
dipeso molto da realtà a realtà, contavano molto i rapporti personali. Dove si
aveva un buon rapporto a livello locale si è fatta la scelta confederale ma
senza mai arrivare gli scontri. In altre realtà invece non si parlavano neanche
più.
Sul
salario variabile indipendente io non sono mai stato d'accordo. Nel senso che
l'azienda deve poter sopravvivere, deve poter produrre, dare occupazione e dare
reddito. Ma se il salario è una variabile indipendente non sta più in piedi
niente. E infatti non è durata molto questa posizione. Era più che altro un
problema dei metalmeccanici.
In
quegli anni facevamo contrattazione territoriale sui trasporti o sulla casa o
su altro, ma erano tutte chiacchiere. Facevamo molti documenti, sia noi
sindacati che l'ente locale o la Regione, ma non abbiamo mai concluso niente:
grandi dichiarazioni d'intenti ma nulla di concreto. Infatti i pendolari, per
esempio, sono in ballo ancora adesso con i problemi dei trasporti pubblici. Era
la cosiddetta contrattazione territoriale, ma è durata poco o almeno io non
l'ho vissuta.
Il
sindacato tessile era un sindacato di donne. Le nostre attiviste, parecchie,
oltre che nel sindacato erano impegnate nei gruppi femminili sulle varie
battaglie. Erano molto impegnate sui temi sociali al fianco dei movimenti
perché il sindacato sensibilizzava su questi temi, sul ruolo del donna nella
società. Ricordo per esempio la battaglia sugli asili nido, quando approvarono
la legge che ne finanziava l'apertura, per cercare di convincere i Comuni ad
aprirne sul territorio.
La
legge sulla maternità è stata un grande passo avanti. Poi c'era il discorso
delle aspettative e dei permessi per i figli, che riuscimmo a inserire in molti
accordi aziendali, per esempio con il "multiore".
Non
ricordo gruppi di donne organizzate dentro il sindacato come per esempio i
coordinamenti donne.
Per
tutte le vertenze complicate chiamavano il segretario regionale. Per esempio,
la crisi della Niggeler & Küpfer nel bresciano, la crisi della Cantoni,
della Bassetti. Ricordo l'ingegner Inghirami, di Arezzo. Era il periodo della
crisi di Montefibre, che in quel periodo era il maggiore azionista della
Cantoni di Legnano, che io avevo seguito a suo tempo. Inghirami, con l'aiuto di
Montefibre e penso anche di qualche gruppo di banche, era disponibile a
ritirare una parte degli stabilimenti Cantoni, la Cassela, la Reggiani. Tutte
queste vicende le ho gestite io.
Per
esempio abbiamo salvato un pezzo della Reggiani, una grossa azienda tessile di
Bergamo, quella da dove veniva Savino Pezzotta, poi diventato segretario
generale della Cisl. L'ho tirato fuori io dalla fabbrica. Era in commissione
interna, l'ho fatto venire al sindacato tessile di Bergamo e poi quando sono
andato al regionale è diventato segretario provinciale di Bergamo. Ero
coinvolto sulle vertenze di una certa dimensione oppure quando erano in
difficoltà magari aziende più piccole dove però non si riusciva a sbloccare la
situazione.
Di
quegli anni ricordo una Cisl combattiva, che guardava molto l'organizzazione,
molto concreta, che cercava di essere il più vicino possibile agli ambienti di
lavoro e anche le Unioni, gli orizzontali, davano una mano se c'era qualche
problema che esulava un po' dalla categoria. A Bergamo la fase della vecchia
Cisl legata alla politica era già stata superata prima che arrivassi io, sì
c'era ancora qualche residuo, qualche vecchio dirigente o delegato legati al
vecchio mondo, ma per il resto la maggior parte era su posizioni molto più
allineate. Quando c'erano posizioni d'assumere le categorie dell'industria
erano praticamente compatte nel sostenerle. E anche a livello regionale abbiamo
sempre avuto un buonissimo rapporto tra categorie, non solo perché ci
conoscevamo tutti da anni. Provasi lo avevo conosciuto a Bergamo, anche Moroni
che era stato segretario dei chimici. Poi li ho ritrovati al regionale e
prendevamo anche molte iniziative insieme. Ci fu anche una battaglia, che poi
abbiamo perso, per tentare di avere Gianni Bon come segretario generale della
Lombardia invece di Luigia Alberti. Ci si muoveva coordinandoci.
A
livello di categorie dell'industria, dunque, ci siamo sempre mossi con un certo
coordinamento. Le categorie dell'industria, la Lombardia...eravamo con Carniti.
Storti non l'abbiamo mai amato molto, ma non eravamo con Scalia. Perché poi
Storti era un uomo per tutte le stagioni.
A
inizio anni Sessanta quasi non potevi entrare in fabbrica e andavi alla grande
se riuscivi a fare accordi aziendali. Poi quando la contrattazione aziendale si
è affermata in quasi tutte le aziende di nostra competenza si facevano accordi.
Allora il sindacalista faceva assemblee in tutte le fabbriche tutti i mesi. Io
ho provato a fare sei assemblee al giorno perché c'erano i turni e c'erano i
vari reparti. Quindi tu andavi in una fabbrica e facevi tutte le assemblee erano
sempre unitarie. Erano assemblee su tutto. Siccome avevamo diritto
all'assemblea non ne perdevamo una. Fino a che sono stato segretario di Bergamo
le assemblee si facevano dappertutto e i risultati ci sono stati. Perché quando
entravi per l'assemblea venivi anche coinvolto su una serie di problemi
particolari delle singole persone, instauravi un rapporto umano importante. Un
conto era andare fuori dai cancelli della fabbrica, un conto entrare. La gente
veniva in assemblea e quando finivi venivano lì e ti ponevano i loro problemi.
Allora davi indicazioni, li mandavi all'Inas, all'ufficio vertenze, etc. Eri un
po' come il medico di famiglia. Le assemblee hanno avuto un grosso ruolo
nell'azione sindacale. All'inizio erano 4 o 5 le cose da chiedere in fabbrica
poi diventarono sempre più complesse e dovevi documentarti. Andavamo all'Itma
ad Hannover per vedere le macchine nuove che arrivavano, perché dovevamo
discutere dell'assegnazione di macchinari dei tessili. Dovevi cercare di
aggiornarti, leggere anche quattro giornali al giorno per tentare di capire
cosa stava succedendo in giro per il mondo.
L'unica
cosa che secondo me è rimasta in Cisl degli anni 70 è l'attaccamento agli
aspetti della contrattazione. Difficilmente la Cisl si lascia trasportare da
aspetti ideologici, guarda agli aspetti concreti di tutela degli interessi dei
lavoratori. Questo secondo me è ciò caratterizza la nostra organizzazione, la
Cisl.