domenica 14 giugno 2020

DANIELE CORBARI - Filta – Bergamo, Lombardia, Roma

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Impegno e passione. Gli anni caldi della Cisl in Lombardia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016

Sono nato a Verolanuova, nella bassa bresciana, il 18 ottobre 1943. Ho fatto le medie, poi ho studiato tre anni alla sera, perito industriale, e ho smesso. Ho cominciato a lavorare a 14 anni, in una fonderia. Facevo il manovale, poi altre mansioni un po' meno pesanti. Poi sono andato in un'azienda di costruzioni meccaniche, stampa offset, la Omcsa di Novate Milanese, 500 dipendenti. Inizialmente come apprendista, poi come operaio. Ogni tanto mi aumentavano la paga, poi mi hanno passato “intermedio”, come si diceva allora.

Sono andato anche alla Triulzi Industrie, perché un capo reparto mi ha portato di là. La Triulzi era una grande azienda di Novate Milanese, circa 1000 dipendenti, con stabilimenti in Russia. Sei mesi dopo ero in via Varesina, dove per caso ho incontrato il capo officina della Omcsa, che seguiva un po' tutta la parte della produzione, mi ha convinto a ritornare in quell'azienda e lì sono rimasto.
Nel 1962 ci sono state delle agitazioni, prima per la mensa (10 lire di mensa). Per me era la prima volta ed ero l'unico intermedio a scioperare. Ricordo un episodio particolare che mi emoziona ancora oggi: lo sciopero avrebbe dovuto iniziare alle 14, ma nessuno si muoveva dai reparti perché c'era la schiera degli ingegneri davanti alle cartelliere. Così io sono andato in mezzo al corridoio, ho slacciato la mia palandrana, e mi sono incamminato. E tutti gli operai dietro.

La ragione per la quale sono entrato al sindacato è un po' particolare. Nel 1959 sono andato al campo scuola della Cisl a Ortisei e il mio istruttore era Maresco Ballini, un vecchio dirigente dei tessili. Allora era un po' tutto orizzontale e lui seguiva la zona di Rho. Dopo quattro anni venne a chiedere a mia mamma, e al parroco, di convincermi a entrare nel sindacato. E fu così che andai ai tessili.
Ho iniziato nel maggio del 1963. All'inizio mi assegnarono alla zona della città di Milano, per il tessile e l'abbigliamento. Allora solo a Milano si stava vivendo l'esperienza unitaria per il tessile e l'abbigliamento. C'erano due federazioni nazionali, mentre Milano aveva unificato la struttura. Poi successivamente venne la Filta. Avevamo gli uffici proprio di fronte alla Fim, c'era Pietro Seveso segretario, Carniti era già lì e c'erano già i primi problemi.
Già all'oratorio facevo delle attività, organizzavamo gli spettacoli o la pesca di beneficenza. C'era un po' di anticomunismo, ho partecipato alle manifestazioni del 1° maggio organizzate solo dalle Acli, in bicicletta, sul Ponte della Ghisolfa. Si era impegnati, insomma, io ero della Dc, delle Acli, eravamo un po' dentro in tutte queste cose. Forse era un po' questa la ragione del mio impegno, oltre che un po' per lo spirito della novità che rappresentava il sindacato. La mia era una famiglia operaia ma in origine mio padre aveva un'azienda agricola nel bresciano, poi con la storia dell'imponibile di manodopera - praticamente è stato costretto ad assumere 150 persone quando ne poteva pagare 50 - ha dovuto chiudere. Abbiamo lasciato Brescia, siamo venuti a Milano, ed è stato un periodo nerissimo per la nostra famiglia. Non era una famiglia impegnata, né politicamente, né socialmente.

Nel 1966-67 il contratto dei meccanici fu un disastro. Ricordo che andavo a dare una mano ai metalmeccanici. Allora mi avevano mandato nella zona di Legnano perché man mano che si cresceva come autonomia ti davano le zone più importanti. E allora la zona di Legnano era quella più importante per i tessili di Milano. Mi avevano dato anche  10.000 lire in più al mese. Andavo a dare una mano a Giampiero Colombo, per i picchettaggi, ricordo per esempio alla fonderia Cerrese. Mi sto emozionando, perché ricordo che sono andato là alle cinque del mattino, io da solo, c'era la nebbia, non avevano mai scioperato. Sono usciti tutti. Il '66/'67 non è stato un bel periodo per il sindacato. Anche il contratto dei tessili non fu un gran contratto. Nel '68/'69 cominciarono le battaglie e le contestazioni più dure.

Noi come tessili eravamo impegnati prevalentemente sulla contrattazione aziendale, per ottenere diritti sindacali, affissioni, assemblee, queste prime cose. Le conquistavamo fabbrica per fabbrica. Noi avevamo il minimo di cottimo, il 10%, perché allora era in auge la confezione in serie. Praticamente le ragazze lavoravano in catena, a cottimo, ma non prendevano il cottimo. Questa era la situazione. E fu Mario Colombo a impostare questo discorso ancora prima e poi con la piattaforma siamo andati un po' a tappeto e unitariamente abbiamo fatto tutte queste cose, in città, a Milano. Poi anche successivamente a Legnano, ma le confezioni erano più presenti in città. Quindi lì si sono fatte moltissime trattative per il minimo di cottimo.
A Milano c'erano un mare di aziende, solo agli all'inizio degli anni 70 hanno cominciato a uscire dalla città. C'erano aziende, come Les Rosiers di piazzale Accursio, 600 dipendenti. O la Nalca, la Libea, la Cisal, la Valsa, erano decine e decine, per non dire centinaia. La città era piena di fabbriche che confezionavano abiti, maglie, c'era di tutto, capo spalla, camicette, e le operaie erano prevalentemente donne.
Sì, poi c'erano anche uomini per esempio nel reparto del taglio, ma l'occupazione nel tessile era prevalentemente femminile.
Abbiamo superato le commissioni interne nel '62/'63 e si sono cominciati a usare i rappresentanti aziendali. In Cisl ci fu la battaglia sulla successione alle Sas, sezioni aziendali sindacali, per la possibilità di fare contrattazione. Le Sas hanno preceduto i consigli sindacali. Erano di nomina aziendale, mentre poi i consigli venivano eletti dai lavoratori. Non si seguiva più la procedura nazionale dell'elezione della commissione interna. Si nominavano dei rappresentanti ai quali si dava la facoltà di fare contrattazione direttamente.

Innanzitutto facevamo tessere, uno dei diritti sindacali era la delega, la trattenuta. Quando sono entrato io facevamo ancora il collettaggio. Avevamo i collettori che andavano ogni mese nelle fabbriche a raccogliere. Erano bravissime persone e senza di loro non facevi niente. Poi man mano abbiamo avuto le deleghe e con le deleghe anche l'organizzazione è cresciuta. Perché allora il sindacato era basato sugli iscritti, non c'erano altri finanziamenti, non c'erano i pensionati. E solo avendo gli iscritti avevi la possibilità di fare le Sas e quindi attraverso questo contrattare con le aziende.
A Milano, ricordo, avevo fatto anche un grosso convegno a Cinisello Balsamo ma non ricordo la data, proprio su questo, sulla contrattazione e sul potere contrattuale dei delegati. Ricordo che in città c'erano 500 lavoratori della Bassetti ed erano praticamente tutti iscritti alla Cisl. Piero Bassetti era tornato dall'America con i concetti di job evaluation, produttività, e fu messo in piedi un meccanismo per il premio di produttività molto strutturato. Era un meccanismo per andare a controllare postazione per postazione. E questa era contrattazione aziendale.

La contrattazione aziendale iniziò davvero negli anni 60 per noi l'exploit fu a metà degli anni '60 nel '63,'64,'65.
C'era il boom, le fabbriche nascevano, le aziende magari ti superavano a sinistra in termini di salari perché in quel periodo magari davano anche più del contratto, mettevano anche manifesti in città. Mi ricordo la Rosiers che mise un manifesto dicendo “15 lire più del contratto di lavoro, se vieni da me a lavorare”.
Dopo è cambiato tutto, quando dal punto di vista della strategia del sindacato si decise che era ora di spostare il reddito a favore del lavoro dipendente. La base di tutto il '68 e '69 fu un po' questa, nel senso che in rapporto a tutta la ricchezza prodotta del nostro Paese al lavoratore e al lavoro dipendente andava un po' poco rispetto a quello che avveniva negli altri Paesi europei. Questo cambiò e fu Carniti a muoversi in questa direzione piuttosto pesantemente. Questa fu la base concettuale e poi iniziarono le grandi lotte.

A fine anni 60 si è avuta un'esplosione di vertenze aziendali perché è finito il capo spalla, gli abiti, le giacche. Nell'abbigliamento questo si è sentito. Ricordo quelli dell'Istituto cotoniero italiano che si lamentavano delle importazioni da paesi come India e Pakistan. Tra fine degli anni 60 e metà degli anni 70 è cambiata la moda e il tessile italiano andato in crisi. Le confezioni in serie sono esplose a inizio degli anni 60 e sono durate 10/12 anni, al massimo 15 anni. Poi sono finite, sono rimaste solo le firme, le griffe. A quell'epoca c'erano migliaia di dipendenti nel settore tessile,  con gli artigiani si arrivava a livello nazionale a 1.400.000 addetti. Non ricordo quanti fossero in Lombardia. Io so che avevo 76.000 iscritti quand'ero segretario regionale.

Fino alla fine del '69 sono rimasto a Legnano.
Nel '70 sono andato a Roma un anno per conto della federazione nazionale come esperto della contrattazione, ma in realtà dovevo seguire la città di Roma sia per i tessili che gli alimentaristi. Ho lavorato con Crea, con Lamagni.
Poi mi dovevo sposare così ho chiesto di rientrare in Lombardia. Nell'ottobre del ‘71 sono andato a Bergamo come operatore di zona, poi sono entrato nella segreteria provinciale e poi sono stato segretario generale di Bergamo, sempre dei tessili, fino al '79. Nel '79 sono diventato componente della segreteria regionale dei tessili e nell'81 mi hanno eletto segretario generale dei tessili della Lombardia. Nell'84 o '85 sono entrato nella segreteria nazionale dei tessili.
Nell'86 ho lasciato. Non avevo più voglia di fare il pendolare inoltre un po' era cambiato il clima. Non ho lasciato solo io in quel periodo. Anche Bruno Provasi e Lorenzo Moroni, segretari generali dei metalmeccanici e dei chimici, hanno lasciato quell'anno.
Difficile spiegare in che senso il clima era cambiato. Segretario generale in quegli anni era Franco Marini, ma non fu per lui che lasciai. Il sindacato che avevo conosciuto io era nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro con i lavoratori, era preoccupato di fare tessere, di contrattare. Poi c'è stata tutta la fase del processo unitario al quale abbiamo creduto fino in fondo, a Bergamo avevamo fatto tessere unitarie a iosa. Poi alla fine, però, abbiamo dovuto fare la scelta confederale. Con i miei capi che mi dicevano (parlo del segretario generale di Bergamo, Pagani, poi andato in confederazione), che erano contrari perché poi gli effetti sulla Fim… Mentre invece quello che mi aveva convinto a farla, l'unità, era la contrarietà ai discorsi che faceva la Cgil, ovvero "tanto quegli iscritti unitari sono tutti Cgil". E noi invece in quella scelta confederale abbiamo preso l'85% e abbiamo portato Bergamo a 16.000 iscritti. Il clima era questo, in sostanza. Abbiamo fatto tutta la battaglia unitaria, nelle strutture, e poi sono cominciate le divisioni.

Anche in Cisl il clima era cambiato. Man mano crescevano i pensionati e diminuiva il ruolo delle categorie. Io non capivo bene dove stesse andando la Cisl, che ruolo il sindacato volesse assumere. Era  anche il periodo in cui, e io ci credevo molto, si è impostata la concertazione. La mia posizione era quella, per esempio di fronte alle crisi aziendali, con le centinaia di occupazioni di fabbrica che abbiamo fatto, di trovare delle soluzioni. Non sono mai stato per gli scontri frontali. E su questo terreno abbiamo fatto molte iniziative, anche quando ero segretario regionale, per coinvolgere gli imprenditori su un certo percorso che consentisse di salvaguardare al meglio l'occupazione.

Agli inizi degli anni 60 erano continue serrate, denunce da parte degli imprenditori. Il loro atteggiamento nei confronti dei sindacati era: la fabbrica è cosa mia, cosa ci fai qui? Insulti ai cancelli quando andavi ai picchetti, discriminazioni nei confronti dei lavoratori impegnati nel sindacato, questo era abbastanza normale.
Quando impostavi una piattaforma per il rinnovo di un accordo aziendale, quando iniziavi a contrattare c'erano reazioni durissime da parte degli imprenditori. E il clima fu questo fino agli inizi degli anni 70. Solo lo Statuto dei lavoratori e l'affermazione della contrattazione aziendale, che già aveva anticipato alcuni diritti poi sanciti dalla legge, ci ha consentito di avere spazi diversi nelle fabbriche e nelle aziende. E di muoverci con meno preoccupazioni. Non tanto per noi, quanto per gli attivisti fabbrica.
Avevamo più tutele, ma l'atteggiamento degli imprenditori non era cambiato. Solo alcuni imprenditori particolari, per esempio Giancarlo Lombardi o Piero Bassetti, avevano un atteggiamento diverso ed erano più disponibili. Ma erano mosche bianche.

Il rapporto con i movimenti era variegato. Movimenti come Lotta Continua o Potere Operaio a me creavano solo difficoltà e ostacoli. Faccio un esempio: ero segretario di Bergamo e alla Imec di Carvigo, 600 persone lì e altre 400 di là dall'Adda, eravamo in sciopero per l'accordo aziendale. Si tenga conto che la Imec stava attraversando un periodo non buono, perché le donne non mettevano più la sottoveste. L'azienda era specializzata su questa produzione, che era fortemente standardizzata. Le linee erano a cottimo e la gente teneva a quel cottimo, solo che cadendo la standardizzazione del prodotto praticamente lavoravano più di prima e non guadagnavo più niente di cottimo perché il lavoro era più frazionato. Ed è stato allora che abbiamo pensato, inventato, il “lavoro di gruppo”. E abbiamo impostato una grossa vertenza, con scioperi e altro. Bene, mentre ancora stavamo trattando, fuori dall'azienda gruppi di Lotta Continua e Potere Operaio hanno piantato le tende, coinvolgendo qualcuno del consiglio di fabbrica, ostili a qualsiasi tipo di trattativa. Dove volessero andare a parare non lo so. Poi in un'assemblea le abbiamo fatte votare e al 90% hanno votato per la linea del sindacato. E fu allora che abbiamo fatto questa esperienza dei lavori di gruppo alla Imec, una delle poche del suo genere, tanto che mi chiamavano da tutta Italia per andare a spiegarla. Per un certo periodo la Imec si è salvata. Adesso è molto ridimensionata. Questi atteggiamenti dei movimenti hanno portato anche a vedere il mio nome scritto sui muri, ecc. E in consiglio di fabbrica ho avuto uno che è in galera ancora adesso perché ha sparato a un vigile a Città Alta. Non era un bel periodo, i rapporti non erano proprio tranquilli all'inizio degli anni 70. Non ho avuto grandi esperienze del rapporto con gli studenti delle contestazioni nel '68.

Il primo sciopero generale è stato, mi ricordo, nel '64, sulla casa a Milano. Ha parlato Piervirgilio Ortolani, in piazza Duomo, 100.000 persone, e fu una cosa strepitosa. Quello fu forse l'embrione dell'avvio di un discorso unitario. Perché Milano è sempre stata un po' più avanti agli altri. I tessili sugli scioperi generali ci sono sempre stati. La categoria dei tessili è una categoria che faceva un po' da cerniera, nella Cisl, tra la destra che prima era rappresentata da Scalia, da Marini, un po' più addolcita, un po' più disponibile ma non la definirei neanche di destra, e le categorie dell'industria con i meccanici, i poligrafici, poi c'eravamo noi, poi magari c'erano chimici un po' più a destra di noi. Questo era il panorama, almeno per quello che ricordo io.

Il congresso del '69 ha sancito definitivamente la separazione tra attività sindacale e influenze della politica.
L'incompatibilità era partita ancora prima. Ricordo un episodio, penso fosse il '64, a Roma eravamo con i giovani, allora c'era un certo Chioffi  che organizzava i giovani, ci avevano invitato per un dibattito con un ragazzo della Fim e una ragazza della Fuci,  siamo andati in via Conciliazione nella sede della Fuci e abbiamo fatto un volantino. Abbiamo finito alle cinque del mattino e alle 9.30, quando Storti doveva andare a fare il comizio per l'elezione in Parlamento, siamo andati a distribuirlo.
Fu il primo caso di contestazione aperta. E dimostra che il discorso dell'incompatibilità tra cariche sindacali e politiche o pubbliche partì già da allora. Man mano poi si è arrivati al congresso del '69. Dentro la Cisl in quegli anni c'era Storti da una parte e Scalia dall'altra, il Nord e il Sud, l'industria e il pubblico impiego.

A livello locale, per l'attività di categoria, l'influenza delle dinamiche nazionali e del dibattito nazionale sul tema dell'incompatibilità era relativa. Almeno per noi che strutturalmente concepivamo l'autonomia come un valore. Quand'ero in città non c'era nessun influenza della politica sul sindacato. Quand'ero responsabile di zona non ho mai avuto problemi. Quand'ero segretario a Bergamo qualche contatto, ma proprio perché l'Unione organizzava iniziative oppure ti inserivano, come è capitato a me, nella giunta della Camera di commercio. Ma era a quel livello, poche cose. Sono stati più gli orizzontali ad avere questo genere di problemi di rapporti. Come categoria, o uno andava a cercare contatti con la politica per ragioni proprie, per fare carriera per canali trasversali, oppure non c'era rapporto. O perlomeno io non l'ho mai avvertito.

Nell'anno che sono stato a Roma è stata solo battaglia e basta. La Pantanella occupata, fabbriche tessili e di abbigliamento occupate, grandi manifestazioni davanti al ministero dell'Industria, era ministro Donat Cattin in quel periodo. Picchetti davanti al ministero, manifestazioni in via 20 settembre. Di episodi ce ne sono moltissimi.
La Pantanella, per esempio, era proprietà del Vaticano. Hanno deciso di chiudere perché dovevano vendere l'area ed era quasi tutta Cgil. Quando sono arrivato io ho cominciato a prendere contatti e sarà stato perché ero di Milano, sarà stato perché ero fortunato, ma alla fine si sono iscritti tutti alla Cisl. E quindi ho dovuto guidare la vertenza. E quindi andare a cercare gli incontri al ministero, col prefetto, tutte queste cose.
Una delle tante iniziative che abbiamo fatto è stata una manifestazione davanti al ministero dell'Industria. Avevamo messo una tenda che ci aveva dato l'abate di San Paolo, quello che poi si è sposato, don Franzoni. Era il vescovo di San Paolo ma io l'ho sempre chiamato “l'abate”. Avevamo messo la tenda e facevamo il picchetto in via Veneto.
Donat Cattin aveva promesso che dopo il consiglio dei ministri avrebbe valutato la situazione ma noi non potevamo aspettare così abbiamo fatto volantini, abbiamo messo la tenda. E avevo avvisato il commissario Gargiulo che non avremmo fatto confusione, ma giusto il tempo di allontanarmi per cinque minuti e andare a parlare con un gruppo di operai che la polizia ci ha distrutto la tenda. Avevamo la polizia da una parte e i carabinieri dall'altra, eravamo in mezzo. Così a certo punto ho detto, ragazzi blocchiamo via Veneto. Si stavano preparando per far la carica, gli scudi, gli elmetti, e stavano venendo giù. Così mi sono infilato sotto la Jeep del primo, con le gambe sotto, attaccato al paraurti e non si sono più mossi. E' arrivato un agente della Digos, della “politica” li chiamavamo noi, che mi conosceva bene perché di manifestazioni a Roma  ne organizzavamo moltissime, in giro per i ministeri. E mentre ero sotto la Jeep abbiamo fatto la trattativa. Io gli ho detto: tu fai ritirare i tuoi e noi dopo un'oretta sblocchiamo via Veneto e torniamo a mettere la nostra tenda. Così hanno fatto marcia indietro, tra gli applausi di tutta via Veneto.... E così è andata. Ma la vertenza della Pantanella purtroppo è finita in niente, hanno venduto. Dicevano che un Equity Fund di Los Angeles doveva comprare ma in realtà erano tutte storie, in realtà volevano solo vendere e costruire. Così la Cisl ha manifestato contro il Vaticano, ma non è stato l'unico episodio. Abbiamo anche manifestato contro l'esercito, all'Aerostatica che faceva paracaduti. C'era una crisi occupazionale gravissima. Le aziende chiudevano, l'atteggiamento padronale era molto duro.

Nel '71 sono rientrato in Lombardia e sono stato trasferito a Bergamo, inizialmente come operatore di zona e poi come componente della segreteria provinciale dei tessili. Poi sono stato eletto segretario generale e lì sono rimasto fino al '79, quando sono entrato nella segreteria regionale dei tessili.
A Bergamo i rapporti unitari erano molto buoni, abbiamo fatto tanta contrattazione aziendale, qualche occupazione di fabbrica. Alla fine degli anni 70, quando si sono incrinati i rapporti unitari, abbiamo dovuto fare la scelta confederale. "Dovuto", ma l'abbiamo scelto. A un certo punto abbiamo detto basta, c'era troppa confusione e non si poteva andare avanti in quella situazione. Ho fatto le sedi unitarie sia a livello nazionale che locale, ognuno manteneva la sua struttura, aveva i suoi organismi e poi c'erano gli organismi unitari che si riunivano. La presenza della Filta nel sindacato unitario dei tessili era forse più marcata della presenza della Fim nella Flm, anche perché noi eravamo il sindacato maggioritario nei tessili.

L'esperienza del sindacato unitario nei tessili è durata fino alla fine degli anni 70. Alla fine si è chiusa perché le posizioni politiche stavano divergendo. Avevamo le strutture unitarie ma le politiche andavano in un'altra direzione, erano ormai diversificate e quindi era difficile andare avanti. Come ci si è divisi è dipeso molto da realtà a realtà, contavano molto i rapporti personali. Dove si aveva un buon rapporto a livello locale si è fatta la scelta confederale ma senza mai arrivare gli scontri. In altre realtà invece non si parlavano neanche più.

Sul salario variabile indipendente io non sono mai stato d'accordo. Nel senso che l'azienda deve poter sopravvivere, deve poter produrre, dare occupazione e dare reddito. Ma se il salario è una variabile indipendente non sta più in piedi niente. E infatti non è durata molto questa posizione. Era più che altro un problema dei metalmeccanici.

In quegli anni facevamo contrattazione territoriale sui trasporti o sulla casa o su altro, ma erano tutte chiacchiere. Facevamo molti documenti, sia noi sindacati che l'ente locale o la Regione, ma non abbiamo mai concluso niente: grandi dichiarazioni d'intenti ma nulla di concreto. Infatti i pendolari, per esempio, sono in ballo ancora adesso con i problemi dei trasporti pubblici. Era la cosiddetta contrattazione territoriale, ma è durata poco o almeno io non l'ho vissuta.

Il sindacato tessile era un sindacato di donne. Le nostre attiviste, parecchie, oltre che nel sindacato erano impegnate nei gruppi femminili sulle varie battaglie. Erano molto impegnate sui temi sociali al fianco dei movimenti perché il sindacato sensibilizzava su questi temi, sul ruolo del donna nella società. Ricordo per esempio la battaglia sugli asili nido, quando approvarono la legge che ne finanziava l'apertura, per cercare di convincere i Comuni ad aprirne sul territorio.

La legge sulla maternità è stata un grande passo avanti. Poi c'era il discorso delle aspettative e dei permessi per i figli, che riuscimmo a inserire in molti accordi aziendali, per esempio con il "multiore".
Non ricordo gruppi di donne organizzate dentro il sindacato come per esempio i coordinamenti donne.

Per tutte le vertenze complicate chiamavano il segretario regionale. Per esempio, la crisi della Niggeler & Küpfer nel bresciano, la crisi della Cantoni, della Bassetti. Ricordo l'ingegner Inghirami, di Arezzo. Era il periodo della crisi di Montefibre, che in quel periodo era il maggiore azionista della Cantoni di Legnano, che io avevo seguito a suo tempo. Inghirami, con l'aiuto di Montefibre e penso anche di qualche gruppo di banche, era disponibile a ritirare una parte degli stabilimenti Cantoni, la Cassela, la Reggiani. Tutte queste vicende le ho gestite io.
Per esempio abbiamo salvato un pezzo della Reggiani, una grossa azienda tessile di Bergamo, quella da dove veniva Savino Pezzotta, poi diventato segretario generale della Cisl. L'ho tirato fuori io dalla fabbrica. Era in commissione interna, l'ho fatto venire al sindacato tessile di Bergamo e poi quando sono andato al regionale è diventato segretario provinciale di Bergamo. Ero coinvolto sulle vertenze di una certa dimensione oppure quando erano in difficoltà magari aziende più piccole dove però non si riusciva a sbloccare la situazione.

Di quegli anni ricordo una Cisl combattiva, che guardava molto l'organizzazione, molto concreta, che cercava di essere il più vicino possibile agli ambienti di lavoro e anche le Unioni, gli orizzontali, davano una mano se c'era qualche problema che esulava un po' dalla categoria. A Bergamo la fase della vecchia Cisl legata alla politica era già stata superata prima che arrivassi io, sì c'era ancora qualche residuo, qualche vecchio dirigente o delegato legati al vecchio mondo, ma per il resto la maggior parte era su posizioni molto più allineate. Quando c'erano posizioni d'assumere le categorie dell'industria erano praticamente compatte nel sostenerle. E anche a livello regionale abbiamo sempre avuto un buonissimo rapporto tra categorie, non solo perché ci conoscevamo tutti da anni. Provasi lo avevo conosciuto a Bergamo, anche Moroni che era stato segretario dei chimici. Poi li ho ritrovati al regionale e prendevamo anche molte iniziative insieme. Ci fu anche una battaglia, che poi abbiamo perso, per tentare di avere Gianni Bon come segretario generale della Lombardia invece di Luigia Alberti. Ci si muoveva coordinandoci.
A livello di categorie dell'industria, dunque, ci siamo sempre mossi con un certo coordinamento. Le categorie dell'industria, la Lombardia...eravamo con Carniti. Storti non l'abbiamo mai amato molto, ma non eravamo con Scalia. Perché poi Storti era un uomo per tutte le stagioni.

A inizio anni Sessanta quasi non potevi entrare in fabbrica e andavi alla grande se riuscivi a fare accordi aziendali. Poi quando la contrattazione aziendale si è affermata in quasi tutte le aziende di nostra competenza si facevano accordi. Allora il sindacalista faceva assemblee in tutte le fabbriche tutti i mesi. Io ho provato a fare sei assemblee al giorno perché c'erano i turni e c'erano i vari reparti. Quindi tu andavi in una fabbrica e facevi tutte le assemblee erano sempre unitarie. Erano assemblee su tutto. Siccome avevamo diritto all'assemblea non ne perdevamo una. Fino a che sono stato segretario di Bergamo le assemblee si facevano dappertutto e i risultati ci sono stati. Perché quando entravi per l'assemblea venivi anche coinvolto su una serie di problemi particolari delle singole persone, instauravi un rapporto umano importante. Un conto era andare fuori dai cancelli della fabbrica, un conto entrare. La gente veniva in assemblea e quando finivi venivano lì e ti ponevano i loro problemi. Allora davi indicazioni, li mandavi all'Inas, all'ufficio vertenze, etc. Eri un po' come il medico di famiglia. Le assemblee hanno avuto un grosso ruolo nell'azione sindacale. All'inizio erano 4 o 5 le cose da chiedere in fabbrica poi diventarono sempre più complesse e dovevi documentarti. Andavamo all'Itma ad Hannover per vedere le macchine nuove che arrivavano, perché dovevamo discutere dell'assegnazione di macchinari dei tessili. Dovevi cercare di aggiornarti, leggere anche quattro giornali al giorno per tentare di capire cosa stava succedendo in giro per il mondo.

L'unica cosa che secondo me è rimasta in Cisl degli anni 70 è l'attaccamento agli aspetti della contrattazione. Difficilmente la Cisl si lascia trasportare da aspetti ideologici, guarda agli aspetti concreti di tutela degli interessi dei lavoratori. Questo secondo me è ciò caratterizza la nostra organizzazione, la Cisl.