Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Dall’oratorio alla fabbrica. Il sindacato bianco nella Stalingrado d’Italia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007
Ho sempre
vissuto a Ronco Briantino, dove sono nato il 16 luglio 1927 e dove abito ancora
oggi. In famiglia eravamo in cinque, e solo mio papà lavorava. Era un contadino
a metà tempo, occupato di notte come guardia notturna in un’azienda tessile e
di giorno nei campi. La mamma era casalinga. Ho frequentato le elementari in
paese e a conclusione della quinta la maestra voleva che proseguissi negli
studi, ma in casa c’era bisogno che andassi a lavorare al più presto, così i
miei genitori hanno scelto per me la scuola professionale e mi hanno iscritto
alla “Ercole Marelli” di Sesto San Giovanni.
Al termine dei
tre anni di frequenza è arrivata una proposta di assunzione da parte della
Magneti Marelli, che pure aveva una sua scuola interna, situata all’ultimo
piano della palazzina dove oggi hanno sede Cgil, Cisl e Uil della Lombardia. Il
primo ottobre del 1942 mi sono presentato in azienda, mi hanno fatto un piccolo
esame, e mi hanno preso subito. Era un’esperienza di scuola e lavoro. Al
mattino si studiava teoria e al pomeriggio si faceva pratica. Si ruotava nei
diversi reparti dello stabilimento per conoscere tutte le lavorazioni.
L’obiettivo della formazione, infatti, era quello di preparare persone che
sarebbero diventate dei “capi”.
Ci chiamavano
“vedette”. Sulla tuta avevo una “V” gialla e pertanto tutti sapevano che ero
destinato ad assumere quel ruolo. Ma quando sono stato assunto eravamo in
guerra, il corso è finito nel 1944, nel periodo più tragico, e non se n’è fatto
niente. La scuola è stata sciolta mentre stavo facendo pratica nel laboratorio
di elettroacustica e così ho iniziato a lavorare in quel settore, che era
relativamente nuovo: si costruivano microfoni, amplificatori, altoparlanti.
Sono rimasto lì fino al 1948, quando, il primo ottobre, sono andato militare.
Tornato dopo dodici mesi ho trovato una fabbrica
sconvolta. Erano rientrati i proprietari ed era iniziata la ristrutturazione,
con lo smembramento dei reparti e i primi grandi licenziamenti. Fortunatamente
sono finito al laboratorio ricerche di elettronica dove si facevano
ricetrasmettitori, si studiavano ponti radio, si iniziavano a sviluppare le
tecniche di potenziamento dei canali telefonici, si progettavano i nuovi ponti
radio per la televisione.
Anche l’illustre fisico Enrico Fermi, prima di essere
costretto dal fascismo a emigrare negli Stati Uniti, ha lavorato alla Magneti
Marelli come direttore centrale dei laboratori scientifici e di ricerca sui
radar. In quel laboratorio si faceva veramente ricerca e da lì sono passati
diversi scienziati. Lì si è conclusa la mia esperienza professionale. L’ultimo
lavoro è stato lo studio delle telecamere a circuito chiuso per la
metropolitana milanese. Il primo ottobre del 1968 ho lasciato la fabbrica.
La Magneti
Marelli era una delle grandi aziende di Sesto San Giovanni, con 4.500
dipendenti, suddivisi in quattro stabilimenti. Durante l’ultima guerra, la
fabbrica era stata impegnata nella produzione di materiale bellico e per il
controllo delle forniture all’esercito erano presenti i militari. Ma c’erano
anche i “clandestini”, uomini che operavano nella resistenza, e anch’io sono
stato coinvolto, pur senza rendermene conto. Più volte un operaio mi chiese di
portargli un pacchetto fino alla stazione, dove lui veniva a riprenderlo. Solo
a fine conflitto ho saputo che dentro c’erano dei volantini antifascisti.
Era un’azienda
molto politicizzata, tant’è che dopo la guerra i padroni se ne sono andati e
contro di loro fu intentato un processo di epurazione per aver collaborato con
il regime fascista. Dall’ottobre 1945 al luglio del ‘46 lo stabilimento è stato
guidato dal consiglio di gestione. In quel periodo, in fabbrica, sono venuti a
fare comizi Pietro Nenni, Riccardo Lombardi e Walter Audisio, il famoso
colonnello Valerio, comandante partigiano che si suppone abbia fucilato
Mussolini.
La fabbrica è
stata per me una scuola di vita, sono cresciuto in un clima di tensione ideale
e di grande impegno. In quel periodo appartenevo all’Azione cattolica, dove si
insegnavano la preghiera, l’azione e il sacrificio.
Nel 1948 mi sono
iscritto per la prima volta al sindacato, alla Libera Cgil. Qualche anno dopo,
nel 1953, mi hanno proposto di candidarmi alla elezione della commissione
interna. Si votava tutti gli anni e ogni volta era una battaglia tra Cisl e
Cgil. A quell’epoca avevo la qualifica di intermedio. Secondo la logica di
allora, avrei dovuto stare dalla parte dell’azienda e non potevo fare il
rappresentante dei lavoratori, ma ho accettato ugualmente la candidatura. Non
ho potuto però essere votato, poiché pochi giorni prima delle elezioni è venuto
da me l’ingegnere responsabile del laboratorio dove lavoravo e mi disse che si
rendeva necessaria la mia esperienza. Dovetti così andare a Erice per le prove
di trasmissione e la scelta delle frequenze adatte al ponte radio della
televisione tra le due località di monte Erice in Sicilia e monte Serpeddi in
Sardegna. Dopo quel lungo periodo di 14 mesi trascorso in Sicilia, di
allontanamento e insieme di grande e preziosa opportunità, sono rientrato in
azienda nel 1954. Sono stato nuovamente candidato, ottenendo la maggioranza dei
voti e quella degli eletti della Cisl e sono diventato così il primo presidente
cislino della commissione interna.
Stare in
commissione interna era particolarmente impegnativo. Avevamo a disposizione
un’ora la settimana, il venerdì. Ci riunivamo l’ultima ora del turno dalle
quattro alle cinque del pomeriggio. Quando c’erano dei problemi l’incontro era
aperto. Ci era stato assegnato un ufficio vicino all’entrata di Viale Italia, a
piano terra. Tutte le sere, dopo l’orario di lavoro, rimanevo nella sede della
commissione interna. C’era sempre qualcuno che veniva a parlarmi, ma il vero
contatto con i lavoratori avveniva in mensa durante la pausa per il pranzo. Io
ho sempre frequentato la mensa degli operai anche se, come impiegato, avrei
dovuto mangiare insieme ai miei colleghi, nella mensa riservata a loro. Un
giorno mi ha mandato addirittura a chiamare il capo del personale per
domandarmi il perché della mia scelta. Io ho risposto che nella mensa degli
operai si mangiava meglio. Capì che era un pretesto, ma non mi disse più
niente. Gli impiegati erano fedeli, non scioperavano, e rompere quel tabù
voleva dire essere pericoloso. Quando andavo in mensa c’erano sempre persone che
volevano parlare con me e non riuscivo quasi mai a mangiare. Ero diventato una
sorta di confessore. Mi venivano confidati molti problemi familiari, e anche
situazioni delicate che riguardavano i rapporti di alcuni capi nei riguardi
delle ragazze. Allora, in modo discreto, riferivo al responsabile della
direzione del personale, che sapevo essere persona seria. Sul piano dei
rapporti sindacali era un duro, ma sul piano etico-morale estremamente
corretto. In seguito, due capi non si sono più visti in circolazione.
Venivo tutti i
giorni da Ronco Briantino a Sesto San Giovanni con il treno, su cui viaggiavano
molti operai della Marelli, e anche quella era un'occasione di discussione.
Inoltre, la fabbrica era su più piani, muovendosi tra i reparti ci si incontrava,
e quando mi vedevano c’era sempre qualcuno che mi chiedeva informazioni, mi
sottoponeva un problema. Era una comunicazione per contagio, si stabilivano
rapporti di fiducia.
Durante la
giornata lavoravo normalmente e difficilmente mi dedicavo al sindacato o ai
problemi dell’azienda, salvo qualche breve telefonata.
Una delle
questioni principali di cui mi sono occupato in qualità di commissario è stata
quella dei ritmi di lavoro. I tempi delle lavorazioni erano sempre troppo brevi
ed era una battaglia continua con i tempisti. Nel montaggio dei televisori e
delle radio c’erano operazioni che duravano tre, quattro secondi. Le donne,
soprattutto nei pomeriggi d’estate, svenivano per il caldo e il fumo della
pasta per saldare.
C’erano poi i
problemi dell’igiene, degli spogliatoi, dei gabinetti che avevano la porta a
metà. Posso quasi dire che la mia vocazione ad impegnarmi nel sindacato è nata
nel vedere le condizioni in cui lavoravano e per come venivano considerate le
donne.
Da presidente
della commissione interna ho gestito la battaglia vincente per ottenere il
panettone a Natale. E’ stata una grande festa.
Col passare del
tempo, attraverso accordi sindacali, vennero definiti con maggiore precisione i
compiti della commissione interna e si iniziarono a condurre delle trattative
vere e proprie. Nel mio ruolo di presidente avevo la funzione di catalizzatore
della nostra iniziativa, ma alle trattative partecipava tutta la commissione.
Affrontavamo i problemi del nostro stabilimento, ma anche le questioni del gruppo
insieme alle altre commissioni interne.
Dopo la prima
elezione la direzione non mi ha più creato problemi, perché ho sempre curato il
mio lavoro e non lo trascuravo. Anche quando nel 1955 sono entrato a far parte
dell’esecutivo provinciale della Fim, al termine degli incontri tornavo in
fabbrica, mangiavo in mensa e riprendevo il mio posto.
Segretario
provinciale era Pietro Seveso, ma c’era già Pierre Carniti che gestiva e ci
faceva rigare diritti. Eravamo in otto o dieci. Qualche anno dopo, sempre rimanendo
in fabbrica, sono stato eletto prima nel direttivo nazionale della Fim e poi
anche nel consiglio generale della Cisl di Milano.
Nel periodo della mia esperienza
in fabbrica ho partecipato a moltissimi momenti formativi organizzati dalla
Fim. In particolare, nella seconda metà degli anni cinquanta, il sabato e la
domenica, alla Gazzada. Nel 1954, su iniziativa del dott. Giancarlo Brasca,
allora direttore della biblioteca dell’Università Cattolica, si è costituito un
gruppo di collaborazione e di confronto tra “intellettuali e lavoratori”. Ci si
trovava il venerdì, dopo l’orario di lavoro, presso l’Istituto Gonzaga, in via
Vitruvio, vicino alla stazione centrale. Gli incontri, quasi settimanali,
iniziavano alle 18 e terminavano alle 20,30, in tempo per l’ultimo treno. Erano
presieduti e animati da Brasca e vi partecipavano parecchi lavoratori impegnati
nelle grandi fabbriche di Milano e Sesto San Giovanni insieme a professori
dell’Università Cattolica. Ricordo in particolare: Nino Andreatta, Siro Lombardini,
Giuseppe Dossetti, Giuseppe Lazzati, don Carlo Colombo, Ruggero Orfei, Giuseppe
Alberigo. Questa esperienza è andata avanti fino al 1958
Dopo ventisei anni di lavoro alla
Magneti Marelli, era il 1968, Carniti, che era segretario della Fim milanese, ma
si preparava ad andare a Roma nella segreteria della Cisl nazionale, venne in
fabbrica a parlarmi, proponendomi di lasciare il lavoro per entrare nella
segreteria della Fim provinciale, proposta che ho accettato non senza dubbi e
perplessità.
L’elezione a
presidente della commissione interna non fu un momento facile, perché e il
presidente che avevo sostituito non accettò di buon grado la mia elezione
arrivò a farmi telefonate minacciose. Noi della Cisl eravamo contrastati dalla
direzione e allo stesso tempo avevamo la nomea di essere “venduti ai padroni”.
Nonostante ciò, però, i lavoratori mi rispettavano e con i compagni della Cgil
in fabbrica, sul piano dei rapporti sindacali e dei problemi strettamente
aziendali, c’era accordo.
Sul terreno
sindacale la Fim era molto più sciolta rispetto ai legami che la Fiom aveva con
il Partito comunista. Nella commissione interna, sui problemi della gente,
abbiamo sempre trovato un’intesa. Questo al di là degli aspetti politici, che
comunque condizionavano l’azione sindacale. Occorre considerare che dei
componenti Fiom della commissione interna erano dirigenti del Pci a Sesto, con
un certo peso anche in fabbrica.
In Marelli era
attiva la cellula del Partito comunista, ma erano persone diverse rispetto a
quelle impegnate nel sindacato e raramente intervenivano su questioni
aziendali. C’era una vita di cellula e si trovavano la sera, ma il partito
parlava solo di questioni politiche generali.
Quando come
rappresentanti sindacali abbiamo affrontato le condizioni di lavoro, la
contrattazione sui tempi dei cottimi, sugli orari di ingresso - perché molti
venivano da lontano e bastavano pochi minuti di ritardo dell’autobus per pagare
mezzora di trattenuta - c’è sempre stato accordo perfetto, sia negli anni ’50
che ’60. Nonostante il contrasto ideologico estremamente forte, l’ambiente, la
struttura della fabbrica, lo stesso tipo di produzioni favorivano un rapporto
rispettoso delle diverse posizioni.
Non abbiamo mai
avuto problemi con la Cisl di Milano, che non ha mai contrastato le nostre
iniziative con la Fiom a livello aziendale. Eravamo rispettati, ci si fidava.
Eravamo in trincea, ma sapevamo che avevamo le spalle coperte.
Durante gli anni
trascorsi in Marelli non sono mancati episodi di forte tensione. In strada, di
fronte allo stabilimento, c’erano le bacheche dove si appendevano l’Unità,
l’Avanti e l’Italia. L’Italia, quotidiano cattolico, era
anticomunista. Passavano a lasciarlo e a turno noi lo appendevamo. Un giorno,
era il 1946, durante l’intervallo di mezzogiorno è arrivato un energumeno, ha
estratto una pistola e mi ha detto: “Tu non devi più appendere il giornale”.
Era un lavoratore della Magneti, un socialista. Gli altri lavoratori presenti
che hanno sentito e visto il gesto di questo violento lo hanno affrontato e
duramente ripreso. Dopo qualche tempo non si è più visto in fabbrica. Forse
cacciato, ma questo era il clima che si respirava in quegli anni.
Lo stesso anno
accadde un fatto grave in occasione di un incontro promosso dal nostro gruppo
cattolico in Magneti Marelli con Luigi Clerici, presidente delle nascenti Acli
milanesi. Il movimento allora era l’espressione della corrente sindacale
cristiana nella Cgil unitaria. Clerici era salito sul palco e al termine,
improvvisamente, è stato afferrato dal retropalco e picchiato perché
consideravano le Acli un’associazione scissionista. In quell’occasione il
presidente nazionale delle Acli, Achille Grandi, allora anche segretario
nazionale della Cgil, venuto a conoscenza del fatto, informò i colleghi della
segreteria confederale e scrisse una lettera ad alcuni quotidiani.
Quando hanno
attentato a Togliatti, ci sono stati contrasti interni all’area comunista, tra
l’ala politica e l’ala rivoluzionaria, e prima di andare al comizio al Rondò di
Sesto San Giovanni, si sono picchiati tra di loro nel reparto delle grosse
costruzioni radio. In piazza, Pietro Seveso, uno dei leader della corrente
cristiana, affacciato ad un balcone, molto emozionato, fece una pesante gaffe:
“Compagni – disse - hanno attentato alla vita di Alcide De Gasperi”. L’errore
ha suscitato fischi e urla, subito però sedati dai dirigenti della Cgil.
Un episodio
grave è avvenuto in occasione di uno sciopero generale indetto dalla sola Cgil.
La Fiom aveva organizzato i picchetti per impedire l’ingresso in fabbrica. Il
nostro sindacato non aveva aderito e noi della Fim, come membri di commissione
interna, per coerenza, volevamo entrare al lavoro. Io e Paolino Riva venivamo
dalla stazione, lui entrava dalla portineria operai, che si incontrava prima,
io da quella successiva degli impiegati. Lui è stato fermato e picchiato, fino
a quando si è sentito male. Ho sentito quello che stava succedendo e ho visto
che erano operai della Breda. L’hanno buttato giù dalle scale e l’hanno portato
all’ospedale. A difenderlo sono arrivati i membri della commissione interna
della Fiom, e gli operai che lavoravano con lui in attrezzeria e che lo
conoscevano per la sua coerenza nella difesa dei lavoratori. Erano sull’altro
lato della strada e sono corsi immediatamente a proteggerlo e si scatenò tra di
loro una rissa incredibile.
In un’altra
occasione, durante uno sciopero contro la Nato, in una serata nebbiosa, ci
siamo salvati grazie all’arrivo di una camionetta della Polizia, perché sulla
via Ercole Marelli, nella zona dove
c’era la sede del cral della Ercole Marelli e una cascina, c’era gente con
l’intento di picchiare chi non aveva aderito allo sciopero. Anche quella volta
non erano della nostra fabbrica e probabilmente venivano dalla Breda.
Ricordo che i
contadini di quella cascina erano gli ultimi rimasti nella Sesto “città
operaia”.
Alla Magneti
Marelli è venuto in visita l’arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini,
per inaugurare il reparto che produceva televisori dedicato a Santa Chiara. La
Magneti Marelli è stata la prima grande fabbrica italiana a costruire
televisori. Il legame con Santa Chiara deriva dalla sua vita. Si racconta
infatti che nella notte di Natale del 1252, mentre si celebrava la messa nella
basilica San Francesco e lei inferma giù nella chiesa di San Damiano, la santa
ha avuto una visione come se fosse presente alla celebrazione. Da lì è nata
l’idea di collegare quel fatto alla televisione, che permette di vedere fatti
che avvengono lontano da noi, e quindi di dedicare il reparto a Santa Chiara.
Nel reparto venne esposto un quadro della santa donato dall’arcivescovo
Montini. Era il 29 gennaio 1955. Nel reparto tirato a lucido dalle donne
richiamate dalla cassa integrazione, il futuro Papa Paolo VI ha fatto un
discorso d’avanguardia, ma l’ufficio stampa dell’azienda ha dato ai giornalisti
un testo diverso da quello letto, censurato in alcune parti ritenute scomode.
Montini, saputo della cosa, rientrato in Curia ha distribuito alla stampa il
testo completo. In quell’occasione, presente la proprietà e l’intero gruppo
dirigente, è intervenuto a nome dei lavoratori Michele Palma, della commissione
interna.
Davanti alla
Magneti Marelli c’era la chiesa del Redentore e tutte le mattine, prima di
andare in fabbrica, alle sette e mezzo mi trovavo insieme ad altri lavoratori
credenti. C’era un sacerdote che mi stimolava ad impegnarmi e prendeva parte
anche lui alle manifestazioni. Abitava in un condominio, non in parrocchia. Si
chiamava don Silvano Terragni e gli operai, per questo suo comportamento, dicevano
che era un prete diverso dagli altri.
Il suo sostegno
ci è stato utile in molte occasioni, come nel caso delle nostre critiche all’Italia.
Noi lo diffondevamo, ma il quotidiano dei cattolici ignorava completamente i
problemi del lavoro, anzi qualche volta riportava posizioni esattamente
contrarie, perché giudicava i fatti in termini ideologici. Lo appendevamo in
bacheca, ma c’era una differenza enorme con l’Unità e l’Avanti,
nella cronaca dei fatti che si verificavano nelle fabbriche. Ne abbiamo discusso
con don Silvano e lui ha organizzato un incontro con il direttore del
quotidiano, mons. Ernesto Pisoni, e il vescovo vicario generale della diocesi,
mons. Sergio Pignedoli. Una sera, a casa di don Silvano, noi della Magneti
abbiamo espresso le nostre valutazioni sul quotidiano. Eravamo disarmati, senza
voce. Pisoni non riusciva a difendersi e al termine dell’incontro mons.
Pignedoli, rivolgendosi a mons. Pisoni, gli disse: “Ha capito?”.
Non che dopo il
giornale sia cambiato molto. Ma è stato importante incontrarli a Sesto San
Giovanni, a casa di don Silvano. Era il segno dell’attenzione di Montini ai
problemi del lavoro.
Anche i
“paolotti” di Sesto San Giovanni non condividevano molto ciò che noi facevamo
in azienda insieme alla Fiom. La segretaria del direttore del personale era
sestese, sentiva tutti i dialoghi che facevamo tra rappresentanti sindacali e
direttore del personale e lei in quei momenti pregava. Dietro la scrivania del
direttore, sulla parete, c’era un grande crocifisso e qualche volta nasceva in
me il cattivo pensiero che avrebbe dovuto caderle in testa.
Un ultimo
ricordo. I lavoratori apprezzavano particolarmente due momenti religiosi: la
benedizione natalizia, con la presenza del sacerdote nei luoghi di lavoro, e il
venerdì santo. Questi due momenti venivano significativamente ricordati
custodendo, bene in vista, le immaginette sui banchi di lavoro, sulle macchine
e sulle scrivanie. Il venerdì santo distribuivo l’immaginetta con la preghiera
all’ingresso della portineria degli impiegati. Per questa semplice
testimonianza, come per tutti gli altri impegni di credente, non sono mai stato
attaccato né criticato, ma dopo molti anni, incontrando compagni e amici di
lavoro, mi vengono benevolmente ricordati.