Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Gli anni caldi dei metalmeccanici bresciani”, di Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma 2005
Omc è un’azienda meccanica
che produce iniettori per motori diesel, marini e movimento terra. Si trova a
Cazzago. E’ morta e poi è rinata come Omc2. Quando è sorta la prima volta nel
'61, essendo una zona depressa, ha utilizzato parte dei locali del Municipio
per avviare la produzione. Erano circa trenta operai. Io sono entrato alla fine
del '62. Ad agosto di quell’anno l'azienda si era trasferita in un capannone
nuovo nella zona industriale del paese.
L’azienda è cresciuta con 130
dipendenti, con moltissima manodopera femminile, fino a quando nel '76 ha
cambiato proprietà, ed è entrato del capitale straniero, tedesco e svizzero,
mentre i vecchi proprietari hanno tenuto un pacchetto di minoranza, anche se la
gestione è rimasta ancora nelle loro mani. Di fatto vennero create due linee di
produzione: una prima, con particolari controlli di qualità, affidati ai
rappresentati stranieri, che andava all’estero, e una seconda, destinata al
mercato nazionale e ai ricambi, in parte per la Fiat ma soprattutto per i
rivenditori italiani. La seconda aveva il marchio Omc, mentre quella che andava
all’estero aveva un altro marchio.
Sono rimasto alla Omc fino
al suo fallimento che è avvenuto a fine ’99. Abbiamo fatto alcuni mesi di
assemblea permanente poi c’è stata la mobilità e, avendo maturato i 34 anni e 6
mesi, la legge mi ha consentito di andare in pensione.
Tutta la mia vita di lavoro
si è svolta alla Omc. Quando sono entrato ho fatto cinque anni di
apprendistato. Venivo da una famiglia contadina e il mio passaggio è stato
obbligato perché il proprietario del fondo che lavoravamo a mezzadria ha
rifiutato di pagare la quota maggiore che la legge prevedeva per il conduttore,
sono nate delle discussioni e la mia famiglia ha dovuto lasciare i terreni.
Eravamo quattro fratelli, io sono il maggiore, e a quel punto abbiamo dovuto
cercare un nuovo lavoro e io sono entrato alla Omc.
Ho iniziato come apprendista
rettificatore che avevo appena compiuto 18 anni, e sono arrivato alla fine del
mio percorso che prevedeva l’accoppiamento con grande precisione dell’ago con
l’iniettore, con le caratteristiche di qualità richieste.
Ho fatto la quinta
elementare e poi la terza media con le 150 ore.
Prima di incontrare il
sindacato, ho vissuto momenti di conflittualità quando mi sono rifiutato di
lavorare nella giornata del sabato santo del 1965. In quell’azienda era
consuetudine lavorare tutto il sabato e la domenica mattina e in quella fase
era difficile dire di no. Ma quell'anno in otto, cinque donne e tre uomini, ci
siamo rifiutati di lavorare quel giorno perché pensavano non fosse giusto. Ci
siamo ritrovati fuori dalla fabbrica con il titolare dell’azienda, che era una
persona verbalmente molto violenta che ci minacciava di lasciarci a casa.
Nonostante le minacce non siamo entrati, ma il martedì dopo Pasqua, quando siamo
entrati in fabbrica, i nostri cartellini non c’erano. Non sapevamo bene come
comportarci, ma lavorare senza timbrare il cartellino voleva dire non essere
pagati e quindi siamo usciti. In seguito a questo alcuni di noi sono stati
sospesi, mentre altri no. Io ero tra quelli sospesi. Questa decisione ci ha
divisi. La sospensione era di sette giorni, ma dopo un paio di giorni ci hanno
fatto rientrare tutti.
Dopo questa vicenda ho
cominciato a chiedermi come ci si potesse difendere da simili comportamenti. Passato
oltre un anno, un giorno davanti ai cancelli della fabbrica comparve un
sindacalista della Fim con una Cinquecento con sopra due cartelli che
invitavano allo sciopero. Erano le cinque e mezzo di sera, all’uscita, questi
ci ha chiamato e un gruppetto di noi si è fermato.
Io ero impegnato in gioventù
aclista e questo mi aveva permesso di conoscere il sindacato, capire che
compiti aveva, come si organizzava nelle grandi fabbriche. La prima domanda che
abbiamo fatto al sindacalista era riferita proprio alla vicenda del sabato
santo, chiedendogli se il padrone poteva fare una cosa del genere. Dopo una
chiacchierata ci disse che gli sarebbe piaciuto incontrasi con noi, dove
volevamo, per parlare del rinnovo del contratto nazionale di lavoro. Era il
1966. In quell’occasione ci propose di fare la tessera del sindacato e io sono
stato l’unico che decise di iscriversi. E per lungo tempo quella è stata
l’unica tessera del sindacato entrata in azienda, neppure i miei amici e amiche
che erano stati sospesi insieme a me. E se ce n’erano altri, non si mostravano.
Anche se nelle discussioni che avvenivano tra di noi qualcuno mostrava simpatia
per la Cgil piuttosto che per la Cisl.
In occasione del rinnovo del
contratto del ’69, un giorno venne da me un sindacalista della Fim, Volpagni,
dicendo che voleva organizzare un’assemblea unitaria insieme alla Fiom. Siccome
non si poteva organizzarle in fabbrica, l’abbiamo fatta la circolo Acli del mio
paese. La sala ci era stata data dal curato, ma questi, essendo conoscente del
titolare dell’azienda, lo aveva avvisato e così lui si è presentato alla
riunione per dire la sua. Si prese la parola, urlando e minacciando uno per
uno. A quel punto il sindacalista lo cacciò in malo modo. Intervenne il gestore
del locale, nel tentativo di calmare le acque, dicendo che nessuno poteva
essere cacciato da un esercizio pubblico, ma Volpagni si rese conto che se lo
lasciva continuare l’assemblea si sarebbe sciolta e non si sarebbe costruito
più nulla.
Il mio stato d’animo dopo
quell'incontro era di grandissima paura per il rischio di ritorsioni, ma in
quell’occasione iniziammo a raccogliere le iscrizioni al sindacato unitario,
alla Flm, e io mi assunsi l’impegno di fare tesseramento dentro la fabbrica.
Ero preoccupato perché capivo il valore delle iniziative sindacali, delle lotte
che si facevano in altre aziende, ma li dentro finora ero stato l’unico e
temevo per cosa avrebbe potuto accadere il giorno dopo in fabbrica. Ma la
sensibilità sociale che avevo acquisito in quegli anni all’interno di gioventù
aclista era tale che superai ogni preoccupazione, convinto che fosse giusto
proseguire per quella strada. Una preoccupazione che si è attenuata solo con il
diritto del sindacato ad entrare in fabbrica e l’elezione dei delegati.
L’atteggiamento rigido e
deciso del sindacalista aveva dato una scossa ai lavoratori e il giorno dopo se
ne parlava liberamente nei reparti. Era la prima volta che accadeva e si
percepiva che il clima era cambiato, la gente era stata galvanizzata e non
aveva più paura. Forse avevano capito che si poteva reagire ed erano stufi di
una situazione che diventava sempre più pesante e si facevano forti del fatto
che finalmente avevano trovato qualcuno che li difendeva.
Nel 1972 al mio paese è
stata creata la scuola Don Milani che iniziò a fare dei corsi di 150 ore per la
terza media cui parteciparono persone di ogni tipo, casalinghe o altro, mentre
l’anno successivo, quello cui ho preso parte anch’io parteciparono tutti operai
di varie fabbriche della zona. La raccolta delle adesioni era passata
attraverso il sindacato.
Ho partecipato a numerose
iniziative di formazione, oltre che a dibattiti. Sono stato a Firenze un paio
di volte con Carniti.
Quando abbiamo iniziato a
fare tesseramento separatamente il clima era di grandissima tensione perché noi
eravamo costretti a difendere un modo di fare sindacato che era quello della
contrattazione, mentre dall’altra parte, complice il clima esterno, era troppo
facile fare i massimalisti. Eravamo consapevoli che non si poteva andare avanti
insieme, ma sapevamo anche che all’interno della fabbrica loro avrebbero avuto
gioco facile perché i lavoratori quando si trovavano a discutere nel concreto
della contrattazione aziendale, ne ragionavano ed erano disposti alle
necessarie mediazioni, ma sulle questioni generali, dove le persone non sono
coinvolte direttamente e in prima persona, il massimalismo era più facile che
attecchisse. Noi dovevamo spiegare ai lavoratori che la Fim aveva
caratteristiche diverse, che il nostro impegno era sulle cose concrete, nella
difesa delle persone sul tema dell’ambiente, della mensa interaziendale, ma non
era facile. Lo abbiamo dovuto fare in fretta, senza molto tempo a disposizione,
di corsa, in tempi prestabiliti. Il
risultato fu che la Fim si ritrovò molto inferiore rispetto alla Fiom. Dentro
di me riflettevo: siamo quelli che hanno lavorato, si sono dati da fare e poi
questo è il risultato. Nonostante l’esito, nella gestione concreta la Fiom non
è mai riuscita a fare da sola, semmai ci contrastava per fare tessere, ma se la
Fim si opponeva loro ci accusavano di essere venduti, di essere legati alla
Democrazia cristiana.
Mensa interaziendale. In
quella vicenda fummo accusati di essere legati all’amministrazione perché non
era disposta a mettere a disposizione un’area per la mensa. Era
un’argomentazione fittizia, la verità era che la nostra azienda si opponeva
alla realizzazione di una mensa interaziendale. Noi non siamo riusciti ad
ottenerla, anche perché nel frattempo l’azienda più grande si era arrangiata da
sola.
Io ero d’accordo con
l’intesa di San Valentino ed ero in disaccordo con gli amici della Om. In quel
periodo facevo parte del direttivo provinciale della Fim. Nella mia azienda ci
sono stati dibattiti aspri, ma sempre corretti. Alla Omc è passata la linea
contraria all’accordo, anche se alla manifestazione di piazza San Giovanni a
Roma dalla mia azienda non è andato nessuno. I compagni della Fiom ci
rimproveravano dicendo che gli amici della Om erano Fim anche loro eppure
avevano assunto una posizione diversa.
Salvo gli ultimissimi
periodi, nel '98, '99 (sono andato in pensione nel duemila) per quanto riguarda
le vertenze aziendali abbiamo sempre trovato un punto di sintesi comune. Nel
momento in cui si discuteva se chiedere l’amministrazione controllata o trovare
qualche acquirente che potesse garantire la riconversione c'erano contrasti, in
assemblea ci sono stati anche episodi pesanti. Noi sostenevamo che si potesse
cercare una soluzione che assicurasse il futuro all’azienda, magri anche
attraverso una riduzione contrattata del personale, invece vinse il
massimalismo di chi diceva o tutti o nessuno. A quel punto la proprietà ha
deciso la chiusura ed è stato avviato la procedura fallimentare. Finito il
percorso fallimentare, l’azienda ha riaperto un paio d’anni fa, con proprietari
in parte diversi: il fondatore e primo proprietario, due capi reparto della
vecchia gestione e altri.
Mia moglie ha condiviso le
mie scelte, ci siamo conosciuti durante una riunione alle Acli e ci siamo
fidanzati durante l’occupazione della
sua azienda. Nella mia famiglia, invece, il mio impegno non era ben visto. Mio
padre non sopportava le discussioni che facevo con una sorella e un fratello
anch’essi impegnati nel sindacato. A tavola si discuteva solo di lavoro,
fabbriche, sindacato e questo lo infastidiva perché diceva che non c’era mai
spazio per parlare d’altro. Richiamava i figli dicendo che dovevano occuparsi
di casa loro e non solo dei problemi degli altri.
Il giorno di Piazza della
Loggia ero sotto il palco insieme a mio fratello, nelle prime file e mio
fratello che aveva fatto il militare ha capito subito che si trattava di una
bomba, ma io nel primissimo momento non mi sono reso conto della gravità di
quanto fosse successo. Ho sentito le parole di Castrezzati che invitava alla
calma e diceva di andare in mezzo alla piazza, e noi ci siamo andati, mentre il sindaco Boni, che era accanto a
noi, dopo avere parlato con alcune persone è andato immediatamente verso il
Municipio. Si aveva paura che potessero esserci altre esplosioni, c’era chi
diceva che dovevamo allontanarci e la confusione a quel punto ha preso il
sopravvento. Ho cercato di avvicinarmi a dove era esplosa la bomba, ma non ci
sono riuscito. In pochi minuti, infatti, si era fatto un cordone intorno al luogo
dove c’era stata l’esplosione, ma era impossibile avvicinarsi. Allora ce ne
siamo andati a casa e poi tornare in fabbrica per proseguire lo sciopero. Cosa
fosse accaduto effettivamente l’ho saputo solo dai telegiornali. Mia moglie era
a casa con la seconda figlia nata da poco, mio fratello lavorava con me.
Lasciata gioventù aclista
non ho mai avuto altri impegni al di fuori del sindacato. Ora che sono
pensionato, invece, sono impegnato “a far crescere qualche fiorellino nei
prati”, sono impegnato in politica al mio paese.
Mi piace cantare musica
sacra, faccio parte di una corale. Ho iniziato una decina d’anni fa. Siamo
stati a cantare all’Onu, in Germania, in Austria.
Sono stato nel direttivo
della Fim, più d’una volta mi hanno proposto di fare l’operatore, ma ho sempre
rifiutato, soprattutto perché sentivo l’esigenza di stare vicino alla famiglia.
Mia moglie faceva e i turni e questo ci ha aiutato, ma quando lei non c’era io
dovevo stare a casa con loro.