venerdì 15 maggio 2020

PASQUALE VIANELLI - Omc – Cazzago (Bs)

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Gli anni caldi dei metalmeccanici bresciani”, di Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma 2005

Omc è un’azienda meccanica che produce iniettori per motori diesel, marini e movimento terra. Si trova a Cazzago. E’ morta e poi è rinata come Omc2. Quando è sorta la prima volta nel '61, essendo una zona depressa, ha utilizzato parte dei locali del Municipio per avviare la produzione. Erano circa trenta operai. Io sono entrato alla fine del '62. Ad agosto di quell’anno l'azienda si era trasferita in un capannone nuovo nella zona industriale del paese. 

L’azienda è cresciuta con 130 dipendenti, con moltissima manodopera femminile, fino a quando nel '76 ha cambiato proprietà, ed è entrato del capitale straniero, tedesco e svizzero, mentre i vecchi proprietari hanno tenuto un pacchetto di minoranza, anche se la gestione è rimasta ancora nelle loro mani. Di fatto vennero create due linee di produzione: una prima, con particolari controlli di qualità, affidati ai rappresentati stranieri, che andava all’estero, e una seconda, destinata al mercato nazionale e ai ricambi, in parte per la Fiat ma soprattutto per i rivenditori italiani. La seconda aveva il marchio Omc, mentre quella che andava all’estero aveva un altro marchio.

Sono rimasto alla Omc fino al suo fallimento che è avvenuto a fine ’99. Abbiamo fatto alcuni mesi di assemblea permanente poi c’è stata la mobilità e, avendo maturato i 34 anni e 6 mesi, la legge mi ha consentito di andare in pensione.
Tutta la mia vita di lavoro si è svolta alla Omc. Quando sono entrato ho fatto cinque anni di apprendistato. Venivo da una famiglia contadina e il mio passaggio è stato obbligato perché il proprietario del fondo che lavoravamo a mezzadria ha rifiutato di pagare la quota maggiore che la legge prevedeva per il conduttore, sono nate delle discussioni e la mia famiglia ha dovuto lasciare i terreni. Eravamo quattro fratelli, io sono il maggiore, e a quel punto abbiamo dovuto cercare un nuovo lavoro e io sono entrato alla Omc.
Ho iniziato come apprendista rettificatore che avevo appena compiuto 18 anni, e sono arrivato alla fine del mio percorso che prevedeva l’accoppiamento con grande precisione dell’ago con l’iniettore, con le caratteristiche di qualità richieste.
Ho fatto la quinta elementare e poi la terza media con le 150 ore.

Prima di incontrare il sindacato, ho vissuto momenti di conflittualità quando mi sono rifiutato di lavorare nella giornata del sabato santo del 1965. In quell’azienda era consuetudine lavorare tutto il sabato e la domenica mattina e in quella fase era difficile dire di no. Ma quell'anno in otto, cinque donne e tre uomini, ci siamo rifiutati di lavorare quel giorno perché pensavano non fosse giusto. Ci siamo ritrovati fuori dalla fabbrica con il titolare dell’azienda, che era una persona verbalmente molto violenta che ci minacciava di lasciarci a casa. Nonostante le minacce non siamo entrati, ma il martedì dopo Pasqua, quando siamo entrati in fabbrica, i nostri cartellini non c’erano. Non sapevamo bene come comportarci, ma lavorare senza timbrare il cartellino voleva dire non essere pagati e quindi siamo usciti. In seguito a questo alcuni di noi sono stati sospesi, mentre altri no. Io ero tra quelli sospesi. Questa decisione ci ha divisi. La sospensione era di sette giorni, ma dopo un paio di giorni ci hanno fatto rientrare tutti.
Dopo questa vicenda ho cominciato a chiedermi come ci si potesse difendere da simili comportamenti. Passato oltre un anno, un giorno davanti ai cancelli della fabbrica comparve un sindacalista della Fim con una Cinquecento con sopra due cartelli che invitavano allo sciopero. Erano le cinque e mezzo di sera, all’uscita, questi ci ha chiamato e un gruppetto di noi si è fermato.
Io ero impegnato in gioventù aclista e questo mi aveva permesso di conoscere il sindacato, capire che compiti aveva, come si organizzava nelle grandi fabbriche. La prima domanda che abbiamo fatto al sindacalista era riferita proprio alla vicenda del sabato santo, chiedendogli se il padrone poteva fare una cosa del genere. Dopo una chiacchierata ci disse che gli sarebbe piaciuto incontrasi con noi, dove volevamo, per parlare del rinnovo del contratto nazionale di lavoro. Era il 1966. In quell’occasione ci propose di fare la tessera del sindacato e io sono stato l’unico che decise di iscriversi. E per lungo tempo quella è stata l’unica tessera del sindacato entrata in azienda, neppure i miei amici e amiche che erano stati sospesi insieme a me. E se ce n’erano altri, non si mostravano. Anche se nelle discussioni che avvenivano tra di noi qualcuno mostrava simpatia per la Cgil piuttosto che per la Cisl.

In occasione del rinnovo del contratto del ’69, un giorno venne da me un sindacalista della Fim, Volpagni, dicendo che voleva organizzare un’assemblea unitaria insieme alla Fiom. Siccome non si poteva organizzarle in fabbrica, l’abbiamo fatta la circolo Acli del mio paese. La sala ci era stata data dal curato, ma questi, essendo conoscente del titolare dell’azienda, lo aveva avvisato e così lui si è presentato alla riunione per dire la sua. Si prese la parola, urlando e minacciando uno per uno. A quel punto il sindacalista lo cacciò in malo modo. Intervenne il gestore del locale, nel tentativo di calmare le acque, dicendo che nessuno poteva essere cacciato da un esercizio pubblico, ma Volpagni si rese conto che se lo lasciva continuare l’assemblea si sarebbe sciolta e non si sarebbe costruito più nulla.
Il mio stato d’animo dopo quell'incontro era di grandissima paura per il rischio di ritorsioni, ma in quell’occasione iniziammo a raccogliere le iscrizioni al sindacato unitario, alla Flm, e io mi assunsi l’impegno di fare tesseramento dentro la fabbrica. Ero preoccupato perché capivo il valore delle iniziative sindacali, delle lotte che si facevano in altre aziende, ma li dentro finora ero stato l’unico e temevo per cosa avrebbe potuto accadere il giorno dopo in fabbrica. Ma la sensibilità sociale che avevo acquisito in quegli anni all’interno di gioventù aclista era tale che superai ogni preoccupazione, convinto che fosse giusto proseguire per quella strada. Una preoccupazione che si è attenuata solo con il diritto del sindacato ad entrare in fabbrica e l’elezione dei delegati.
L’atteggiamento rigido e deciso del sindacalista aveva dato una scossa ai lavoratori e il giorno dopo se ne parlava liberamente nei reparti. Era la prima volta che accadeva e si percepiva che il clima era cambiato, la gente era stata galvanizzata e non aveva più paura. Forse avevano capito che si poteva reagire ed erano stufi di una situazione che diventava sempre più pesante e si facevano forti del fatto che finalmente avevano trovato qualcuno che li difendeva.

Nel 1972 al mio paese è stata creata la scuola Don Milani che iniziò a fare dei corsi di 150 ore per la terza media cui parteciparono persone di ogni tipo, casalinghe o altro, mentre l’anno successivo, quello cui ho preso parte anch’io parteciparono tutti operai di varie fabbriche della zona. La raccolta delle adesioni era passata attraverso il sindacato.
Ho partecipato a numerose iniziative di formazione, oltre che a dibattiti. Sono stato a Firenze un paio di volte con Carniti.

Quando abbiamo iniziato a fare tesseramento separatamente il clima era di grandissima tensione perché noi eravamo costretti a difendere un modo di fare sindacato che era quello della contrattazione, mentre dall’altra parte, complice il clima esterno, era troppo facile fare i massimalisti. Eravamo consapevoli che non si poteva andare avanti insieme, ma sapevamo anche che all’interno della fabbrica loro avrebbero avuto gioco facile perché i lavoratori quando si trovavano a discutere nel concreto della contrattazione aziendale, ne ragionavano ed erano disposti alle necessarie mediazioni, ma sulle questioni generali, dove le persone non sono coinvolte direttamente e in prima persona, il massimalismo era più facile che attecchisse. Noi dovevamo spiegare ai lavoratori che la Fim aveva caratteristiche diverse, che il nostro impegno era sulle cose concrete, nella difesa delle persone sul tema dell’ambiente, della mensa interaziendale, ma non era facile. Lo abbiamo dovuto fare in fretta, senza molto tempo a disposizione, di corsa, in tempi prestabiliti.  Il risultato fu che la Fim si ritrovò molto inferiore rispetto alla Fiom. Dentro di me riflettevo: siamo quelli che hanno lavorato, si sono dati da fare e poi questo è il risultato. Nonostante l’esito, nella gestione concreta la Fiom non è mai riuscita a fare da sola, semmai ci contrastava per fare tessere, ma se la Fim si opponeva loro ci accusavano di essere venduti, di essere legati alla Democrazia cristiana.

Mensa interaziendale. In quella vicenda fummo accusati di essere legati all’amministrazione perché non era disposta a mettere a disposizione un’area per la mensa. Era un’argomentazione fittizia, la verità era che la nostra azienda si opponeva alla realizzazione di una mensa interaziendale. Noi non siamo riusciti ad ottenerla, anche perché nel frattempo l’azienda più grande si era arrangiata da sola.

Io ero d’accordo con l’intesa di San Valentino ed ero in disaccordo con gli amici della Om. In quel periodo facevo parte del direttivo provinciale della Fim. Nella mia azienda ci sono stati dibattiti aspri, ma sempre corretti. Alla Omc è passata la linea contraria all’accordo, anche se alla manifestazione di piazza San Giovanni a Roma dalla mia azienda non è andato nessuno. I compagni della Fiom ci rimproveravano dicendo che gli amici della Om erano Fim anche loro eppure avevano assunto una posizione diversa.

Salvo gli ultimissimi periodi, nel '98, '99 (sono andato in pensione nel duemila) per quanto riguarda le vertenze aziendali abbiamo sempre trovato un punto di sintesi comune. Nel momento in cui si discuteva se chiedere l’amministrazione controllata o trovare qualche acquirente che potesse garantire la riconversione c'erano contrasti, in assemblea ci sono stati anche episodi pesanti. Noi sostenevamo che si potesse cercare una soluzione che assicurasse il futuro all’azienda, magri anche attraverso una riduzione contrattata del personale, invece vinse il massimalismo di chi diceva o tutti o nessuno. A quel punto la proprietà ha deciso la chiusura ed è stato avviato la procedura fallimentare. Finito il percorso fallimentare, l’azienda ha riaperto un paio d’anni fa, con proprietari in parte diversi: il fondatore e primo proprietario, due capi reparto della vecchia gestione e altri.

Mia moglie ha condiviso le mie scelte, ci siamo conosciuti durante una riunione alle Acli e ci siamo fidanzati durante  l’occupazione della sua azienda. Nella mia famiglia, invece, il mio impegno non era ben visto. Mio padre non sopportava le discussioni che facevo con una sorella e un fratello anch’essi impegnati nel sindacato. A tavola si discuteva solo di lavoro, fabbriche, sindacato e questo lo infastidiva perché diceva che non c’era mai spazio per parlare d’altro. Richiamava i figli dicendo che dovevano occuparsi di casa loro e non solo dei problemi degli altri.

Il giorno di Piazza della Loggia ero sotto il palco insieme a mio fratello, nelle prime file e mio fratello che aveva fatto il militare ha capito subito che si trattava di una bomba, ma io nel primissimo momento non mi sono reso conto della gravità di quanto fosse successo. Ho sentito le parole di Castrezzati che invitava alla calma e diceva di andare in mezzo alla piazza, e noi ci siamo andati,  mentre il sindaco Boni, che era accanto a noi, dopo avere parlato con alcune persone è andato immediatamente verso il Municipio. Si aveva paura che potessero esserci altre esplosioni, c’era chi diceva che dovevamo allontanarci e la confusione a quel punto ha preso il sopravvento. Ho cercato di avvicinarmi a dove era esplosa la bomba, ma non ci sono riuscito. In pochi minuti, infatti, si era fatto un cordone intorno al luogo dove c’era stata l’esplosione, ma era impossibile avvicinarsi. Allora ce ne siamo andati a casa e poi tornare in fabbrica per proseguire lo sciopero. Cosa fosse accaduto effettivamente l’ho saputo solo dai telegiornali. Mia moglie era a casa con la seconda figlia nata da poco, mio fratello lavorava con me.

Lasciata gioventù aclista non ho mai avuto altri impegni al di fuori del sindacato. Ora che sono pensionato, invece, sono impegnato “a far crescere qualche fiorellino nei prati”, sono impegnato in politica al mio paese.
Mi piace cantare musica sacra, faccio parte di una corale. Ho iniziato una decina d’anni fa. Siamo stati a cantare all’Onu, in Germania, in Austria.
Sono stato nel direttivo della Fim, più d’una volta mi hanno proposto di fare l’operatore, ma ho sempre rifiutato, soprattutto perché sentivo l’esigenza di stare vicino alla famiglia. Mia moglie faceva e i turni e questo ci ha aiutato, ma quando lei non c’era io dovevo stare a casa con loro.