Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Dall’oratorio alla fabbrica. Il sindacato bianco nella Stalingrado d’Italia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007
Sono nato il 21.3.1949, a Viadana, in provincia di Mantova. Diplomato in ragioneria, ho iniziato a lavorare in nero come impiegato in un mobilificio della zona di Lissone, un posto che mi avevano trovato degli amici con cui giocavo a pallone. Alla fine del 1969 sono entrato in Ercole Marelli.
Quando sono
stato assunto la fabbrica produceva impianti siderurgici, impianti di energia e
di trazione ferroviaria. Si costruiva quasi tutto su licenza. Aveva anche una
parte dedicata alle produzioni di ventilatori e motori di piccole dimensioni. A
fine anni ’70 è entrata in crisi in seguito all’abbandono del nucleare.
In precedenza la
famiglia Marelli aveva ceduto l’azienda a Nocivelli, che aveva scommesso sul
nucleare. Era il titolare, insieme al fratello, della Ocean di Brescia. Appena
arrivato aveva iniziato un processo di ristrutturazione, soprattutto nel campo
dell’energia. Fallito il nucleare l’azienda ha cominciato a entrare in uno
stato di crisi, fino ad arrivare al
commissariamento per scongiurare il fallimento e tentare il rilancio. Nocivelli
è stato messo da parte, il governo ha nominato un commissario e da quel momento
è iniziata la fase di smembramento. Sono nati così diversi spezzoni: energia,
trazione (treni e metropolitane), piccole produzioni. Sono state create tre
sezioni che sono poi state vendute separatamente a imprese diverse. Le piccole
produzioni sono passate all’Ansaldo ed è stata la prima sezione che ha cessato
la produzione. Energia e impiantistica sono finite al Tecnomasio Brown Boeri.
La trazione, dove lavoravo io, è stata presa da un gruppo privato col nome
Firema. E’ rimasta a Sesto fino a quattro anni fa, poi si è trasferita a
Milano, presso il deposito delle Fs vicino a via Barzaghi.
Ho lavorato
quasi sempre in amministrazione, prima ai fornitori e poi all’ufficio brevetti.
Quando la Marelli è stata commissariata e ho lasciato la responsabilità
sindacale, ho iniziato a occuparmi di contabilità industriale e di controllo di
gestione e l’ho fatto fino a quando sono andato in pensione.
Il sindacato
l’ho incontrato il primo giorno che sono entrato in Ercole Marelli, quando dopo
neanche cinque ore mi hanno buttato fuori con un corteo interno. Non sapevo
niente, mi hanno preso e fatto uscire. Erano scioperi per il rinnovo del contratto
nazionale di lavoro del 1969, un contratto che i lavoratori della Ercole
Marelli hanno respinto.
Ho iniziato ad
impegnarmi nel sindacato a metà degli anni ’70. Non mi sono iscritto subito,
perché facevo parte di un gruppo extraparlamentare, ero critico nei confronti
dei delegati sindacali e sostenevo la partecipazione diretta, ma nonostante
questo, attraverso l’esperienza dei Cub, sono arrivato al sindacato. Mi sono
iscritto alla Fim Cisl nel ‘73. Sono diventato delegato per gli impiegati nel
’75 e poco dopo sono entrato nell’esecutivo del consiglio di fabbrica e del
coordinamento di gruppo. Eravamo una cinquantina di delegati in rappresentanza
di circa 2400 lavoratori. Ho fatto parte del direttivo provinciale della Fim.
Sono stato
delegato fino a quando la trazione è stata ceduta, ma sono sempre rimasto
iscritto. In quell’occasione ho fatto la scelta di non uscire come operatore,
come mi era stato proposto, e sono andato a lavorare a Milano. Ho fatto di
nuovo il delegato in Firema, prima di andare in pensione, perché non c’era più
niente, gli anziani se n’erano andati, le iscrizioni erano calate, nessuno
voleva più impegnarsi e così ho finito la mia carriera da delegato riuscendo a
far scioperare gli impiegati sul premio di rendimento, dopo quasi 7 anni di
cassa integrazione.
I rapporti con
la Fiom, nella fase in cui ero impegnato nella sinistra extraparlamentare,
furono molto aspri, con scontri abbastanza duri. Cercavano di impedirci di fare
qualsiasi attività politica. A volte diventava un problema anche distribuire un
volantino, perché nascevano scontri con gli attivisti sindacali e, ancora di
più, con i militanti del Pci.
In fabbrica
c’erano più cellule, una per ogni stabilimento. Prevalentemente i dirigenti
erano gli stessi della Fiom, se non proprio il segretario della cellula, ma
quasi tutti gli attivisti erano delegati sindacali. L’identificazione col
partito era molto forte, era prevalente la logica del partito anche all’interno
del sindacato. Le stesse votazioni dei delegati erano condizionate
politicamente: la Fiom era comunista, la Uilm era socialista. Era la cellula
che decideva la linea sindacale e i delegati come riferimento non avevano la
Fiom e nemmeno il consiglio di fabbrica. Il cdf era il luogo dove si andava a
portare la linea del partito.
Anche noi della
Cisl ci abbiamo messo del nostro e spesso il nostro era un atteggiamento di
pregiudizio nei confronti dei militanti della Fiom e, soprattutto, del Partito
comunista. Questo portava spesso a scontri politicamente aspri. Avevamo anche
qualcuno di Potere operaio che accusava l’esecutivo del consiglio di fabbrica
di frenare le rivendicazioni.
Personalmente ho
sempre avuto una buona accoglienza e da delegato non ho mai avuto i bastoni fra
le ruote. Neppure da parte di qualcuno che qualche anno prima quasi mi prendeva
a botte. Ho trovato una grossa umanità. Un po’ rigida dal punto di vista
ideologico, ma erano persone con una ricchezza personale molto forte. C’è
sempre stata una certa diffidenza di fondo, ma questo non ha mai portato a rotture,
non siamo mai arrivati a livelli estremi. Probabilmente questo era dovuto alla
particolare situazione di crisi che si è creata in azienda a partire dalla metà
degli anni ’70 ed è andata avanti per quasi dieci anni. Quindi anche i periodi
travagliati, di rottura sindacale, sono stati vissuti in modo abbastanza
distaccato. Per mesi e mesi abbiamo ricevuto solo un acconto sullo stipendio.
Abbiamo organizzato tantissime iniziative per sostenere la nostra situazione e
su queste siamo quasi sempre riusciti a trovare un’intesa. Le battaglie
generali influenzavano poco la realtà aziendale.
Il nostro
direttore del personale, Renato Briano, è stato ucciso dalla Brigate rosse
sulla metropolitana, il 12 novembre 1980. E’ stato un dramma che ha pesato
enormemente su ciascuno di noi. Non mi rendevo conto di cosa avrebbe potuto
accadere. Era una fase in cui il sindacato in qualche modo aveva in mano la
fabbrica, c’erano i blocchi delle merci e le banche, per sbloccare i pagamenti,
si rivolgevano direttamente a noi e non alla direzione per far uscire qualche
prodotto finito. C’era forte preoccupazione e in questa situazione si è
innestato l’omicidio delle Br. Abbiamo però saputo reagire, creando una forte
compattezza tra noi e i lavoratori delle altre fabbriche sestesi e dando una
risposta dignitosa e decisa.
Più volte
abbiamo trovato volantini delle Br all’interno della fabbrica. Sicuramente in
azienda operava un gruppo che faceva riferimento alla Walter Alasia. Anch’io,
come altri dell’esecutivo del cdf, ho ricevuto minacce telefoniche. In quel
periodo abbiamo avuto grossi problemi di ristrutturazione, esuberi, cassa
integrazione. I volantini che si trovavano in fabbrica, però, non parlavano dei
problemi dell’azienda, ma erano copie dei vari comunicati che le Br diffondevano
anche altrove.
Più tardi
abbiamo saputo dell’arresto di un lavoratore del I° stabilimento, uno
irreprensibile nel suo comportamento, moderato, iscritto alla Fiom. Non è mai
venuto allo scoperto, non aveva fatto parte dei gruppi extraparlamentari e non
si era mai messo contro il sindacato.
In azienda
qualche eccesso c’è stato, qualche scazzottatura con dei dirigenti, ma tutto
ciò rientrava nella normalità dello scontro sindacale di quegli anni e non
aveva niente a che vedere con il terrorismo.
La vertenza più
impegnativa e difficile è stata certamente quella che ha avviato per la prima
volta la cassa integrazione, nel ’76, ‘77. La mentalità con cui eravamo
cresciuti era che certi problemi erano del padrone e non dei lavoratori. Per la
prima volta abbiamo toccato con mano le conseguenze di una crisi, una
situazione che sembrava quasi incredibile. C’era la convinzione che le grandi
aziende, e tra queste in particolare la Ercole Marelli, non potessero entrare
in crisi. Si pensava che non fosse vero, che ci raccontassero delle bugie.
Invece, anche se qualche volta ci hanno un po’ giocato, le difficoltà erano
drammaticamente vere. Le perdite raggiunsero i 500 milioni di lire al giorno.
E’ stata una vertenza dura, con tantissimi scioperi, la gestione della cassa
integrazione a rotazione e con moltissimi problemi tra di noi. Affrontando per
la prima volta certe questioni venivano fuori le difficoltà e le nostre
incapacità a gestirle. Se poi tutto questo è permeato da un cappello ideologico
rigido, è chiaro che affrontare i problemi è ancora più difficile. Era uno
scontro tra Fim e Fiom, ma era anche un conflitto interno alle stesse
organizzazioni, anche se alla fine si riusciva a uscirne grazie al quadro
sindacale esterno, che era molto preparato. E’ stato un periodo faticoso,
perché è andato avanti per anni, praticamente fino al commissariamento.
Per giungere al
commissariamento abbiamo fatto incontri con il presidente della Regione,
Giuseppe Guzzetti, siamo stati al ministero del Lavoro, abbiamo organizzato
convegni all’interno dello stabilimento, sono state ipotizzate soluzione
industriali molto impegnative come la costruzione di un polo elettromeccanico
italiano. Abbiamo incontrato studiosi, esperti, imprenditori, oltre che
politici e sindacalisti.
Il rapporto con
i lavoratori in quei giorni era difficile. Ho visto uomini di cinquant’anni
piangere perché erano stati messi in cassa integrazione. Il lavoro era
l’identità, era la loro vita e io mi trovavo davanti a loro sapendo di non
riuscire a fare altro che un accordo che non li lasciasse a casa senza
stipendio, ma cosciente che non c’erano alternative. Era un’offesa alla loro
vita. Questo me lo sono sentito addosso molto spesso, mi assaliva un senso di
impotenza, di colpa rispetto a quanto stava accadendo.
L’amministrazione
comunale è sempre stata presente nelle nostre vicende, ma la mia esperienza, in
particolare l’ultima, quando sindaco era Filippo Penati, debbo dire che è stata
molto negativa. Si è trattato di un intervento di facciata, di chi in qualche
modo doveva salvarsi l’anima perché il suo riferimento è sempre stata la classe
operaia. Soprattutto negli ultimi anni,
c’è stato uno scadimento e l’azione dell’amministrazione locale è stata molto
più superficiale, meno precisa.
Ero nel
direttivo provinciale quando la Fim milanese era guidata da Piergiorgio Tiboni.
Facevo parte anche della zona di Sesto San Giovanni quando venne commissariata.
Venne mandato Francesco Peluselli, che era una sorta di commissario del popolo.
Con lui, peraltro, ho avuto un rapporto corretto, perché quando ci si conosce
le persone contano di più delle posizioni. Io ero entrato nel sindacato al
tempo della Flm e quindi non mi piacevano quelle divisioni in casa Fim, ma la
mia formazione sindacale è stata profondamente segnata da un vecchio quadro
democristiano della Fim Cisl, Aldo Ripamonti. La Fim era prevalentemente di
formazione democristiana, anche se quegli uomini facevano riferimento alla
sinistra sociale di Carlo Donat Cattin e di Giovanni Marcora. Erano persone con
la quale la Fiom e il Pci hanno sempre trovato un collegamento molto stretto.
Io e pochi altri eravamo in qualche modo le anomalie. Quando sono entrato in
Fim, però, non conoscevo questa realtà, ma sono stato accettato e mi hanno
sempre dato la massima fiducia, anche se la gestione della Fim alla Ercole
Marelli era sostanzialmente nelle loro mani. Così, nonostante le mie idee
politiche, mi sono ritrovato a essere l’opposizione di Tiboni. Per me era un
problema di linea sindacale, non una questione ideologica. Io partivo dalle
scelte che facevo insieme agli altri a Sesto San Giovanni. Ero convinto di ciò
che sostenevo, anche se queste cose le facevo con i democristiani. Se Tiboni le
considerava moderate, questo per me non cambiava la ragione delle scelte, che
erano il merito delle questioni. Più volte nei direttivi mi accusavano di
portare avanti le posizioni dei vecchi democristiani, era un’accusa che
prescindeva dai contenuti.
Ricordo, però,
che accuse simili a volte arrivavano anche da parte della Fiom. Le vicende del
contrasto tra la Fim sestese e la Fim provinciale sono state laceranti, ma io
pur schierandomi non mi sono mai sentito toccato profondamente, ero un po’
distaccato.
Quando è finita
la Flm, la Fim aveva una forza pari a un terzo della Fiom. La Fiom è sempre
stata maggioranza e anche i critici nei confronti del Pci erano in gran parte
iscritti alla Fiom.
L’impegno
sindacale ha condizionato la mia carriera professionale. Ho sempre avuto dei
problemi, perché l’impiegato è un mondo particolare. Più d’una volta mi è stato
detto esplicitamente di lasciar perdere con il sindacato. Da parte degli
impiegati c’erano dei pregiudizi nei confronti degli operai, dall’altra gli
impiegati godevano di privilegi assurdi. Con i colleghi non ho mai avuto
particolari problemi, anche se in alcune fasi abbiamo avuto degli scontri
perché non facevano sciopero, non erano mai convinti fino in fondo. E’ capitato
che a scioperare fossimo solamente in due.
Qualche
diffidenza c’era anche da parte degli operai nei miei confronti in quanto
delegato degli impiegati, oltretutto di provenienza non tecnica, ma
amministrativa. Soprattutto, questa diffidenza si riscontrava tra i più
anziani, quando intervenivo su questioni finanziarie e loro a dire che non
erano quelle le cose di cui ci dovevamo occupare.
La Fim ha
cercato di capire il mondo degli impiegati, dove era più radicata, però era
difficile, perché il rapporto di questi lavoratori con la proprietà è diverso.
La mia crescita
politica è stata tutta nella sinistra extraparlamentare, l’oratorio l’ho
frequentato solo da bambino, ma non sono parte del mondo cattolico e non ho mai
incontrato esponenti del mondo cattolico sestese. Il mio impegno è nato
attraverso l’esperienza del lavoro. Durante i momenti più difficile abbiamo
coinvolto la pastorale del lavoro, ma come si coinvolgevano un po’ tutte le
istituzioni per cercare ogni sostegno possibile data la nostra situazione. Sono
state celebrate delle messe in fabbrica, ma io non partecipavo così come non ho
partecipato all’incontro con il Papa. Ho preso parte, invece,
all’organizzazione di un incontro con padre Turoldo sul 12 dicembre.