venerdì 15 maggio 2020

EMILIO GEMMA - Ercole Marelli – Sesto San Giovanni (Mi)

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Dall’oratorio alla fabbrica. Il sindacato bianco nella Stalingrado d’Italia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007

Sono nato il 21.3.1949, a Viadana, in provincia di Mantova. Diplomato in ragioneria, ho iniziato a lavorare in nero come impiegato in un mobilificio della zona di Lissone, un posto che mi avevano trovato degli amici con cui giocavo a pallone. Alla fine del 1969 sono entrato in Ercole Marelli.
Quando sono stato assunto la fabbrica produceva impianti siderurgici, impianti di energia e di trazione ferroviaria. Si costruiva quasi tutto su licenza. Aveva anche una parte dedicata alle produzioni di ventilatori e motori di piccole dimensioni. A fine anni ’70 è entrata in crisi in seguito all’abbandono del nucleare.

In precedenza la famiglia Marelli aveva ceduto l’azienda a Nocivelli, che aveva scommesso sul nucleare. Era il titolare, insieme al fratello, della Ocean di Brescia. Appena arrivato aveva iniziato un processo di ristrutturazione, soprattutto nel campo dell’energia. Fallito il nucleare l’azienda ha cominciato a entrare in uno stato  di crisi, fino ad arrivare al commissariamento per scongiurare il fallimento e tentare il rilancio. Nocivelli è stato messo da parte, il governo ha nominato un commissario e da quel momento è iniziata la fase di smembramento. Sono nati così diversi spezzoni: energia, trazione (treni e metropolitane), piccole produzioni. Sono state create tre sezioni che sono poi state vendute separatamente a imprese diverse. Le piccole produzioni sono passate all’Ansaldo ed è stata la prima sezione che ha cessato la produzione. Energia e impiantistica sono finite al Tecnomasio Brown Boeri. La trazione, dove lavoravo io, è stata presa da un gruppo privato col nome Firema. E’ rimasta a Sesto fino a quattro anni fa, poi si è trasferita a Milano, presso il deposito delle Fs vicino a via Barzaghi.
Ho lavorato quasi sempre in amministrazione, prima ai fornitori e poi all’ufficio brevetti. Quando la Marelli è stata commissariata e ho lasciato la responsabilità sindacale, ho iniziato a occuparmi di contabilità industriale e di controllo di gestione e l’ho fatto fino a quando sono andato in pensione.

Il sindacato l’ho incontrato il primo giorno che sono entrato in Ercole Marelli, quando dopo neanche cinque ore mi hanno buttato fuori con un corteo interno. Non sapevo niente, mi hanno preso e fatto uscire. Erano scioperi per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro del 1969, un contratto che i lavoratori della Ercole Marelli hanno respinto.
Ho iniziato ad impegnarmi nel sindacato a metà degli anni ’70. Non mi sono iscritto subito, perché facevo parte di un gruppo extraparlamentare, ero critico nei confronti dei delegati sindacali e sostenevo la partecipazione diretta, ma nonostante questo, attraverso l’esperienza dei Cub, sono arrivato al sindacato. Mi sono iscritto alla Fim Cisl nel ‘73. Sono diventato delegato per gli impiegati nel ’75 e poco dopo sono entrato nell’esecutivo del consiglio di fabbrica e del coordinamento di gruppo. Eravamo una cinquantina di delegati in rappresentanza di circa 2400 lavoratori. Ho fatto parte del direttivo provinciale della Fim.
Sono stato delegato fino a quando la trazione è stata ceduta, ma sono sempre rimasto iscritto. In quell’occasione ho fatto la scelta di non uscire come operatore, come mi era stato proposto, e sono andato a lavorare a Milano. Ho fatto di nuovo il delegato in Firema, prima di andare in pensione, perché non c’era più niente, gli anziani se n’erano andati, le iscrizioni erano calate, nessuno voleva più impegnarsi e così ho finito la mia carriera da delegato riuscendo a far scioperare gli impiegati sul premio di rendimento, dopo quasi 7 anni di cassa integrazione.

I rapporti con la Fiom, nella fase in cui ero impegnato nella sinistra extraparlamentare, furono molto aspri, con scontri abbastanza duri. Cercavano di impedirci di fare qualsiasi attività politica. A volte diventava un problema anche distribuire un volantino, perché nascevano scontri con gli attivisti sindacali e, ancora di più, con i militanti del Pci.
In fabbrica c’erano più cellule, una per ogni stabilimento. Prevalentemente i dirigenti erano gli stessi della Fiom, se non proprio il segretario della cellula, ma quasi tutti gli attivisti erano delegati sindacali. L’identificazione col partito era molto forte, era prevalente la logica del partito anche all’interno del sindacato. Le stesse votazioni dei delegati erano condizionate politicamente: la Fiom era comunista, la Uilm era socialista. Era la cellula che decideva la linea sindacale e i delegati come riferimento non avevano la Fiom e nemmeno il consiglio di fabbrica. Il cdf era il luogo dove si andava a portare la linea del partito.
Anche noi della Cisl ci abbiamo messo del nostro e spesso il nostro era un atteggiamento di pregiudizio nei confronti dei militanti della Fiom e, soprattutto, del Partito comunista. Questo portava spesso a scontri politicamente aspri. Avevamo anche qualcuno di Potere operaio che accusava l’esecutivo del consiglio di fabbrica di frenare le rivendicazioni.
Personalmente ho sempre avuto una buona accoglienza e da delegato non ho mai avuto i bastoni fra le ruote. Neppure da parte di qualcuno che qualche anno prima quasi mi prendeva a botte. Ho trovato una grossa umanità. Un po’ rigida dal punto di vista ideologico, ma erano persone con una ricchezza personale molto forte. C’è sempre stata una certa diffidenza di fondo, ma questo non ha mai portato a rotture, non siamo mai arrivati a livelli estremi. Probabilmente questo era dovuto alla particolare situazione di crisi che si è creata in azienda a partire dalla metà degli anni ’70 ed è andata avanti per quasi dieci anni. Quindi anche i periodi travagliati, di rottura sindacale, sono stati vissuti in modo abbastanza distaccato. Per mesi e mesi abbiamo ricevuto solo un acconto sullo stipendio. Abbiamo organizzato tantissime iniziative per sostenere la nostra situazione e su queste siamo quasi sempre riusciti a trovare un’intesa. Le battaglie generali influenzavano poco la realtà aziendale.

Il nostro direttore del personale, Renato Briano, è stato ucciso dalla Brigate rosse sulla metropolitana, il 12 novembre 1980. E’ stato un dramma che ha pesato enormemente su ciascuno di noi. Non mi rendevo conto di cosa avrebbe potuto accadere. Era una fase in cui il sindacato in qualche modo aveva in mano la fabbrica, c’erano i blocchi delle merci e le banche, per sbloccare i pagamenti, si rivolgevano direttamente a noi e non alla direzione per far uscire qualche prodotto finito. C’era forte preoccupazione e in questa situazione si è innestato l’omicidio delle Br. Abbiamo però saputo reagire, creando una forte compattezza tra noi e i lavoratori delle altre fabbriche sestesi e dando una risposta dignitosa e decisa. 
Più volte abbiamo trovato volantini delle Br all’interno della fabbrica. Sicuramente in azienda operava un gruppo che faceva riferimento alla Walter Alasia. Anch’io, come altri dell’esecutivo del cdf, ho ricevuto minacce telefoniche. In quel periodo abbiamo avuto grossi problemi di ristrutturazione, esuberi, cassa integrazione. I volantini che si trovavano in fabbrica, però, non parlavano dei problemi dell’azienda, ma erano copie dei vari comunicati che le Br diffondevano anche altrove.
Più tardi abbiamo saputo dell’arresto di un lavoratore del I° stabilimento, uno irreprensibile nel suo comportamento, moderato, iscritto alla Fiom. Non è mai venuto allo scoperto, non aveva fatto parte dei gruppi extraparlamentari e non si era mai messo contro il sindacato.
In azienda qualche eccesso c’è stato, qualche scazzottatura con dei dirigenti, ma tutto ciò rientrava nella normalità dello scontro sindacale di quegli anni e non aveva niente a che vedere con il terrorismo. 

La vertenza più impegnativa e difficile è stata certamente quella che ha avviato per la prima volta la cassa integrazione, nel ’76, ‘77. La mentalità con cui eravamo cresciuti era che certi problemi erano del padrone e non dei lavoratori. Per la prima volta abbiamo toccato con mano le conseguenze di una crisi, una situazione che sembrava quasi incredibile. C’era la convinzione che le grandi aziende, e tra queste in particolare la Ercole Marelli, non potessero entrare in crisi. Si pensava che non fosse vero, che ci raccontassero delle bugie. Invece, anche se qualche volta ci hanno un po’ giocato, le difficoltà erano drammaticamente vere. Le perdite raggiunsero i 500 milioni di lire al giorno. E’ stata una vertenza dura, con tantissimi scioperi, la gestione della cassa integrazione a rotazione e con moltissimi problemi tra di noi. Affrontando per la prima volta certe questioni venivano fuori le difficoltà e le nostre incapacità a gestirle. Se poi tutto questo è permeato da un cappello ideologico rigido, è chiaro che affrontare i problemi è ancora più difficile. Era uno scontro tra Fim e Fiom, ma era anche un conflitto interno alle stesse organizzazioni, anche se alla fine si riusciva a uscirne grazie al quadro sindacale esterno, che era molto preparato. E’ stato un periodo faticoso, perché è andato avanti per anni, praticamente fino al commissariamento. 
Per giungere al commissariamento abbiamo fatto incontri con il presidente della Regione, Giuseppe Guzzetti, siamo stati al ministero del Lavoro, abbiamo organizzato convegni all’interno dello stabilimento, sono state ipotizzate soluzione industriali molto impegnative come la costruzione di un polo elettromeccanico italiano. Abbiamo incontrato studiosi, esperti, imprenditori, oltre che politici e sindacalisti.
Il rapporto con i lavoratori in quei giorni era difficile. Ho visto uomini di cinquant’anni piangere perché erano stati messi in cassa integrazione. Il lavoro era l’identità, era la loro vita e io mi trovavo davanti a loro sapendo di non riuscire a fare altro che un accordo che non li lasciasse a casa senza stipendio, ma cosciente che non c’erano alternative. Era un’offesa alla loro vita. Questo me lo sono sentito addosso molto spesso, mi assaliva un senso di impotenza, di colpa rispetto a quanto stava accadendo.

L’amministrazione comunale è sempre stata presente nelle nostre vicende, ma la mia esperienza, in particolare l’ultima, quando sindaco era Filippo Penati, debbo dire che è stata molto negativa. Si è trattato di un intervento di facciata, di chi in qualche modo doveva salvarsi l’anima perché il suo riferimento è sempre stata la classe operaia.  Soprattutto negli ultimi anni, c’è stato uno scadimento e l’azione dell’amministrazione locale è stata molto più superficiale, meno precisa.

Ero nel direttivo provinciale quando la Fim milanese era guidata da Piergiorgio Tiboni. Facevo parte anche della zona di Sesto San Giovanni quando venne commissariata. Venne mandato Francesco Peluselli, che era una sorta di commissario del popolo. Con lui, peraltro, ho avuto un rapporto corretto, perché quando ci si conosce le persone contano di più delle posizioni. Io ero entrato nel sindacato al tempo della Flm e quindi non mi piacevano quelle divisioni in casa Fim, ma la mia formazione sindacale è stata profondamente segnata da un vecchio quadro democristiano della Fim Cisl, Aldo Ripamonti. La Fim era prevalentemente di formazione democristiana, anche se quegli uomini facevano riferimento alla sinistra sociale di Carlo Donat Cattin e di Giovanni Marcora. Erano persone con la quale la Fiom e il Pci hanno sempre trovato un collegamento molto stretto. Io e pochi altri eravamo in qualche modo le anomalie. Quando sono entrato in Fim, però, non conoscevo questa realtà, ma sono stato accettato e mi hanno sempre dato la massima fiducia, anche se la gestione della Fim alla Ercole Marelli era sostanzialmente nelle loro mani. Così, nonostante le mie idee politiche, mi sono ritrovato a essere l’opposizione di Tiboni. Per me era un problema di linea sindacale, non una questione ideologica. Io partivo dalle scelte che facevo insieme agli altri a Sesto San Giovanni. Ero convinto di ciò che sostenevo, anche se queste cose le facevo con i democristiani. Se Tiboni le considerava moderate, questo per me non cambiava la ragione delle scelte, che erano il merito delle questioni. Più volte nei direttivi mi accusavano di portare avanti le posizioni dei vecchi democristiani, era un’accusa che prescindeva dai contenuti.
Ricordo, però, che accuse simili a volte arrivavano anche da parte della Fiom. Le vicende del contrasto tra la Fim sestese e la Fim provinciale sono state laceranti, ma io pur schierandomi non mi sono mai sentito toccato profondamente, ero un po’ distaccato.
Quando è finita la Flm, la Fim aveva una forza pari a un terzo della Fiom. La Fiom è sempre stata maggioranza e anche i critici nei confronti del Pci erano in gran parte iscritti alla Fiom.

L’impegno sindacale ha condizionato la mia carriera professionale. Ho sempre avuto dei problemi, perché l’impiegato è un mondo particolare. Più d’una volta mi è stato detto esplicitamente di lasciar perdere con il sindacato. Da parte degli impiegati c’erano dei pregiudizi nei confronti degli operai, dall’altra gli impiegati godevano di privilegi assurdi. Con i colleghi non ho mai avuto particolari problemi, anche se in alcune fasi abbiamo avuto degli scontri perché non facevano sciopero, non erano mai convinti fino in fondo. E’ capitato che a scioperare fossimo solamente in due.
Qualche diffidenza c’era anche da parte degli operai nei miei confronti in quanto delegato degli impiegati, oltretutto di provenienza non tecnica, ma amministrativa. Soprattutto, questa diffidenza si riscontrava tra i più anziani, quando intervenivo su questioni finanziarie e loro a dire che non erano quelle le cose di cui ci dovevamo occupare.
La Fim ha cercato di capire il mondo degli impiegati, dove era più radicata, però era difficile, perché il rapporto di questi lavoratori con la proprietà è diverso.

La mia crescita politica è stata tutta nella sinistra extraparlamentare, l’oratorio l’ho frequentato solo da bambino, ma non sono parte del mondo cattolico e non ho mai incontrato esponenti del mondo cattolico sestese. Il mio impegno è nato attraverso l’esperienza del lavoro. Durante i momenti più difficile abbiamo coinvolto la pastorale del lavoro, ma come si coinvolgevano un po’ tutte le istituzioni per cercare ogni sostegno possibile data la nostra situazione. Sono state celebrate delle messe in fabbrica, ma io non partecipavo così come non ho partecipato all’incontro con il Papa. Ho preso parte, invece, all’organizzazione di un incontro con padre Turoldo sul 12 dicembre.