Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Gli anni caldi dei metalmeccanici bresciani”, di Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma 2005
Era un’azienda che costruiva
elettrodomestici. Aveva due stabilimenti, una a Nigoline, Corte Franca, in
provincia di Brescia e una in Brianza, dove è nata in Brianza nel '60.
Complessivamente eravamo circa mille dipendenti. Quando la fabbrica ha chiuso
eravamo in circa 300 a Brescia e circa 900 in Brianza. A Nigoline facevamo i
forni, mentre in Brianza si facevano elettrodomestici da incasso.
Corte Franca era un comune
di cinquemila abitanti e la Fratelli Onofri era la fabbrica più importante del
paese. C’era un prete a Nigoline che era il confessore dei fratelli Onofri e
che reclutava gli operai che andavano a lavorare in Brianza con i pullman. Poi,
siccome il comune di Corte Franca era area disagiata, hanno avuto facilitazioni
e aiuti e hanno costruito lo stabilimento di Nigoline. Un po’ di operai sono
rientrati a lavorare nella fabbrica nuova e poi hanno assunto altro personale
del posto.
Sono nata nel 1955. Ho
iniziato a lavorare a quattordici anni come operaia in uno scatolificio, poi ho
lavorato come apprendista sarta, ho fatto l’impiegata alla Onofri, poi
l’operatrice all’ufficio vertenze, poi sono andata a lavorare come impiegata
alle Poste, nel frattempo mi sono laureata in Economia e commercio, sono andata
in pensione dalle Poste, ho rifatto l’operatrice sindacale per altri due anni.
Ho lavorato prima all’ufficio vertenze della Flm, la seconda volta ho creato
l’ufficio vertenze della Fim. Sono riuscita a lavorare bene e in contemporanea
facevo anche la contabilità della Fim. Dopo di che è nata la mia bambina che è
malata (fibrosi cistica) e ho lasciato tutto per dedicarmi a lei.
Sono entrata Alla Onofri
nell’aprile del '74, studiavo alla sera e avevo diciannove anni. L’anno dopo mi
sono diplomata come ragioniera.
Ero impiegata all’ufficio
acquisti, anche se gli acquisti grossi li facevano in Brianza. L’azienda era a
gestione familiare ed era guidata da due fratelli. Il più vecchio, Cesare,
teneva la borsa dei soldi e quindi era lui che li faceva, noi facevamo quelli
più piccoli. A Nigoline eravamo una decina di impiegate ed io ero la prima ad
essere quasi diplomata. Erano tutte ragazze che avevano la terza media, che
erano andate in Brianza con la raccomandazione del prete e poi erano tornate a
Nigoline. Quindi persone di fiducia. Dopo un po’ di tempo la ragazza con cui
lavoravo è andata in maternità e quindi sono diventata responsabile dei piccoli
acquisti che si facevano a Brescia. La mia carriera è iniziata e finita lì,
perché nel 1975 ho iniziato a fare sindacato.
Sono stata la prima e unica
impiegata che ha fatto sindacato alla Onofri. Avevamo forti rapporti con la
Onofri in Brianza, e in quella fabbrica gli impiegati sindacalizzati erano
quattro o cinque e non mi sono mai trovata isolata. Fin dall’inizio sono stata
incaricata di controllare le buste paga.
Sono stata eletta delegata
dalle mie compagne di lavoro, forse semplicemente perché ero giovane ed ero
quella che aveva studiato. Il tasso di sindacalizzazione era alto, tra
l’ottanta e il novanta per cento degli operai era iscritto. Ben presto, però,
siccome mi impegnavo e conducevo le battaglie con decisione come si usava
allora, non sono più stata la rappresentante dei soli impiegati pur essendo
stata eletta da loro, ma la delegata, insieme agli altri tre o quattro, di
tutta la fabbrica.
Eravamo undici delegati, tutti
Flm, ma quelli che lavoravano erano quattro o cinque. Era una situazione in cui
si conoscevano tutti i lavoratori, avevo rapporti con tutti, venivano a
chiedermi informazioni sulla busta paga, su tutto ciò che accadeva, sulle
pensioni. Era un rapporto molto stretto. A differenza dello stabilimento
brianzolo, avevamo la caratteristica di essere molto pratici. Non facevamo
grandi discorsi, ma eravamo efficienti.
Ad un certo punto, nel ’75,
è iniziata la cassa integrazione e la paura dei licenziamenti. C’era la crisi
di mercato del settore degli elettrodomestici e i proprietari erano vecchi. Per
uscire dalla crisi sarebbero serviti degli investimenti e una riorganizzazione
della produzione e poi era necessario delegare a persone tecnicamente più
preparate. I due fratelli avevano superato entrambi i settant’anni, ma tenevano
tutto sotto il loro controllo perché non delegavano nulla, e non ce la facevano
più a gestire la situazione, due
fabbriche con più di mille persone. Quando lo hanno capito, nel 1978, invece di
passare la mano e cambiare hanno preferito chiudere. Hanno tentato di far
intervenire dei manager, ma senza convinzione e alcuna disponibilità a delegare
i poteri ed è finito tutto molto rapidamente. In quel momento il mercato non ci
ha aiutato.
Dal '75 al '77 si sono
alternate fasi di cassa integrazione ordinaria e straordinaria. Nel '78 non
abbiamo preso lo stipendio per quattro mesi, siamo stati messi tutti in cassa
integrazione a zero ore e a quel punto abbiamo deciso l’occupazione della fabbrica,
che è andata avanti per tre anni. Avevo ventitré anni. Noi in quei giorni
avevamo come obiettivo di far ripartire la fabbrica, pensavamo fosse possibile
trovare un imprenditore disposto a rilevare la fabbrica per far riprendere la
produzione. Secondo noi lo stabilimento di Corte Franca aveva delle
potenzialità per andare vanti autonomamente.
Ci sono stati contatti con
vari imprenditori, ma credo che gli unici a crederci fossimo noi, mentre il
mercato aveva già deciso come suddividersi le quote che si liberavano.
Nella zona non c’era
possibilità di reimpiego perché non c’erano altre fabbriche, il grosso degli
operai era di basso livello, non c’erano figure professionalmente forti,
lavoravano alla catena di montaggio e quindi non sapevano fare altro. Il centinaio
di donne che c’erano erano destinate a rimanere a casa, cosa che poi è
regolarmente avvenuta per moltissime di loro e i duecento uomini in gran parte
erano persone che avevano lasciato i campi per quel primo posto in fabbrica e
quindi non avevano molte prospettive se non trovare un’occupazione simile, ma
più lontana da casa. Una quarantina erano vicini alla pensione e difficilmente
avrebbero trovato qualcuno disposto ad assumerli.
L’occupazione della fabbrica
è iniziata nel '78, l'azienda è fallita nell’80, la cassa integrazione a zero
ore è finita nell’81. Quando abbiamo terminato l’occupazione eravamo ancora
un’ottantina di persone, di cui venti irriducibili perché ci credevano e gli
altri sessanta perché non riuscivano a trovare un altro posto.
Il primo periodo
dell’occupazione era fatto da tante iniziative allegoriche: aiuti dalle altre
fabbriche, feste, recite, concerti, incontro con il vescovo, messe di
mezzanotte. Per quasi un anno non abbiamo preso soldi e quindi nelle altre
fabbriche sono state fatte collette per noi, perché i primi soldi della cig
sono arrivati quasi un anno dopo la chiusura. Le forme di solidarietà sono
state molte. Chi poteva, nel frattempo, ha cercato di arrangiarsi lavorando in
nero come muratore o altro. Una metà degli uomini nel giro di sei, sette mesi
si è sistemata. Si dormiva in fabbrica, avevamo organizzato i turni e anche
quelli che avevano trovato altro da fare venivano comunque a fare i loro turni.
Dal punto di vista umano,
dei rapporti che si sono creati tra di noi ne è valsa sicuramente la pena. E’
stato un fatto importante. Un bel rapporto che è rimasto con la stragrande
maggioranza della gente. Dal punto vista economico sociale, con l’obiettivo
posto e la possibilità di arrivarci, con il senno di poi, forse non ne è valsa
la pensa. Forse non c’era neppure la possibilità di trovare un nuovo
imprenditore disposto a riprendere l’attività con un gruppo di lavoratori così
forte, con cui discutere e confrontarsi era dura.
Però non ci siamo fatti la
fama di persone che facevano casino, ma quella di persone molto legate tra di
loro che sarebbe stato difficile dividere perché si era creato un clima di
solidarietà vera, portato dalla necessità.
Tra di noi siamo sempre
stati uniti. Una mattina con gli operai delle fabbriche intorno a noi abbiamo
occupato la stazione ferroviaria di Rovato, tenendo bloccato i treni per
quattro ore, volevamo occupare anche l’autostrada ma non ce l’hanno lasciato
fare. Siamo andati a manifestare davanti alla Prefettura e cose di questo genere,
perché eravamo noi la sinistra allora. A Brescia abbiamo manifestato davanti
alle sedi dei partiti Dc, Pci e Psi perché secondo noi non si erano dati da
fare a sufficienza, e davanti alle sedi di tutte le istituzioni. Eravamo
lontano dai giochi politici bresciani e abbiamo avuto degli scontri con
Cremaschi, che aveva criticato la nostra lotta quando siamo venuti a fare le
manifestazioni a Brescia Lo scontro con la Fiom c’è stato appunto in occasione
della manifestazione davanti al Pci, anche se in verità siamo stati ricevuti e
abbiamo parlato con Torri al quale abbiamo spiegato che non ce l’avevamo con
loro, ma loro ci servivano per raggiungere i nostro obiettivi, e loro l’hanno
capito benissimo. Secondo la Fiom avremmo dovuto farlo in un altro modo, ma noi
non ci curavamo di questo genere di questioni. Qualche anno dopo, quando l’Idra
(fabbrica bresciana che è fallita) fece il nostro stesso percorso, Cremaschi
venne a farmi le sue scuse.
Quando abbiamo iniziato
l’occupazione segretario generale della Fim era Franco Castrezzati, quando
abbiamo finito era Marino Gamba. L’operatore che ci seguiva era Marco
Castrezzati.
Nell’ultimo anno di
occupazione , mentre ero in cassa integrazione a zero ore, ho sostituito per
cinque mesi la ragazza che faceva la contabilità al sindacato (Flm) che era
andata in maternità, poi sono rientrata in fabbrica fino alla fine
dell’occupazione e quindi sono tornata in Flm a fare l’ufficio vertenze, dove
non c’era più nessuno. Dopo tre anni di occupazione, avevo voglia di darmi da fare.
Lavoravo come una pazza, anche 15 ore al giorno, senza mai fermarmi. Insieme ad
un avvocato “idealista” molto bravo, disposto a fare anche cause di principio,
(adesso è passato dall’altra parte) abbiamo fatto numerosissime vertenze
individuali e molte ne abbiamo vinte. Però erano cause che si risolvevano non
con un accordo all’Ufficio del lavoro, ma con una sentenza del pretore. Le cose
più significative che ho fatto sono state le vertenze per il lavoro notturno,
in cui si chiedeva l’incidenza del lavoro notturno su tutti gli istituti
contrattuali, una di queste ha coinvolto anche la Bisider di Lucchini.
Questa esperienza l’ho poi
portata alla Fim, dove ho avviato l’ufficio vertenze Fim quando l’Flm è
cessata. Sono una persona concreta,
molto pratica, se sono in grado di dare risposte precise mi do da fare per
ottenere quel risultato, ma se si tratta di fare discorsi, proporre questioni
ideali, allora non riesco. Non me l’hanno mai proposto, ma io non sarei mai
passata dall’ufficio vertenze a fare l’operatore sindacale.
Un giorno, mentre
partecipavo ad un corso di formazione, resami conto di aver detto una
sciocchezza sono scoppiata a piangere disperatamente. In quel momento ho capito
che dovevo fermarmi e ho deciso di cambiare, così nell’86 sono andata in posta.
Lavorando in posta, con ritmi normali e senza più le tensioni che vivevo ogni
giorno all’ufficio vertenze, ho ritrovato il sorriso e ho ripreso a vivere.
Ho ripreso a studiare, ho
fatto un figlio e nel ’91 mi sono laureata in Economia e commercio con una tesi
sul fallimento della Onofri. Nello stesso anno andata in pensione con 23 anni
di lavoro, prima della riforma Amato, e quindi sono tornata all’ufficio
vertenze della Fim a seguire i fallimenti. Poi nel ‘93 è nata Francesca e a
quel punto ho lasciato definitivamente per seguire lei.
I miei genitori si sono
presti abituati alle mie scelte. Ero “bella cicciotta”, non avevo molti ragazzi
che mi correvano intorno, e io mi sono buttata sui libri. Lavorando di giorno e
studiando la sera, le amicizie erano ridotte al lumicino. Facevo pare di un
gruppo che non era nel Pci, non era nelle Acli, in paese eravamo un gruppetto
di cani sciolti e facevamo manifesti di denuncia su problemi vari, li mettevamo
fuori dalla chiesa, dove si riuniva il maggior numero di persone del paese, ma
facevamo anche spettacoli teatrali. E siamo sempre stati autonomi, e in quel
gruppo ho trovato il mio fidanzato che poi è diventato mio marito.
I miei amici erano i
sindacalisti e le mogli dei sindacalisti. Anche mio marito ha fatto il delegato
sindacale. Mi sono messo con mio marito nel ’77 e lui, da fidanzato, ha fatto
tutta l’occupazione, e non poteva dire che non era giusto ciò che facevamo,
perché erano guerre a non finire e non ha mai cercato di dissuadermi, anche perché
allora ero troppo assolutista. Ha tentato più volte di discuterne ma io non
vedevo altre soluzioni se non quella di far ripartire la produzione in quella
fabbrica.
Oggi per tre mesi all’anno
faccio i 730 per la Cisl nella sede di Iseo.
Ho due figli, ho sempre
letto moltissimo, faccio ripetizioni di matematica ai compagni di classe di mio
figlio. Leggo libri per ragazzi insieme a mia figlia quando facciamo ginnastica
respiratoria un’ora e mezza la giorno insieme. Mia figlia ora ha 10 anni.