Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Autonomia e contratti. Storie di sindacalisti della Cisl in Lombardia”, a cura di Guido Baglioni e Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma, 2006
Ho sempre vissuto a Ronco Briantino dove sono nato il 16 luglio 1927 e dove abito ancora oggi. In famiglia eravamo in cinque, e solo mio papà lavorava. Era un contadino a mezzo tempo, occupato di notte come guardia notturna in un’azienda tessile e di giorno nei campi. La mamma era casalinga. Ho frequentato le elementari in paese e a conclusione della quinta la maestra voleva che proseguissi gli studi, ma in casa c’era bisogno che andassi a lavorare al più presto, così i miei genitori hanno scelto per me la scuola professionale. Mi hanno iscritto alla scuola “Ercole Marelli” di Sesto San Giovanni.
Al termine dei tre anni di studi mi è arrivata una proposta di assunzione da parte della Magneti Marelli, che pure aveva una sua scuola interna, situata all’ultimo piano della palazzina dove oggi hanno sede Cgil, Cisl e Uil della Lombardia. Il primo ottobre del 1942 mi sono presentato in azienda, mi hanno fatto un piccolo esame, e mi hanno preso subito. Era una esperienza di scuola e lavoro. Al mattino si studiava teoria e al pomeriggio si faceva pratica. Si ruotava nei diversi reparti dello stabilimento per conoscere tutte le lavorazioni. L’obiettivo della formazione, infatti, era quello di preparare persone destinate a diventare “capi”.
Ci chiamavano “vedette”. Sulla tuta avevo una “V” gialla e pertanto tutti sapevano che ero destinato ad assumere quel ruolo. Ma quando sono stato assunto eravamo in guerra, il corso è finito nel 1944, nel periodo più tragico, e non se n’è fatto niente. La scuola è stata sciolta mentre stavo facendo pratica nel laboratorio di elettroacustica e così ho iniziato a lavorare in quel settore, che era relativamente nuovo: si costruivano microfoni, amplificatori, altoparlanti. Sono rimasto lì fino al 1948, quando, il primo ottobre, sono andato militare.
Il primo ottobre è una data significativa per me: in quel giorno sono entrato alla Magneti Marelli, sono partito per il servizio di leva, sono passato al sindacato.
Quando sono tornato dalla caserma ho trovato una fabbrica sconvolta. Erano rientrati i vecchi proprietari ed era iniziata la ristrutturazione, con lo smembramento dei reparti e i primi grandi licenziamenti. Fortunatamente sono finito al laboratorio ricerche di elettronica dove si facevano ricetrasmettitori, si studiavano ponti radio, si iniziavano a sviluppare le tecniche di potenziamento dei canali telefonici, si progettavano i nuovi ponti per la televisione. Ho partecipato alla realizzazione di una parte della rete italiana. Dopo aver provveduto alla installazione degli impianti si dovevano fare le prove di propagazione del segnale. Il tratto più lungo era quello compreso tra la Sicilia e la Sardegna e per questo lavoro sono stato quattordici mesi a Erice, in Sicilia.
In quel reparto si è conclusa la mia esperienza professionale. L’ultimo mio lavoro è stato lo studio delle telecamere a circuito chiuso per la metropolitana milanese. Il primo ottobre del 1968 ho lasciato la fabbrica.
In commissione interna
La Magneti Marelli era una delle grandi aziende di Sesto San Giovanni, con 4500 dipendenti, suddivisi in quattro stabilimenti. Durante il conflitto era stata impegnata nella produzione di materiale bellico e nella fabbrica erano presenti i militari. Ma c’erano anche uomini della resistenza e anch’io sono stato coinvolto, pur senza rendermene conto. Più volte un operaio mi chiese di portargli un pacchetto fino alla stazione dove lui veniva a riprenderlo. Solo a fine conflitto ho saputo che dentro c’erano dei volantini antifascisti.
Era un’azienda molto politicizzata, tant’è che dopo la guerra i padroni sono scappati e lo stabilimento è stato guidato dal consiglio di gestione. In quel periodo in fabbrica sono venuti a fare comizi Pietro Nenni, Riccardo Lombardi e Walter Audisio, il famoso colonnello Valerio, comandante partigiano che si suppone abbia fucilato Mussolini.
La fabbrica è stata una scuola di vita, sono cresciuto in un clima di grande impegno. Allo stesso tempo frequentavo l’Azione cattolica, dove mi insegnavano il valore della partecipazione. Davanti alla Magneti Marelli c’era la chiesa del Redentore e tutte le mattine, prima di andare in fabbrica, alle sette e mezzo mi trovavo insieme ad altri lavoratori credenti. C’era un sacerdote che mi stimolava ad impegnarmi e prendeva parte anche lui alle manifestazioni. Si chiamava don Silvano Terragni e gli operai, per questo suo comportamento, dicevano che era un prete diverso dagli altri.
Mi sono iscritto al sindacato per la prima volta, alla Libera Cgil, nel 1948. Qualche anno dopo, nel 1953, mi hanno proposto di candidarmi come membro di commissione interna. Si votava tutti gli anni e ogni volta era una battaglia tra Cisl e Cgil. A quell’epoca avevo la qualifica di intermedio, secondo la logica di quel periodo avrei dovuto stare naturalmente dalla parte dell’azienda e non potevo fare il rappresentante dei lavoratori, ma io ho accettato ugualmente la candidatura. Però non ho potuto essere votato, perché pochi prima delle elezioni è venuto da me l’ingegnere responsabile del laboratorio dove lavoravo e mi ha detto: <<abbiamo discusso di lei in direzione, lei ha lavorato alla realizzazione dell’oscillatore locale, sa perfettamente come funziona il trasmettitore e quindi è in grado di intervenire se si guasta, siccome dobbiamo fare le sperimentazioni della trasmissione del segnale la mandiamo a Erice>>. Dopo quel lungo periodo trascorso in Sicilia, di castigo e di pacchia insieme, sono rientrato in azienda nel 1954. Sono stato nuovamente candidato, ottenendo tantissimi voti e sono diventato il primo presidente cislino della commissione interna. Eravamo in sette, e la maggioranza era nostra.
Non fu un momento facile, perché l’area comunista non accettò di buon grado la mia elezione e il presidente della commissione interna che avevo sostituito arrivò a farmi telefonate minacciose. Noi della Cisl eravamo bastonati dalla direzione e allo stesso tempo avevamo la nomea di essere venduti ai padroni. Nonostante ciò, però, i lavoratori mi rispettavano e con i rappresentanti della Cgil in fabbrica andavo d’accordo.
Vivemmo un momento di particolare tensione durante i fatti d’Ungheria, nel 1956. Una sera un attivista della Fiom è venuto in commissione interna a piangere. In seguito a quella vicenda è passato alla Uilm.
Stare in commissione interna era particolarmente impegnativo. Avevamo a disposizione un’ora la settimana e il venerdì la commissione si riuniva dalle quattro alle cinque del pomeriggio, l’ultima ora del turno. Quando c’erano dei problemi l’incontro era aperto. Ci era stato assegnato un ufficio vicino all’entrata, a piano terra. Tutte le sere, finito il lavoro, rimanevo lì e c’era sempre qualcuno che veniva a parlarmi, ma il vero contatto con i lavoratori avveniva durante la pausa per il pranzo. Io non riuscivo quasi mai a mangiare. Quando andavo in mensa, infatti, c’erano sempre persone che volevano parlare con me. Ero diventato una sorta di confessore. Mi raccontavano anche delle angherie cui alcuni capi sottoponevano le ragazze e io dovevo intervenire. Allora, in modo discreto, riferivo ad un responsabile della direzione del personale, che sapevo essere persona seria. Sul piano dei rapporti sindacali era un duro, ma sul piano etico-morale estremamente corretto. Due capi, dopo quegli interventi, sono spariti dalla circolazione.
Venivo tutti i giorni da Ronco Brigantino a Sesto San Giovanni con il treno, dove viaggiavano molti operai della Marelli, e anche quella era un'occasione di discussione. Inoltre, la fabbrica era su più piani, muovendosi tra i reparti ci si incontrava, e quando mi vedevano c’era sempre qualcuno che mi chiedeva informazioni, mi parlava di un problema. Era una comunicazione per contagio.
Durante la giornata lavoravo normalmente e difficilmente mi dedicavo al sindacato o ai problemi dell’azienda, salvo qualche breve telefonata.
Una delle questioni principali di cui mi sono occupato in qualità di commissario è stata quella dei ritmi di lavoro. I tempi delle lavorazioni erano sempre troppo brevi ed era una battaglia continua con i tempisti. C’erano operazioni che duravano tre, quattro secondi, in particolare erano coinvolte le donne impegnate nel montaggio delle televisioni e delle radio. Soprattutto d’estate, svenivano per il caldo dei locali e il fumo della pasta per saldare.
Un’altra questione delicata era la galvanica, dove si respiravano vapori nocivi e c’era il problema della tutela della salute.
Un aspetto particolare era quello dell’igiene, degli spogliatoi, dei gabinetti che avevano la porta a metà. Posso quasi dire che la mia vocazione ad impegnarmi nel sindacato è nata nel vedere le condizioni in cui lavoravano le donne.
Col passare del tempo, attraverso accordi sindacali, vennero definiti con maggiore precisione i compiti della commissione interna e si iniziarono a condurre delle trattative vere e proprie. Nel mio ruolo di presidente della commissione avevo una funzione di catalizzatore della nostra iniziativa, ma alle trattative partecipava tutta la commissione. Affrontavamo i problemi del nostro stabilimento, ma anche le questioni del gruppo insieme alle altre commissioni interne.
Alla Magneti Marelli abbiamo sempre avuto la possibilità di tenere assemblee, ma senza la partecipazione di esterni. Le facevamo in mensa, quando era necessario, mentre gli operai mangiavano.
Io ho sempre frequentato la mensa degli operai anche se, come impiegato, avrei dovuto mangiare insieme ai miei colleghi, nella mensa riservata a loro. Un giorno mi mandò addirittura a chiamare il capo del personale per domandarmi il perché della mia scelta, io risposi che nella mensa degli operai si mangiava meglio. Capì che era un pretesto, ma non mi disse più niente. Gli impiegati erano fedeli, non scioperavano, e rompere quel tabù voleva dire essere pericoloso.
Dopo la mia prima elezione in commissione interna la direzione non mi ha più creato problemi, anche perché io sempre curato il mio lavoro e non lo trascuravo. Anche quando sono entrato a far parte dell’esecutivo provinciale della Fim, al termine degli incontri, che solitamente erano dalle 10,30 alle 12, tornavo in fabbrica, mangiavo in mensa e riprendevo il mio posto.
Nell’esecutivo provinciale dei metalmeccanici Fim sono stato eletto nel 1955. Segretario provinciale era Pietro Seveso, ma c’era già Pierre Carniti che gestiva e ci faceva rigare diritti. Eravamo in otto o dieci. Qualche anno dopo, sempre rimanendo in fabbrica, sono stato eletto prima nel direttivo nazionale della Fim e poi anche nel consiglio generale della Cisl di Milano.
Nel periodo della mia esperienza in fabbrica ho partecipato a moltissimi momenti formativi organizzati dalla Fim. In particolare, nella seconda metà degli anni cinquanta, il sabato e la domenica si andava alla Gazzada. Contemporaneamente frequentavo un gruppo di formazione ecclesiale, organizzato da Giuseppe Dossetti e Beniamino Andreatta, che riuniva gli “intellettuali lavoratori” all’istituto Gonzaga di Milano. Il venerdì pomeriggio, all’uscita dalla fabbrica, prendevo il tram e andavo in centro. Ricordo che partecipavano, tra gli altri: Fausto Gavazzeni, Nicola Ballatore, Sebastiano Gilardi e Paolino Riva. Ci incontravamo lì perché era vicino alla stazione centrale e si prendeva l’ultimo treno per tornare a casa. Un’esperienza che è andata avanti fino ai primi anni sessanta.
Dopo ventisei anni di lavoro alla Magneti Marelli, era il 1968, Carniti, che era segretario generale della Fim milanese, ma si preparava ad andare a Roma, venne a Sesto San Giovanni in fabbrica a parlarmi, proponendomi di lasciare il lavoro per entrare nella segreteria della Fim provinciale.
C’erano delle rivalità su chi dovesse fare il segretario generale a Milano al suo posto. Il candidato era Sandro Antoniazzi, che aveva già lavorato con Pierre Carniti, ma Antoniazzi era appena tornato dal seminario, dopo aver lasciato il sindacato per un certo periodo. Allora Carniti pensò che potessi dargli una mano. Eravamo prima delle ferie: <<se vogliamo evitare la divisione della Fim>> mi ha detto <<tu devi scegliere e lasciare la fabbrica>>. Io le ferie non le ho quasi fatte, ero traumatizzato da quella proposta. Ci ho riflettuto molto, mi sono consigliato con Cesare Pagani, della Fim nazionale, con monsignor Tarcisio Ferraroni, che era prevosto di Sesto San Giovanni, il quale mi disse: <<vai>>.
Rientrato al lavoro, a fine agosto, sono andato dal mio superiore per dirgli che avevo deciso di accettare la proposta di impegnarmi a pieno tempo nel sindacato. Lui è rimasto senza parole, e mi ha detto solamente: <<vada, vada pure>>. Dopo cinque minuti è arrivato al mio posto in reparto il capo del personale: <<ho parlato con l’ingegner Bruno. Forse lei non si è molto riposato durante le ferie, per cui vada a casa e ci ripensi. Ci vediamo tra otto giorni>>. Gli ho risposto: <<no guardi, lei non ha capito, io non vado a casa, vado via dalla fabbrica>>. E così è stato.
Siccome c’era il problema di finire i disegni per la metropolitana abbiamo concordato che, per sei mesi, al mattino sarei andato in ufficio e il pomeriggio alla Fim.
L’idea diffusa tra i capi, e anche tra molti impiegati, era che i sindacalisti fossero degli scansafatiche, dei perditempo. I miei colleghi, però, avevano capito il valore della mia scelta. Il clima generale del paese e nei luoghi di lavoro iniziava a cambiare e così anche alcuni di coloro che non facevamo mai sciopero per timore di rovinare la propria carriera mi incoraggiarono nella mia decisione.
Al sindacato
Il primo ottobre del 1968 sono entrato nella segreteria provinciale della Fim di Milano. Nel settembre del ’69 Antoniazzi ne è diventato il segretario generale, col passaggio definitivo di Pierre Carniti alla segreteria nazionale dei metalmeccanici della Cisl.
Sono arrivato alla Fim in sintonia con le idee che la caratterizzavano allora: uguaglianza, libertà, giustizia, partecipazione. Ho vissuto il periodo tra il ‘68 e il ‘69 come la realizzazione di ciò che pensavo. Erano idee desunte dall’esperienza che ho fatto in fabbrica, ma che trovavano riscontro nel dibattito sindacale. C’era una forte carica ideale e quei valori secondo me si ritrovavano tutti dentro la piattaforma per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro.
In Fim mi occupavo in particolare degli aspetti organizzativi e ho seguito la nascita dei consigli di zona. Ho scritto anche alcuni articoli sulla rivista della Fim su questi nuovi organismi in cui prefiguravo la costruzione di un sindacato di territorio. Le prime iniziative che abbiamo assunto furono quelle di promuovere le richieste di uno 0,5% della busta paga per realizzare le mense interaziendali dove non c’erano.
Seguivo anche tutte le vertenze del settore dell’elettromeccanica. In quegli anni ho sostenuto la necessità di creare un “sistema Italia”, mettendo insieme aziende pubbliche e private del settore. Le fabbriche erano in crescita e ci si preparava ad entrare nel nucleare. Si parlava di costruire venti centrali atomiche sul territorio italiano.
In Fim, in quel primo periodo, eravamo molto uniti e c’era piena condivisione delle scelte. La nostra era una linea per la giustizia, l’uguaglianza, non per l’egualitarismo di cui è si iniziò a parlare qualche anno più tardi. Si rivendicava parità di trattamenti tra impiegati e operai in caso di malattia, per le ferie. Ci siamo battuti per la partecipazione, il diritto d’assemblea.
Ero appena arrivato al sindacato e ho contribuito all’organizzazione delle vertenze che hanno preparato l’autunno caldo, che non è nato per caso. I lavoratori nelle aziende cominciavano a porsi il problema economico perché vedevano che i profitti erano alti e allora iniziavano a chiedere aumenti salariali. Veniva Carniti alle riunioni e diceva che dovevamo chiedere più soldi. Io ero un po’ impressionato, perché temevo che quello che proponeva fosse irrealizzabile. Furono vertenze che si chiudevano sempre in Prefettura, non in Assolombarda.
Le esperienze che più mi hanno colpito in quegli anni sono state le grandi manifestazioni. Mi trovavo coinvolto in vicende che vivevo per la prima volta e per me erano sconvolgenti.
Sono stato alla manifestazione a Roma per il contratto del ’69, e quell’evento mi ha molto impressionato. Eravamo in Piazza del Popolo e sul palco c’era Luigi Macario. Improvvisamente iniziò a sorvolare la piazza un elicottero, volando sempre più basso. Era quasi sull’imbrunire, e le sue luci si proiettavano sulle nostre teste. La gente cominciava ad agitarsi e Macario urlava nel microfono: <<fermi, state fermi>>. Non è successo niente, ma io sono andato in una chiesetta a pregare.
In Cisl, a Milano, il responsabile era Roberto Romei, poi è subentrato Mario Colombo. Ci furono dei problemi tra noi e la Cisl, ma non grandi questioni. Vedevo che, ad esempio, quando partecipavamo alle manifestazioni per il Vietnam c’era un po’ di disorientamento nella segreteria provinciale. Le difficoltà maggiori, però, nascevano più con le altre categorie che non con l’Unione. Facevamo i picchetti. Erano cose nuove che creavano preoccupazione, lasciavano un po’ perplessi i dirigenti. Io le ho sempre condivise perché rispondevano al mio sentire.
Un’esperienza molto forte è stata la strage di Piazza Fontana. Ero in ufficio e mi telefonò Piergiorgio Tiboni: <<ho sentito che è successo qualcosa alla Banca dell’Agricoltura, forse è scoppiata una caldaia>>. Cinque minuti dopo arrivò la conferma che era una bomba. Allora ho preso la mia cinquecento per andare sul posto ma, arrivato in zona Palestro, era tutto bloccato e non si poteva passare. Ho parcheggiato la macchina e mi sono incamminato a piedi. Sono arrivato vicino a Piazza Fontana dove ho trovato un poliziotto che mi conosceva e, accompagnato da lui, sono arrivato fin quasi sulla soglia della banca. E’ stata una visione tragica. C’era gente che urlava, piangeva, bestemmiava. Tornato in sede, è arrivata una telefonata da Roma che convocava il consiglio generale della Fim per l’indomani mattina. Abbiamo viaggiato tutta notte in treno e la mattina dopo abbiamo fatto la nostra riunione. Il pomeriggio ce n’è stata un’altra, questa volta unitaria. Il messaggio fu: <<chiudere immediatamente il contratto>>.
Nel 1972 abbiamo dato vita alla Flm, la Federazione unitaria dei metalmeccanici. E’ stato al Centro Schuster. Prima avevamo fatto il congresso di scioglimento al Piccolo Teatro di Milano. Io ero sul palco insieme a Carniti, che dal 1970 era segretario generale nazionale della Fim. Poi, sempre a Milano, al Teatro San Babila, abbiamo celebrato anche il congresso di scioglimento della Fim nazionale.
Brigate rosse
Ho attraversato tutta l’epoca delle Brigate rosse, vivendo da vicino, in particolare, l’assassinio del capo del personale della Magneti Marelli, Renato Briano, avvenuto nel novembre del 1980. Era un cristiano serio. Lo conoscevo perché qualche tempo prima avevo fatto una trattativa con lui. Era l’una di notte ed eravamo ancora riuniti in Assolombarda, ma la situazione non si sbloccava per una questione di soldi, anche se le distanze non erano più molto grandi. I presenti cominciavano a innervosirsi. Io non avevo ne mangiato ne bevuto e, tra l’euforia e la stanchezza della situazione, ho avuto un momento di lucidità. Ho portato Briano in una stanzetta e gli ho spiegato la situazione. Dopo averci pensato un po’ mi disse: <<va bene>>. Sono sceso tra i lavoratori e i sindacalisti che partecipavano alla trattativa e ho detto semplicemente: <<siamo a posto>>. La vertenza era chiusa.
Poco dopo lo hanno ammazzato. Il giorno in cui è successo ero a Severo, insieme ad Antonio Pizzinato, che era già passato dalla Fiom alla Cgil, mentre io ero ancora in Fim. Pizzinato mi disse: <<hanno ucciso Briano sulla metropolitana>>. Siamo andati immediatamente a Sesto San Giovanni. Alla Ercole Marelli c’erano alcuni delle Brigate rosse, li conoscevo, erano ragazzi iscritti alla Cgil, distinti, impegnati. Lo hanno ammazzato perché era un direttore del personale intelligente, che assecondava il confronto con il sindacato.
Ho partecipato ai funerali celebrati dal cardinal Carlo Maria Martini nella sua parrocchia in corso XXII marzo.
Un altro fatto che ho vissuto molti anni prima mi aveva già impressionato. Nel consiglio generale della Flm dovevano essere rappresentati anche i delegati delle fabbriche più grandi, con più di 1.500 dipendenti. Io sono andato alla Sit Siemens a fare la riunione del consiglio di fabbrica per concordare chi dovesse partecipare. Vedevo che c’era un’aria strana e alla riunione mancava un delegato. Da tempo correva voce che in quell’azienda ci fossero dei brigatisti e infatti quello improvvisamente era scomparso.
La rottura
I problemi dentro la Fim di Milano sono nati con l’ingresso in segreteria di Piergiorgio Tiboni e Giuseppe Mattei. Rino Caviglioli in quel momento era il coordinatore della Fim di Milano, ruolo di responsabile che solo a Milano si chiamava così perché avevamo deciso di abolire la figura del segretario generale, e membro dell’esecutivo nazionale. Era andato un giorno a Trento per partecipare a uno sciopero e una manifestazione nella più grande fabbrica del territorio. In piazza c’erano quattro gatti. Lì ha incontrato Mattei che era isolato, in disparte. Siccome era un sindacalista preparato, gli ha proposto di venire a Milano e lo ha trasferito alla Fim di corso Sempione, a seguire l’Alfa Romeo. In Fim sono rapidamente emerse due linee: la nostra e un’altra, non barricadiera, ma più legata al potere che agli ideali.
Ad una delle prime riunioni del consiglio generale della Flm milanese riunito una sera a Sasso Marconi, ci fu la distribuzione degli incarichi e Tiboni si fece assegnare la gestione della cassa. Per la Fim c’erano Bruno Manghi, Luisa Morgantini, io, Arturo Cremascoli, Caviglioli, Mario Stoppini, Roberto Maiocchi. Era il 1973 e Sandro Antoniazzi era passato alla segreteria della Cisl provinciale. In quel tempo Manghi lavorava come operaio in una fabbrica dove costruivano campanelli e ogni volta che arrivava alle riunioni si annunciava con i trilli di uno di questi che aveva sempre con se.
Per stabilire gli incarichi abbiamo fatto riunioni a non finire. Tutto questo mi disturbava, erano comportamenti che mi davano fastidio, perché ero al sindacato per altre ragioni. E ciò avveniva proprio nel momento in cui le fabbriche, dopo i contratti del ’69 e del ’73, avevano iniziato a ristrutturare per innovare, avviando i primi decentramenti delle attività produttive, riducendo il personale. E noi lì a litigare. La Fiom è stata molto corretta, avrebbe potuto sfruttare la situazione, invece non ha mai interferito nelle nostre vicende.
Nel frattempo, a metà degli anni settanta, sono stato nominato primo coordinatore regionale della Fim della Lombardia, insieme a Bruno Paccagnella. Avevamo un ufficio, prima in via San Gregorio e poi in via Torino, insieme alla Cisl. Nella veste di coordinatore regionale giravo un po’ per la Lombardia. Andavo a Sondrio, a Crema, a Mantova, Pavia, Cremona. Raccontavo alle strutture più piccole quello che facevamo a Milano. A Brescia non sono mai stato, avevamo dei buoni rapporti, ma loro erano in grado di camminare con le proprie gambe, io invece andavo nei territori più piccoli. Dopo di me è arrivato Bruno Provasi che venne eletto primo segretario generale della Fim Lombardia in occasione del congresso del 1981.
L’ultimo periodo in Fim è stato molto duro, di forti contrasti, anche se non sul piano personale. Ricordo che quando dalla segreteria sono usciti Stoppini e Maiocchi sono entrati la Morgantini e Laudini, sono volate le sedie. Arrivavano persone che avevano poco a che fare con la Cisl. Cremascoli, che era diventato il segretario organizzativo, veniva addirittura in segreteria con un registratore nascosto e poi usava le registrazioni per la battaglia politica.
Il consiglio generale di rottura con Tiboni lo abbiamo riunito nel salone delle Acli provinciali di Milano. Io non sono stato attaccato personalmente, ma gli ultimi due sono stati anni di morte, nonostante non ci fossero motivi personali contro di me. Tant’è vero che nell’ultimo congresso della Fim cui ho partecipato, nel 1981, in occasione delle quattro votazioni previste: per il direttivo Fim provinciale, i delegati al congresso regionale e nazionale della Fim, i delegati al congresso provinciale della Cisl, sono risultato primo eletto su tutte e quattro le schede.
Ma era finita un’epoca alla Fim di Milano. Non mi ritrovavo più. Non erano queste le ragioni per cui ero arrivato al sindacato e, nonostante Tiboni mi avesse proposto di rimanere in segreteria, me ne sono andato.
A Monza
Sono rimasto in Fim fino al 1982. Un giorno è venuto a parlarmi Gigi Perego, il segretario generale del nuovo comprensorio Cisl di Monza, che si era resa autonoma rispetto a Milano, e mi ha proposto di andare con lui. Così sono passato in Brianza dove sono rimasto nella segreteria territoriale per un anno e mezzo circa.
Tra le iniziative più interessanti che ho seguito vi è stata una ricerca, realizzata insieme alla Cgil, sulla struttura produttiva del territorio della Brianza dove, forse per la prima volta, abbiamo verificato in modo organico che ormai le aziende erano tutte piccole e piccolissime. Siamo andati in tutti i comuni del comprensorio, abbiamo girato ogni fabbrica e quando ho visto i dati finali sono rimasto decisamente sorpreso. Per me è stata una scoperta.
Nel frattempo era arrivato a Milano il cardinal Martini e un giorno, era un sabato pomeriggio alle quattro, mi ha telefonato e mi ha detto: <<perché non viene a dare una mano alla Pastorale del lavoro?>>. E ci sono andato.