Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Dall’oratorio alla fabbrica. Il sindacato bianco nella Stalingrado d’Italia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007
Sono nato a Comacchio il 2.12.1932, dove ho frequentato le scuole elementari. Nel 1956, dopo il servizio militare, grazie a un caso sono venuto a Sesto San Giovanni e sono stato assunto in una fabbrica chimica dove producevano resine per i dischi. Un giorno, mentre tornavo a casa dalla caserma con alcuni amici, ho raccontato che ero preoccupato perché non avevo un lavoro. Sceso dal treno, ancora in stazione mi sento chiamare da un signore che aveva ascoltato le mie parole e mi ha dato il suo biglietto da visita. Era il direttore della Società italiana resine e mi ha proposto da andare da lui appena finito il militare. Lasciata la caserma mi sono presentato, ho fatto la visita medica e sono stato immediatamente assunto. Ci sono rimasto due mesi poi, nel marzo dello stesso anno, sono entrato in Pirelli.
Nel frattempo, infatti, avevo presentato domanda di assunzione nella grande fabbrica. Mi hanno chiesto delle referenze, ma non ne avevo, allora ho detto che avevo un fratello sacerdote e ho dato il suo numero di telefono. Dopo una settimana mi hanno chiamato.
Alla Pirelli se eri iscritto al Pci entravi, se appartenevi alla Democrazia cristiana era difficile, perché le assunzioni erano gestite dalla Cgil. Anche per i socialisti c’erano dei problemi, infatti appena i socialisti hanno cominciato a prendere le distanze dal Pci hanno fatti fuori tutti i commissari socialisti. Ma un prete allora contava.
Sono stato assunto come operaio, addetto alla produzione di materassi, guanciali, sedili per le automobili, lavoravo su tre turni, a ciclo continuo, fino alla domenica mattina. Per un anno ho avuto un contratto a termine, che veniva rinnovato di mese in mese. Sono andato a lavorare anche con la febbre. Qualche tempo dopo, dalla produzione sono passato alla sala mescole, dove si preparavano le materie prime che servivano per fare i materassi. Lì ci sono stato fino al 1974, quando mi hanno trasferito a Milano, per riduzione di personale. Ho cercato di oppormi, ma ho dovuto accettare, altrimenti avrebbero trasferito un altro al mio posto e, siccome ero in commissione interna, tutti lo avrebbero considerato un trattamento di favore.
In Pirelli Sapsa erano occupate un migliaio di persone. Sulla macchina eravamo in tre e non ci si poteva nemmeno staccare per andare in bagno. Se andavi al gabinetto arrivava immediatamente la guarda a richiamarti e poteva controllarti attraverso le feritoie delle porte. Le condizioni di lavoro erano pesanti, nocive. Era come essere all’inferno. Così ho cercato un contatto con il sindacalista della Cisl. La maggioranza in azienda era della Cgil, ma io mi ero iscritto alla Cisl già nel Veneto, a 18 anni, mentre lavoravo saltuariamente in agricoltura, in occasione di un corso per trattoristi. In fabbrica la Cisl aveva due commissari, ma erano persone scelte dall’azienda, che decideva le liste, così li abbiamo fatti fuori. Uno era un impiegato e pensava alla sua carriera, l’altro era in magazzino e se ne fregava.
Quando alla Bicocca hanno ottenuto l’aumento dei cottimi e il premio di produzione, cosa che alla Sapsa non sapevamo neppure cosa fosse, abbiamo deciso lo sciopero anche noi. Era la primavera del 1962. Per la prima volta l’azienda si è trovata con i lavoratori che avevano capito che bisognava pestare i piedi. La commissione non era d’accordo, anche quelli della Cgil che erano in quattro, oltre a uno della Uil. I miei compagni di turno erano con me e ho cominciato a iscriverli alla Cisl. I commissari della Cgil intervenivano nelle assemblee a dire che non dovevamo scioperare, ma dopo il mio turno sono partiti anche gli altri. Abbiamo fatto 75 giorni di sciopero. Erano scioperi duri, portavamo fuori gli impiegati di peso sulle loro sedie, stavamo continuamente sui cancelli, ma abbiamo anche forzato gli ingressi per fare delle assemblee.
Una sera, dopo circa 30 giorni di sciopero, ero a casa e si sono presentati sulla porta il commissario della Cisl con un dirigente dell’azienda per chiedermi di far smettere lo sciopero, ma senza alcuna concessione. Gli ho risposto di no e siamo andati avanti.
Avevamo piantato una tenda davanti alla fabbrica, facevamo da mangiare per i lavoratori che venivano da lontano. Raccoglievamo offerte per sostenere la nostra lotta e anche il mondo cattolico sestese ci ha aiutato. Due impiegati che erano con noi tenevano i conti e noi distribuivamo i soldi alle persone che ne avevano più bisogno per pagare l’affitto o altro.
Dopo 73 giorni, il 23 luglio ci siamo fermati e siamo rientrati senza aver conquistato niente, ma con un danno enorme per l’azienda, che ha dovuto spendere un sacco di soldi per far ripartire la produzione. Il giornale di Sesto del Pci era uscito con articoli che criticavano la lotta dei lavoratori della Sapsa perché non avrebbe portato a niente. Ma non è stato un errore, perché quello è stato l’unico modo per rompere il potere di coloro che tenevano le redini dei lavoratori. La Cgil in Pirelli Sapsa era la cinghia di trasmissione del partito. Il meccanismo di potere era: Pirelli, Pci, commissari della Cgil.
Dopo lo sciopero abbiamo scoperto che i commissari prendevano soldi dall’azienda. Un’impiegata del direttore amministrativo, che aveva partecipato alla protesta, era stata spostata di posto e trasferita in magazzino perché considerata non affidabile. Un giorno è venuta da me e mi ha mostrato un foglietto di carta, scritto dal direttore amministrativo e indirizzato all’ufficio paghe, che diceva di versare una cifra significativa a un commissario della Cgil. Allora ho parlato a quella persona e gli ho detto che se non voleva che io andassi in assemblea a dire che aveva preso soldi dall’azienda doveva lasciare.
Il rapporto con la Cgil è sempre stato conflittuale. Quelli che erano entrati insieme a me facevano ciò che dicevano gli anziani, erano indottrinati. Ma, al contrario, gli iscritti alla Cgil ci seguivano. Nel mio turno il 99% era iscritto alla Cisl, il secondo era diviso tra le tre sigle e il terzo turno era all’80% della Cgil.
Il rapporto umano era quello di gente fanatica nei confronti di altri che non la pensano come loro. Ci si limitava al saluto e tutto finiva lì. Non ci sono mai stati scontri violenti, la loro tecnica era quella di estraniarsi, lasciavano tirare il carro a noi, ma non si mettevano esplicitamente contro. Anche se in commissione interna di scontri ne abbiamo avuti tanti, a partire dalla cassa di previdenza.
Nel periodo in cui si costruiva l’unità, negli anni ‘67, ‘68, ‘69, gli iscritti la sostenevano ma i commissari della Cgil erano sempre defilati, non ci credevano. Poi, quando hanno capito che non riuscivano più a controllare i lavoratori, allora anche loro sono arrivati.
Un giorno il mio turno, da solo e senza la Cgil, decise di scioperare per chiedere la cassa di previdenza come avevano in Bicocca. Ci fermavamo una o due ore ogni notte, ma gli altri turni non si fermavano. Nonostante questo, l’azienda mostrava una certa disponibilità a discuterne, ma non siamo riusciti ad ottenere la cassa a causa dell’intervento di un sindacalista della Cisl che mi chiese di aspettare qualche mese, e alla fine non abbiamo conquistato nulla.
Più volte abbiamo dovuto fare causa all’azienda, con l’avvocato della Cisl. Le abbiamo sempre fatte da soli e le abbiamo vinte tutte. Però noi della Cisl siamo sempre stati corretti nel rapporto con l’azienda.
Successivamente abbiamo fatto delle vertenze per i cottimi, il premio di produzione e la riduzione d’orario.
Tutte le battaglie che facevamo in Pirelli aprivano sempre dei conflitti con la Cgil, perché noi pensavamo alle condizioni di lavoro e loro erano attenti alle scelte politiche, ideologiche. Io non avevo nessuno nella Cisl che mi diceva devi fare certe scelte per ragioni politiche, anche se la prevalenza era di democristiani.
Con le nostre battaglie abbiamo rotto quel senso di dominio che il partito aveva in Pirelli Sapsa.