Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Dall’oratorio alla fabbrica. Il sindacato bianco nella Stalingrado d’Italia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007
Sono nato il
2.11.1943 a Bolghere, in provincia di Bergamo. A Sesto San Giovanni sono
arrivato con la famiglia il 2.8.1952.
Siamo 5 fratelli maschi. Mio padre era un militante socialista, ha lavorato in
Falck ma non si è mai impegnato sindacalmente, mentre un fratello era un
fervente comunista. Ho frequentato
la 3^ elementare al paese, la 4^ presso la scuola “Martiri della libertà” di
Sesto, la 5^ alla scuola elementare del villaggio Falck. Poi mi sono iscritto
alla Saap (Scuola di avviamento e addestramento professionale), sempre di
emanazione aziendale, e ho conseguito la licenza media inferiore.
Ho iniziato a
lavorare a 13 anni e 7 mesi, nel luglio del 1957, come apprendista in
un’officina meccanica di lattoneria a Sesto. Fino a 21 anni sono stato occupato
in diverse piccole aziende, sempre meccaniche, sempre in regola.
Contemporaneamente ho frequentato un corso serale biennale di disegno tecnico
presso la scuola Cattaneo a San Rocco di Monza. Terminato il corso sono stato
assunto come tornitore in un’officina a
Gorla, dove sono rimasto fino alla
partenza per il servizio militare.
Al ritorno,
nell’aprile del ’64, sono entrato in Falck. Prima dell’assunzione ho dovuto
fare il “capolavoro” presso l’Officina meccanica costruzioni (Omc).
Inizialmente sono stato inserito alla torneria cilindri, nello stabilimento
Unione. Per circa cinque anni sono stato in quel reparto, dove si costruivano i
nuovi cilindri per il laminatoio e si ripassavano quelli usurati. Era un lavoro
che mi piaceva abbastanza, anche se si era isolati, chiusi in una cabina vicino
al laminatoio, e i contatti con le persone complicati. Lavoravo su turni,
normalmente due, ma a volte anche su tre
in occasione di alcune campagne urgenti. All’ingresso mi venne assegnato il
numero di matricola 3841.
A metà del 1970
venni trasferito in Omc, dove erano occupate 340 persone, tutti operai con alta
professionalità, che lavoravano su torni, frese e rettifiche. Il mio nuovo
numero era il 5339. Sono stato inserito nel reparto “media meccanica” dove sono
rimasto fino al 1991, quando il 6 agosto sono uscito dall’azienda in cassa
integrazione straordinaria.
Col passare
degli anni il tempo che dedicavo al lavoro era sempre meno, essendo
sostanzialmente l’unico distaccato dalla produzione per la Fim all’interno
dell’Unione rispetto ai tre o quattro della Fiom. Un impegno pressoché totale
per il sindacato, maturato essenzialmente in azienda.
Ho avuto una
formazione cattolica, ma non sono mai stato un “paolotto”, non ho alle spalle
esperienze nei gruppi dell’impegno cattolico, la mia era una forma più laica di
presenza, una modalità diventata maggioranza nella Fim di quegli anni, che
voleva affermare l’autonomia del sindacato in un senso più vasto di quello
tradizionale.
Mi sono iscritto
al sindacato lo stesso giorno in cui sono entrato in Falck. La prima persona
che ho conosciuto in azienda è stato Gaspare Viscardi, rappresentante Cisl, il
quale, prima ancora di domandarmi come mi chiamavo, mi ha chiesto di fare la
tessera della Fim. E’ stata la mia prima tessera, anche se in precedenza avevo
preso parte a qualche sciopero nelle aziendine dove avevo lavorato.
Viscardi mi ha
fatto partecipare a un corso di formazione che si teneva ad agosto, utilizzando
le mie ferie, a Villa Paradiso di San Pellegrino Terme. Ho frequentato anche
gli incontri di studio e di preghiera che si tenevano alla Pro Civitate
Cristiana di Assisi.
In Falck
esistevano le commissioni interne, poi sono state create le sezioni aziendali
sindacali, io facevo parte della sas della Fim. Con l’avvento dello Statuto dei
lavoratori sono nate le rsa, che erano paritetiche. Nel mio stabilimento, per
circa 4mila lavoratori, i rappresentanti sindacali erano 36: 12 Fiom, 12 Fim e
12 Uilm, poi sono stati costituiti i consigli di fabbrica. Il primo cdf dello
stabilimento Unione era composto da 120 delegati. Ogni gruppo omogeneo aveva il
suo.
Da un reparto a
maggioranza Fim (il laminatoio) sono finito in un reparto a stragrande
maggioranza Fiom. Non so bene quali siano state le ragioni, se abbiano influito
maggiormente le spinte della Fim (in quel reparto a rappresentare la Cisl c’era
Giuseppe Montani, un democristiano molto bravo, ma con poca grinta e quindi
debole nel contrastare la Fiom) o quelle dell’azienda che in qualche modo
voleva modificare gli equilibri. Gli iscritti alla Fim erano critici, ma poco
propositivi.
Nel nuovo
reparto, appena hanno imparato a conoscermi, anche molto iscritti alla Fiom mi
hanno votato, tant’è vero che ero un po’ il cruccio di alcuni quadri storici
della Fiom che non si spiegavano come mai io, cislino, potessi prendere così
tanti voti.
La maggioranza
degli iscritti in Falck era Fiom. In alcuni stabilimenti, in particolare il
Concordia, era netta, all’Unione un po’ meno, al Vittoria gli iscritti si
bilanciavano. La Fim è sempre stata minoranza in fatto di delegati fino al 1989
quando, a Sesto e nel gruppo a livello nazionale, è diventata maggioranza. Era
la prima volta che avveniva in una fabbrica siderurgica italiana.
All’inizio ho
vissuto una fase di travaglio e mi ponevo il problema se continuare o meno
nell’impegno nelle sas, che ritenevo un po’ al di sopra delle mie possibilità.
Pesava anche la perdita dei giorni di lavoro, perché non c’erano permessi
sindacali e tutto era sacrificio personale. L’azienda, pur con molte
difficoltà, concedeva i permessi, ma le ore non lavorate erano trattenute sulla
busta paga.
A fine anni ’60
si sono gettate le basi per un lavoro unitario. Ma c’era ancora molto sospetto
tra Fim e Fiom. Il gruppo delle sas rompeva molti schemi rispetto alle
commissioni interne. Ad esempio, per quanto riguarda i passaggi di categoria,
le commissioni interne preparavano un elenco che poi sottoponevano alla
direzione, cui toccava la decisione. Il potere contrattuale delle commissioni
interne era più rappresentativo delle organizzazioni che altro. Poi, insieme,
abbiamo iniziato un percorso che ha portato a nuove conquiste, oltre che al
voto su scheda bianca, senza le candidature: tutti eleggibili, tutti elettori.
Molto presto sono
stato inserito nel direttivo provinciale della Fim e questo mi ha aiutato nella
mia attività: avevo otto ore al mese retribuite e ciò, oltre a darmi una certa
responsabilità nel rappresentare a livello provinciale la categoria, mi ha
messo a posto con i miei dubbi e le mie perplessità. Fino a quando, nel
congresso della Cisl del 1981, ho avuto l’85% delle preferenze, e sono finito
davanti a Sandro Antoniazzi.
Nella primavera
del ’68 abbiamo fatto un primo picchetto “vero” davanti alla direzione. Allora gli
impiegati erano 420, nessuno iscritto al sindacato. In cinque stavamo sulla
porta d’ingresso, con la stragrande maggioranza degli impiegati fuori e circa
200 agenti di polizia fermi sotto i portici lì davanti. Alcuni dirigenti ci
hanno buttati per terra e calpestato per entrare a lavorare.
Nel mio percorso
sindacale, uno dei momenti più significativi, è stato l’accordo aziendale del
1971. Prima esperienza di una lunga vertenza, con 172 ore di sciopero. La
protesta era partita nella tarda primavera del 1970. Ha portato alla prima
grande intesa aziendale, firmata il 18 febbraio, giorno di paga in Falck. Molti
accordi successivi portano quella data. I contenuti erano: il riconoscimento
delle strutture sindacali in azienda, la mensa, l’ambiente (abbattimento fumi,
aspirazione dei forni), primi tentativi di eliminazione delle paghe di posto,
primo riconoscimento per la creazione del fondo integrativo sanitario aziendale
(Fao).
L’ultimo accordo
aziendale vero, prima della crisi, è stato fatto nel 1988.
Il rapporto con
la Cgil. Ho ben presente il congresso di scioglimento della Fim che si è tenuto
a Milano presso il Teatro Nuovo in San Babila nel maggio del ‘72, con assalti
ripetuti delle squadracce nere all’ingresso del teatro, che strappavano i
nostri manifesti e li bruciavano in piazza. Eravamo tanto convinti dell’unità
che siamo stati l’unica categoria che ha deciso il proprio scioglimento. Alla
prova dei fatti non siamo riusciti a costruire l’unità, abbiamo realizzato solo
un patto federativo. Abbiamo però dato vita alle sedi unitarie. Antonio
Pizzinato, nel 1972, ha inaugurato la sede della Flm di Sesto San Giovanni, in
via Benedetto Croce.
La Fiom, invece,
non ha deciso lo scioglimento. Questa vicenda mi ha rafforzato nella scelta per
la Fim e anche nella convinzione di dovere condurre le battaglie a muso duro
nei confronti dei quadri della Fiom. In questa occasione si è manifestata
l’autonomia della Fim rispetto alla Cisl. Un comportamento completamente
opposto a quello della Fiom rispetto alla Cgil, cui si aggiungeva la forte
influenza del Partito comunista. Il fatto che non fossi iscritto a nessun
partito faceva arrabbiare maledettamente i quadri della Fiom. Per loro era
inconcepibile dissociare l’impegno sindacale dalla militanza dentro il partito.
Le loro tessere erano, prima quella del Pci e poi, automaticamente e a scalare,
quella Fiom.
La nostra
autonomia è stata un fattore vincente La scelta della Fim di condurre nella
Cisl la battaglia per l’autonomia rispetto ai partiti, alla Dc in particolare,
ha dato grande forza alla Fim dentro l’azienda. Ci caratterizzavamo come Fim
nella contrattazione decentrata, senza mai dimenticare l’appartenenza non a un
partito ma alla confederazione. Io usavo
dire ai miei colleghi che avevo due tessere, una della Fim e una della Cisl.
Non tutti la pensavano così in Fim, nella mia generazione c’era chi non si
sentiva parte della Cisl.
La Fim di allora
era una cosa un po’ strana, fatta di democristiani che non riuscivano a
scrollarsi di dosso fino in fondo la madre Dc, e da persone che militavano in
partiti come il Pdup o Democrazia proletaria o nei gruppi extraparlamentari
come Avanguardia operaia. Io ho sempre cercato di mantenere la mia autonomia di
giudizio e di scelta nella contrattazione - e per questo penso di essere stato
apprezzato dai lavoratori - ma quando dovevo scendere in campo lo facevo come
Cisl.
In azienda
c’erano molti quadri storici del Pci e le cellule Picardi e Migliorini
intervenivano nelle attività sindacali e sui problemi aziendali. Noi della Fim
tenevamo le riunioni nella sede Cisl di via Fiorani, per preparare le
piattaforme e decidere le linee da adottare di volta in volta. Gli esponenti
della Fiom cambiavano cappello e si trovavano
in via Falck, vicino al circolo Progresso, ed esprimevano la loro
posizione come partito. Giocavano su due tavoli per cercare di condizionare le
nostre posizioni. Non ho mai assistito, però, ad un attacco esplicito da parte
della cellula del Pci alla Fim.
Il Pci e la Fiom
in azienda non hanno mai denunciato, cosa che noi abbiamo fatto, che è stata
finanziata la siderurgia pubblica con una mucchio di soldi. E’ vero che alla
fine anche i privati li hanno ricevuti, ma con una forte discriminazione. Nel
1985, anno della grande ristrutturazione, si discuteva quali impianti chiudere
in Italia: Falck Concordia contro Lamiere di Campi, Falck Unione treno nastri
contro treno di Bagnoli. Il responsabile della Fiom per la siderurgia a Sesto
San Giovanni, Gianni Pedò, in un’assemblea affollatissima difese Bagnoli perché
la proprietà era pubblica ed era un feudo della Fiom, affermando che: “Il treno
di Bagnoli è la seta della siderurgia italiana, il treno nastri di Sesto sono
gli stracci”.
All’età di 18
anni, davanti allo stabilimento Unione - non ci lavoravo ancora, ma ero presente
- l’allora sindaco Abramo Oldrini si era messo in mezzo a centinaia di persone
in sciopero, inferocite contro alcuni che volevano entrare a lavorare, ed era
riuscito a riportare la calma consentendo l’ingresso. Tra questi c’erano i
nostri iscritti alla Cisl. I picchetti allora non erano passeggiate, ma erano
duri, violenti ed entrare era un atto eroico. Questo fatto di violenza, di
sopruso verso la libertà di altri, come pure il comportamento di un sindaco
fervente comunista, ex operaio Breda, che si metteva in mezzo ad altri
comunisti, per garantire la libertà, mi ha colpito molto.
Una volta
entrato in Falck ho più volte dovuto confrontarmi con situazioni di forte
tensione. Non ho mai subito aggressioni fisiche da parte della Fiom, ma ci sono
andato molto vicino. Ho avuto degli attacchi personali da parte di alcuni
delegati appartenenti a una struttura alternativa, ma che stavano dentro la
Fiom e che la Fiom usava per costruire consenso. Persone che cambiavano
continuamente sigla: una volta si chiamavano “Giovani Falck”, un’altra “Operai
contro”. Tenevano posizioni oltranziste per creare problemi soprattutto a noi,
non all’azienda, che nemmeno scalfivano, a noi perché incarnavamo l’anima
contrattualista. “Fin che si può si deve contrattare, fino ad un accordo fra le
parti”, era la nostra posizione, per loro invece lo slogan era “la lotta paga”
e quindi non accettavano altra via. Avevano un atteggiamento offensivo, molto
violento. Intervenivano nelle assemblee per impedirmi di parlare, lanciavano
invettive come “servi, venduti, cislini di merda” e altre parole di questo
tipo. Esponevano nelle bacheche comunicati contro di me. Più di una volta hanno
affisso volantini in cui si citavano, in mala fede, mie affermazioni, con nome
e cognome e la Fiom stava zitta. La solidarietà, quando c’era, era molto
formale.
In occasione
delle assemblee, quando questi urlavano e si accanivano contro di noi, non ho
mai visto uno della Fiom prendere in mano il microfono per richiamarli. Qualche
volta è stato fatto da funzionari esterni, che non potevano esimersi
dall’intervenire in situazioni di tensione molto alta.
Nel 1975 il
segretario della Fiom di Sesto, Aurelio Crippa, diventato poi senatore di
Rifondazione comunista, mise al muro, fisicamente al muro, “violentandolo”, nella
sede unitaria, il nostro responsabile, Guido Laudini, reo di avere manifestato
il primo maggio sotto gli striscioni di Democrazia proletaria e non sotto
quelli del sindacato unitario. C’è stata una vera aggressione fisica, con
Crippa che ha mobilitato i “killer” della zona, tra cui anche alcuni lavoratori
dell’Unione.
Altri attacchi
personali, se non minacce, li ho avuti tra la fine degli anni ’70 e i primi
anni ’80.
Il 28 novembre
1980 le Brigate rosse hanno ucciso l’ingegner Manfredo Mazzanti, direttore
generale dello stabilimento Unione. I brigatisti, purtroppo, potevano contare
su presenze significative in azienda. Mazzanti fu assassinato a Milano, mentre
usciva da casa, dalla brigata Walter Alasia che prendeva il nome da un giovane di Sesto che è stato ucciso in un
conflitto a fuoco nel quale sono morti anche il vicequestore Vittorio Padovani
e il maresciallo Sergio Bazzega.
In fabbrica,
prima dell’omicidio, erano circolati dei volantini. A posteriori abbiamo
scoperto che in azienda c’erano esponenti della Digos che erano stati inseriti
per controllare i movimenti di coloro che erano sospettati di essere
brigatisti. Erano incaricati anche di seguire alcuni di noi per tutelare la
nostra sicurezza, sia in fabbrica che fuori.
Volantini delle
Br sono stati trovati nella sede del patronato Inas, non in quella dell’Inca.
Gli stessi volantini successivamente sono stati lasciati sotto lo zerbino di
casa mia.
Il clima di
quegli anni era pesantissimo. Durante gli scioperi, davanti alla direzione
generale, c’era chi spronava all’azione violenta, a entrare con la forza,
devastare gli uffici. In una di queste occasioni ho subito delle minacce di cui
però non mi sono reso conto subito, ma fortunatamente non ci sono state
conseguenze.
In quei giorni
la solidarietà è stata totale, anche da parte della Fiom. Era chiaro però che
il simbolo da colpire non erano i comunisti, ma la Fim e coloro che venivano
considerati alleati del padrone, perché contrattavano, non si contrapponevano
muro contro muro e quindi erano il nemico da eliminare.
Nel 1984, anno
del “patto antinflazione”, ero tra i pochi in fabbrica a difenderlo. Ci fu una
grande spaccatura in Fim, con interi consigli di fabbrica, compresi i delegati
Fim, contro la Cisl. Scontri ci sono stati tra chi aderiva e chi no al comitato
e partecipava alle manifestazioni per il referendum. La gran parte dei delegati
dava per scontato l’adesione, cosa che io non ho mai fatto.
La Fiom mi
vedeva isolato dentro la Fim, pesava la posizione del Pci, che ha sposato fin
dall’inizio l’idea del referendum. Ero molto in difficoltà, però ero convinto
che quel processo fosse da sostenere. Un clima simile influiva sulla gestione
dei problemi in azienda, anche se in qualche modo le tensioni, quando si
trattava di problemi concreti, si attenuavano. In quel periodo sono stato
marchiato come “anticomunista della Cisl”. La via di mezzo non poteva esserci.
La non militanza politica, la non indicazione di voto veniva tacciata di
qualunquismo, ma per me era importante discutere nel merito dei problemi
aziendali e non per schieramenti ideologici. Nelle battaglie per la
contrattazione aziendale, dal ‘71 all’88, tutto si può dire della Fim, ma non
che non fosse in prima fila nel difendere gli interessi dei lavoratori.
Tra l’84 e l’86
abbiamo vissuto un momento di crisi nei rapporti tra Fim e Fiom molto forte.
Dopo ci ha pensato l’azienda a rimetterci insieme. La Falck nel 1980 aveva
presentato un piano che prevedeva una forte riduzione degli organici. Questo ha
portato nell’81 a concludere l’ultimo dei grandi accordi aziendali, poi è
cominciata la fase calante. Nel 1985 ci fu il primo deciso taglio degli
organici. In quell’occasione furono espulse le frange estremiste che stavano
nella Fiom, con trasferimenti in particolare ad Arcore. Anche alla Falck c’era
un “reparto confino”, al Carp (carpenteria), presso lo stabilimento Vulcano,
dove l’azienda aveva mandato molti dei vecchi quadri del Pci, altri invece
erano dislocati sapientemente in diversi reparti. Dipendeva dalle convenienze,
perché Falck non disdegnava questa politica per avere il controllo delle
persone, indipendentemente dalla loro provenienza. In occasione dei
trasferimenti, sono stato attaccato con un comunicato che parlava di
“deportazione di massa degli operai mentre i garantiti sono rimasti al loro
posto e non sono toccati”. A chi si riferisse era chiaro.
Dall’86 in poi
c’è stata una leggera ripresa dei rapporti che ha portato all’ultimo accordo
aziendale dell’88. Per gestire migliaia di esuberi, attraverso mobilità lunga e
prepensionamenti.
Dopo l’88 inizia
la seconda crisi aziendale che porta all’altra grande ristrutturazione del ’91.
La chiusura è del dicembre 1995. In quel periodo è un bagno di sangue, ma io
l’ho vissuto da pensionato.
Alcuni di noi
avevano rapporti continuativi con il mondo cattolico sestese. Io no, solo
occasionali. Non ho voluto dare questo alibi agli attivisti della Fiom. Non
stavamo sotto le ali della mamma. Qualcuno partecipava regolarmente alle
riunioni di gruppi cattolici, agli incontri della pastorale del lavoro sestese.
Non ho mai avuto
messaggi o sollecitazioni da parte di esponenti della chiesa locale o di Milano
per le mie scelte sindacali in azienda, anche in passaggi delicati. Dobbiamo,
però, ricordare che la Fim era composta da molte anime e io non appartenevo a
nessuna di queste. Probabilmente questo ha portato a far sì che su di me non ci
fossero pressioni, se non mediate attraverso i rappresentanti della Cisl, ma
non da parte ecclesiale.
Qualche
messaggio è arrivato da parte dell’azienda. Non dai massimi esponenti, ma dai
quadri intermedi, che qualche discorsetto me l’hanno fatto: “Ma tu cosa fai con
quelli?”, o simili.
Alberto Falck era anche presidente degli imprenditori
cattolici (Uci). Più volte la Fiom, quando non sapeva più cosa dire, per attaccarci
usava questo discorso. Nei momenti più delicati sicuramente la gerarchia è
intervenuta su Alberto Falck, al punto che in alcune vertenze, in situazioni
molto difficili - tipo quella del 1971 che ha sancito il riconoscimento della
mensa - lui a Natale ha fatto una lettera personale, firmata anche come
presidente Uci, rivolta soprattutto ai lavoratori cattolici, e con grande
fatica ha ceduto.
Nel gruppo Falck
a Sesto, purtroppo, molti sono andati ad ingrossare le file dei deportati nei
campi di sterminio nazisti. In occasione del trentennale degli scioperi del
marzo ’43 abbiamo fatto nei reparti un grosso lavoro di ricerca sui nomi degli
scomparsi. Abbiamo individuato tutte le lapidi che stavano in giro per lo
stabilimento e abbiamo inaugurato un monumento dedicato alla resistenza, con
una grande partecipazione di gente e la presenza di padre David Maria Turoldo,
Mario Capanna, il comandante Pesce, il sindaco, gli studenti delle scuole di
Sesto. Il monumento raccoglieva in un’unica struttura in bronzo tutte le lapidi
e in suo passaggio Turoldo chiese: “Perché quando si vuole indicare la
sofferenza si dice sempre povero Cristo e non si dice mai povero Marx, povero
Lenin?”.
Nel 1974, in
occasione della legge sul divorzio, c’è stata una presa di posizione dei
cristiani “non omologati” nel partito, abbiamo distribuito volantini davanti ai
cancelli dello stabilimento Unione. Per un esponente della Fim volantinare
davanti alla fabbrica per la libertà di voto dei cattolici era un messaggio
coraggioso. Un comportamento che nessun attivista della Fiom avrebbe mai
tenuto, neanche sotto tortura. La Fiom non ha mai preso posizione su temi
civili o simili, se non diffondendo i volantini del Pci.