venerdì 22 maggio 2020

GIACOMO PLEBANI - Falck Unione – Sesto San Giovanni (Mi)

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Dall’oratorio alla fabbrica. Il sindacato bianco nella Stalingrado d’Italia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007

Sono nato il 2.11.1943 a Bolghere, in provincia di Bergamo. A Sesto San Giovanni sono arrivato con  la famiglia il 2.8.1952. Siamo 5 fratelli maschi. Mio padre era un militante socialista, ha lavorato in Falck ma non si è mai impegnato sindacalmente, mentre un fratello era un fervente comunista. Ho frequentato la 3^ elementare al paese, la 4^ presso la scuola “Martiri della libertà” di Sesto, la 5^ alla scuola elementare del villaggio Falck. Poi mi sono iscritto alla Saap (Scuola di avviamento e addestramento professionale), sempre di emanazione aziendale, e ho conseguito la licenza media inferiore. 

Ho iniziato a lavorare a 13 anni e 7 mesi, nel luglio del 1957, come apprendista in un’officina meccanica di lattoneria a Sesto. Fino a 21 anni sono stato occupato in diverse piccole aziende, sempre meccaniche, sempre in regola. Contemporaneamente ho frequentato un corso serale biennale di disegno tecnico presso la scuola Cattaneo a San Rocco di Monza. Terminato il corso sono stato assunto come tornitore in  un’officina a Gorla, dove sono rimasto  fino alla partenza per il servizio militare. 
Al ritorno, nell’aprile del ’64, sono entrato in Falck. Prima dell’assunzione ho dovuto fare il “capolavoro” presso l’Officina meccanica costruzioni (Omc). Inizialmente sono stato inserito alla torneria cilindri, nello stabilimento Unione. Per circa cinque anni sono stato in quel reparto, dove si costruivano i nuovi cilindri per il laminatoio e si ripassavano quelli usurati. Era un lavoro che mi piaceva abbastanza, anche se si era isolati, chiusi in una cabina vicino al laminatoio, e i contatti con le persone complicati. Lavoravo su turni, normalmente  due, ma a volte anche su tre in occasione di alcune campagne urgenti. All’ingresso mi venne assegnato il numero di matricola 3841.
A metà del 1970 venni trasferito in Omc, dove erano occupate 340 persone, tutti operai con alta professionalità, che lavoravano su torni, frese e rettifiche. Il mio nuovo numero era il 5339. Sono stato inserito nel reparto “media meccanica” dove sono rimasto fino al 1991, quando il 6 agosto sono uscito dall’azienda in cassa integrazione straordinaria.

Col passare degli anni il tempo che dedicavo al lavoro era sempre meno, essendo sostanzialmente l’unico distaccato dalla produzione per la Fim all’interno dell’Unione rispetto ai tre o quattro della Fiom. Un impegno pressoché totale per il sindacato, maturato essenzialmente in azienda.
Ho avuto una formazione cattolica, ma non sono mai stato un “paolotto”, non ho alle spalle esperienze nei gruppi dell’impegno cattolico, la mia era una forma più laica di presenza, una modalità diventata maggioranza nella Fim di quegli anni, che voleva affermare l’autonomia del sindacato in un senso più vasto di quello tradizionale.

Mi sono iscritto al sindacato lo stesso giorno in cui sono entrato in Falck. La prima persona che ho conosciuto in azienda è stato Gaspare Viscardi, rappresentante Cisl, il quale, prima ancora di domandarmi come mi chiamavo, mi ha chiesto di fare la tessera della Fim. E’ stata la mia prima tessera, anche se in precedenza avevo preso parte a qualche sciopero nelle aziendine dove avevo lavorato.
Viscardi mi ha fatto partecipare a un corso di formazione che si teneva ad agosto, utilizzando le mie ferie, a Villa Paradiso di San Pellegrino Terme. Ho frequentato anche gli incontri di studio e di preghiera che si tenevano alla Pro Civitate Cristiana di Assisi.
In Falck esistevano le commissioni interne, poi sono state create le sezioni aziendali sindacali, io facevo parte della sas della Fim. Con l’avvento dello Statuto dei lavoratori sono nate le rsa, che erano paritetiche. Nel mio stabilimento, per circa 4mila lavoratori, i rappresentanti sindacali erano 36: 12 Fiom, 12 Fim e 12 Uilm, poi sono stati costituiti i consigli di fabbrica. Il primo cdf dello stabilimento Unione era composto da 120 delegati. Ogni gruppo omogeneo aveva il suo.
Da un reparto a maggioranza Fim (il laminatoio) sono finito in un reparto a stragrande maggioranza Fiom. Non so bene quali siano state le ragioni, se abbiano influito maggiormente le spinte della Fim (in quel reparto a rappresentare la Cisl c’era Giuseppe Montani, un democristiano molto bravo, ma con poca grinta e quindi debole nel contrastare la Fiom) o quelle dell’azienda che in qualche modo voleva modificare gli equilibri. Gli iscritti alla Fim erano critici, ma poco propositivi.

Nel nuovo reparto, appena hanno imparato a conoscermi, anche molto iscritti alla Fiom mi hanno votato, tant’è vero che ero un po’ il cruccio di alcuni quadri storici della Fiom che non si spiegavano come mai io, cislino, potessi prendere così tanti voti.
La maggioranza degli iscritti in Falck era Fiom. In alcuni stabilimenti, in particolare il Concordia, era netta, all’Unione un po’ meno, al Vittoria gli iscritti si bilanciavano. La Fim è sempre stata minoranza in fatto di delegati fino al 1989 quando, a Sesto e nel gruppo a livello nazionale, è diventata maggioranza. Era la prima volta che avveniva in una fabbrica siderurgica italiana.
All’inizio ho vissuto una fase di travaglio e mi ponevo il problema se continuare o meno nell’impegno nelle sas, che ritenevo un po’ al di sopra delle mie possibilità. Pesava anche la perdita dei giorni di lavoro, perché non c’erano permessi sindacali e tutto era sacrificio personale. L’azienda, pur con molte difficoltà, concedeva i permessi, ma le ore non lavorate erano trattenute sulla busta paga.
A fine anni ’60 si sono gettate le basi per un lavoro unitario. Ma c’era ancora molto sospetto tra Fim e Fiom. Il gruppo delle sas rompeva molti schemi rispetto alle commissioni interne. Ad esempio, per quanto riguarda i passaggi di categoria, le commissioni interne preparavano un elenco che poi sottoponevano alla direzione, cui toccava la decisione. Il potere contrattuale delle commissioni interne era più rappresentativo delle organizzazioni che altro. Poi, insieme, abbiamo iniziato un percorso che ha portato a nuove conquiste, oltre che al voto su scheda bianca, senza le candidature: tutti eleggibili, tutti elettori.
Molto presto sono stato inserito nel direttivo provinciale della Fim e questo mi ha aiutato nella mia attività: avevo otto ore al mese retribuite e ciò, oltre a darmi una certa responsabilità nel rappresentare a livello provinciale la categoria, mi ha messo a posto con i miei dubbi e le mie perplessità. Fino a quando, nel congresso della Cisl del 1981, ho avuto l’85% delle preferenze, e sono finito davanti a Sandro Antoniazzi.

Nella primavera del ’68 abbiamo fatto un primo picchetto “vero” davanti alla direzione. Allora gli impiegati erano 420, nessuno iscritto al sindacato. In cinque stavamo sulla porta d’ingresso, con la stragrande maggioranza degli impiegati fuori e circa 200 agenti di polizia fermi sotto i portici lì davanti. Alcuni dirigenti ci hanno buttati per terra e calpestato per entrare a lavorare.
Nel mio percorso sindacale, uno dei momenti più significativi, è stato l’accordo aziendale del 1971. Prima esperienza di una lunga vertenza, con 172 ore di sciopero. La protesta era partita nella tarda primavera del 1970. Ha portato alla prima grande intesa aziendale, firmata il 18 febbraio, giorno di paga in Falck. Molti accordi successivi portano quella data. I contenuti erano: il riconoscimento delle strutture sindacali in azienda, la mensa, l’ambiente (abbattimento fumi, aspirazione dei forni), primi tentativi di eliminazione delle paghe di posto, primo riconoscimento per la creazione del fondo integrativo sanitario aziendale (Fao).
L’ultimo accordo aziendale vero, prima della crisi, è stato fatto nel 1988.

Il rapporto con la Cgil. Ho ben presente il congresso di scioglimento della Fim che si è tenuto a Milano presso il Teatro Nuovo in San Babila nel maggio del ‘72, con assalti ripetuti delle squadracce nere all’ingresso del teatro, che strappavano i nostri manifesti e li bruciavano in piazza. Eravamo tanto convinti dell’unità che siamo stati l’unica categoria che ha deciso il proprio scioglimento. Alla prova dei fatti non siamo riusciti a costruire l’unità, abbiamo realizzato solo un patto federativo. Abbiamo però dato vita alle sedi unitarie. Antonio Pizzinato, nel 1972, ha inaugurato la sede della Flm di Sesto San Giovanni, in via Benedetto Croce.
La Fiom, invece, non ha deciso lo scioglimento. Questa vicenda mi ha rafforzato nella scelta per la Fim e anche nella convinzione di dovere condurre le battaglie a muso duro nei confronti dei quadri della Fiom. In questa occasione si è manifestata l’autonomia della Fim rispetto alla Cisl. Un comportamento completamente opposto a quello della Fiom rispetto alla Cgil, cui si aggiungeva la forte influenza del Partito comunista. Il fatto che non fossi iscritto a nessun partito faceva arrabbiare maledettamente i quadri della Fiom. Per loro era inconcepibile dissociare l’impegno sindacale dalla militanza dentro il partito. Le loro tessere erano, prima quella del Pci e poi, automaticamente e a scalare, quella Fiom.
La nostra autonomia è stata un fattore vincente La scelta della Fim di condurre nella Cisl la battaglia per l’autonomia rispetto ai partiti, alla Dc in particolare, ha dato grande forza alla Fim dentro l’azienda. Ci caratterizzavamo come Fim nella contrattazione decentrata, senza mai dimenticare l’appartenenza non a un partito ma alla confederazione.  Io usavo dire ai miei colleghi che avevo due tessere, una della Fim e una della Cisl. Non tutti la pensavano così in Fim, nella mia generazione c’era chi non si sentiva parte della Cisl.
La Fim di allora era una cosa un po’ strana, fatta di democristiani che non riuscivano a scrollarsi di dosso fino in fondo la madre Dc, e da persone che militavano in partiti come il Pdup o Democrazia proletaria o nei gruppi extraparlamentari come Avanguardia operaia. Io ho sempre cercato di mantenere la mia autonomia di giudizio e di scelta nella contrattazione - e per questo penso di essere stato apprezzato dai lavoratori - ma quando dovevo scendere in campo lo facevo come Cisl.
In azienda c’erano molti quadri storici del Pci e le cellule Picardi e Migliorini intervenivano nelle attività sindacali e sui problemi aziendali. Noi della Fim tenevamo le riunioni nella sede Cisl di via Fiorani, per preparare le piattaforme e decidere le linee da adottare di volta in volta. Gli esponenti della Fiom cambiavano cappello e si trovavano  in via Falck, vicino al circolo Progresso, ed esprimevano la loro posizione come partito. Giocavano su due tavoli per cercare di condizionare le nostre posizioni. Non ho mai assistito, però, ad un attacco esplicito da parte della cellula del Pci alla Fim.
Il Pci e la Fiom in azienda non hanno mai denunciato, cosa che noi abbiamo fatto, che è stata finanziata la siderurgia pubblica con una mucchio di soldi. E’ vero che alla fine anche i privati li hanno ricevuti, ma con una forte discriminazione. Nel 1985, anno della grande ristrutturazione, si discuteva quali impianti chiudere in Italia: Falck Concordia contro Lamiere di Campi, Falck Unione treno nastri contro treno di Bagnoli. Il responsabile della Fiom per la siderurgia a Sesto San Giovanni, Gianni Pedò, in un’assemblea affollatissima difese Bagnoli perché la proprietà era pubblica ed era un feudo della Fiom, affermando che: “Il treno di Bagnoli è la seta della siderurgia italiana, il treno nastri di Sesto sono gli stracci”.

All’età di 18 anni, davanti allo stabilimento Unione - non ci lavoravo ancora, ma ero presente - l’allora sindaco Abramo Oldrini si era messo in mezzo a centinaia di persone in sciopero, inferocite contro alcuni che volevano entrare a lavorare, ed era riuscito a riportare la calma consentendo l’ingresso. Tra questi c’erano i nostri iscritti alla Cisl. I picchetti allora non erano passeggiate, ma erano duri, violenti ed entrare era un atto eroico. Questo fatto di violenza, di sopruso verso la libertà di altri, come pure il comportamento di un sindaco fervente comunista, ex operaio Breda, che si metteva in mezzo ad altri comunisti, per garantire la libertà, mi ha colpito molto.
Una volta entrato in Falck ho più volte dovuto confrontarmi con situazioni di forte tensione. Non ho mai subito aggressioni fisiche da parte della Fiom, ma ci sono andato molto vicino. Ho avuto degli attacchi personali da parte di alcuni delegati appartenenti a una struttura alternativa, ma che stavano dentro la Fiom e che la Fiom usava per costruire consenso. Persone che cambiavano continuamente sigla: una volta si chiamavano “Giovani Falck”, un’altra “Operai contro”. Tenevano posizioni oltranziste per creare problemi soprattutto a noi, non all’azienda, che nemmeno scalfivano, a noi perché incarnavamo l’anima contrattualista. “Fin che si può si deve contrattare, fino ad un accordo fra le parti”, era la nostra posizione, per loro invece lo slogan era “la lotta paga” e quindi non accettavano altra via. Avevano un atteggiamento offensivo, molto violento. Intervenivano nelle assemblee per impedirmi di parlare, lanciavano invettive come “servi, venduti, cislini di merda” e altre parole di questo tipo. Esponevano nelle bacheche comunicati contro di me. Più di una volta hanno affisso volantini in cui si citavano, in mala fede, mie affermazioni, con nome e cognome e la Fiom stava zitta. La solidarietà, quando c’era, era molto formale.
In occasione delle assemblee, quando questi urlavano e si accanivano contro di noi, non ho mai visto uno della Fiom prendere in mano il microfono per richiamarli. Qualche volta è stato fatto da funzionari esterni, che non potevano esimersi dall’intervenire in situazioni di tensione molto alta.
Nel 1975 il segretario della Fiom di Sesto, Aurelio Crippa, diventato poi senatore di Rifondazione comunista, mise al muro, fisicamente al muro, “violentandolo”, nella sede unitaria, il nostro responsabile, Guido Laudini, reo di avere manifestato il primo maggio sotto gli striscioni di Democrazia proletaria e non sotto quelli del sindacato unitario. C’è stata una vera aggressione fisica, con Crippa che ha mobilitato i “killer” della zona, tra cui anche alcuni lavoratori dell’Unione.
Altri attacchi personali, se non minacce, li ho avuti tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80.
Il 28 novembre 1980 le Brigate rosse hanno ucciso l’ingegner Manfredo Mazzanti, direttore generale dello stabilimento Unione. I brigatisti, purtroppo, potevano contare su presenze significative in azienda. Mazzanti fu assassinato a Milano, mentre usciva da casa, dalla brigata Walter Alasia che prendeva il nome da un  giovane di Sesto che è stato ucciso in un conflitto a fuoco nel quale sono morti anche il vicequestore Vittorio Padovani e il maresciallo Sergio Bazzega.
In fabbrica, prima dell’omicidio, erano circolati dei volantini. A posteriori abbiamo scoperto che in azienda c’erano esponenti della Digos che erano stati inseriti per controllare i movimenti di coloro che erano sospettati di essere brigatisti. Erano incaricati anche di seguire alcuni di noi per tutelare la nostra sicurezza, sia in fabbrica che fuori.
Volantini delle Br sono stati trovati nella sede del patronato Inas, non in quella dell’Inca. Gli stessi volantini successivamente sono stati lasciati sotto lo zerbino di casa mia.
Il clima di quegli anni era pesantissimo. Durante gli scioperi, davanti alla direzione generale, c’era chi spronava all’azione violenta, a entrare con la forza, devastare gli uffici. In una di queste occasioni ho subito delle minacce di cui però non mi sono reso conto subito, ma fortunatamente non ci sono state conseguenze.
In quei giorni la solidarietà è stata totale, anche da parte della Fiom. Era chiaro però che il simbolo da colpire non erano i comunisti, ma la Fim e coloro che venivano considerati alleati del padrone, perché contrattavano, non si contrapponevano muro contro muro e quindi erano il nemico da eliminare.

Nel 1984, anno del “patto antinflazione”, ero tra i pochi in fabbrica a difenderlo. Ci fu una grande spaccatura in Fim, con interi consigli di fabbrica, compresi i delegati Fim, contro la Cisl. Scontri ci sono stati tra chi aderiva e chi no al comitato e partecipava alle manifestazioni per il referendum. La gran parte dei delegati dava per scontato l’adesione, cosa che io non ho mai fatto.
La Fiom mi vedeva isolato dentro la Fim, pesava la posizione del Pci, che ha sposato fin dall’inizio l’idea del referendum. Ero molto in difficoltà, però ero convinto che quel processo fosse da sostenere. Un clima simile influiva sulla gestione dei problemi in azienda, anche se in qualche modo le tensioni, quando si trattava di problemi concreti, si attenuavano. In quel periodo sono stato marchiato come “anticomunista della Cisl”. La via di mezzo non poteva esserci. La non militanza politica, la non indicazione di voto veniva tacciata di qualunquismo, ma per me era importante discutere nel merito dei problemi aziendali e non per schieramenti ideologici. Nelle battaglie per la contrattazione aziendale, dal ‘71 all’88, tutto si può dire della Fim, ma non che non fosse in prima fila nel difendere gli interessi dei lavoratori.
Tra l’84 e l’86 abbiamo vissuto un momento di crisi nei rapporti tra Fim e Fiom molto forte. Dopo ci ha pensato l’azienda a rimetterci insieme. La Falck nel 1980 aveva presentato un piano che prevedeva una forte riduzione degli organici. Questo ha portato nell’81 a concludere l’ultimo dei grandi accordi aziendali, poi è cominciata la fase calante. Nel 1985 ci fu il primo deciso taglio degli organici. In quell’occasione furono espulse le frange estremiste che stavano nella Fiom, con trasferimenti in particolare ad Arcore. Anche alla Falck c’era un “reparto confino”, al Carp (carpenteria), presso lo stabilimento Vulcano, dove l’azienda aveva mandato molti dei vecchi quadri del Pci, altri invece erano dislocati sapientemente in diversi reparti. Dipendeva dalle convenienze, perché Falck non disdegnava questa politica per avere il controllo delle persone, indipendentemente dalla loro provenienza. In occasione dei trasferimenti, sono stato attaccato con un comunicato che parlava di “deportazione di massa degli operai mentre i garantiti sono rimasti al loro posto e non sono toccati”. A chi si riferisse era chiaro.
Dall’86 in poi c’è stata una leggera ripresa dei rapporti che ha portato all’ultimo accordo aziendale dell’88. Per gestire migliaia di esuberi, attraverso mobilità lunga e prepensionamenti.
Dopo l’88 inizia la seconda crisi aziendale che porta all’altra grande ristrutturazione del ’91. La chiusura è del dicembre 1995. In quel periodo è un bagno di sangue, ma io l’ho vissuto da pensionato.

Alcuni di noi avevano rapporti continuativi con il mondo cattolico sestese. Io no, solo occasionali. Non ho voluto dare questo alibi agli attivisti della Fiom. Non stavamo sotto le ali della mamma. Qualcuno partecipava regolarmente alle riunioni di gruppi cattolici, agli incontri della pastorale del lavoro sestese.
Non ho mai avuto messaggi o sollecitazioni da parte di esponenti della chiesa locale o di Milano per le mie scelte sindacali in azienda, anche in passaggi delicati. Dobbiamo, però, ricordare che la Fim era composta da molte anime e io non appartenevo a nessuna di queste. Probabilmente questo ha portato a far sì che su di me non ci fossero pressioni, se non mediate attraverso i rappresentanti della Cisl, ma non da parte ecclesiale.
Qualche messaggio è arrivato da parte dell’azienda. Non dai massimi esponenti, ma dai quadri intermedi, che qualche discorsetto me l’hanno fatto: “Ma tu cosa fai con quelli?”, o simili.
Alberto Falck era anche presidente degli imprenditori cattolici (Uci). Più volte la Fiom, quando non sapeva più cosa dire, per attaccarci usava questo discorso. Nei momenti più delicati sicuramente la gerarchia è intervenuta su Alberto Falck, al punto che in alcune vertenze, in situazioni molto difficili - tipo quella del 1971 che ha sancito il riconoscimento della mensa - lui a Natale ha fatto una lettera personale, firmata anche come presidente Uci, rivolta soprattutto ai lavoratori cattolici, e con grande fatica ha ceduto.
Nel gruppo Falck a Sesto, purtroppo, molti sono andati ad ingrossare le file dei deportati nei campi di sterminio nazisti. In occasione del trentennale degli scioperi del marzo ’43 abbiamo fatto nei reparti un grosso lavoro di ricerca sui nomi degli scomparsi. Abbiamo individuato tutte le lapidi che stavano in giro per lo stabilimento e abbiamo inaugurato un monumento dedicato alla resistenza, con una grande partecipazione di gente e la presenza di padre David Maria Turoldo, Mario Capanna, il comandante Pesce, il sindaco, gli studenti delle scuole di Sesto. Il monumento raccoglieva in un’unica struttura in bronzo tutte le lapidi e in suo passaggio Turoldo chiese: “Perché quando si vuole indicare la sofferenza si dice sempre povero Cristo e non si dice mai povero Marx, povero Lenin?”.
Nel 1974, in occasione della legge sul divorzio, c’è stata una presa di posizione dei cristiani “non omologati” nel partito, abbiamo distribuito volantini davanti ai cancelli dello stabilimento Unione. Per un esponente della Fim volantinare davanti alla fabbrica per la libertà di voto dei cattolici era un messaggio coraggioso. Un comportamento che nessun attivista della Fiom avrebbe mai tenuto, neanche sotto tortura. La Fiom non ha mai preso posizione su temi civili o simili, se non diffondendo i volantini del Pci.