venerdì 29 maggio 2020

CAVALIER FRANCESCO VISMARA - Casatenovo (Lc)

Intervista realizzata in occasione della pubblicazione del libro “Affettato misto. La storia di Giorgio, operaio e sindacalista alla Vismara”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2008 

D. Le cronache riportano date differenti sulla nascita della Vismara. Quando è iniziata la vostra attività? 
R. Mio nonno Francesco lavorava come operaio presso un salumiere di Milano che si chiamava Beretta e che aveva aperto per i suoi due figli un negozio a Casatenovo e uno a Barzanò. Il figlio destinato a Casatenovo non volle venirci. Il Beretta, non sapendo cosa farne di questo negozio, pensò di offrirlo a mio nonno Francesco. Lui rispose che lo avrebbe preso, ma che non aveva i soldi per pagarlo. Questo, però, non era un problema e glielo cedette sulla fiducia. Così mio nonno è venuto a Casatenovo. Era, credo, il 1890. Qui si è sposato con mia nonna Elisa, che era di Villasanta. Il viaggio di nozze consistette nell’andare in carrozza a Milano e tornare indietro. Insieme iniziarono a gestire il negozio che poi acquistò, ampliando col tempo l’attività. 
I figli maggiori, Luigi e Vincenzo furono chiamati alle armi durante la grande guerra e al loro ritorno, specialmente Vincenzo, si dedicarono completamente a quella che era ormai un’azienda. 

D. Ad un certo punto, siamo nel 1972, si diffuse la notizia della vendita di Vismara ad una società inglese. Fu solo una voce o ci pensaste veramente? 
R. Richieste di vendere e contatti ce ne sono stati tanti, ma noi in quel momento non pensavamo minimamente di vendere. Furono solo voci. 

D. Nell’87, invece avete effettivamente lasciato, vendendo alla Buitoni di De Benedetti. La ragione vera quale è stata? 
R. Eravamo troppi. Mio papà ha fatto un errore nella sua vita. Quando nel 1948, avevo 26 anni, io gli proposi di dare vita ad una società anonima, questa venne costituita con le quote suddivise al cinquanta per cento tra lui e lo zio Luigi. A quel punto la situazione si è incancrenita, siamo diventati tanti e non si riusciva mai a costruire una maggioranza perché le quote erano bloccate in due finanziarie paritarie e nessuno poteva spostarsi da una parte o dall’altra. Tutti volevano comandare. Per cui o litigavamo, come è successo in altre aziende, o dovevamo vendere. E così è stato. 

D. Nonostante questa suddivisione in quote paritarie, un ruolo preminente lo avete sempre avuto suo padre e poi lei? Come mai? 
R. Fu una scelta della famiglia. In particolare, per quanto mi riguarda, fu una scelta di papà e dello zio. 

D. Azienda e paese di Casatenovo hanno sempre avuto un rapporto molto stretto. Vismara ha contribuito a realizzare molte opere pubbliche del paese, in particolare suo padre ha sostenuto moltissime iniziative sociali. Da dove nasceva questo legame? 
R. La prima ragione fu la grande bontà d’animo di mio padre e la sua religiosità. Per questa sua disponibilità ha anche rischiato la vita. La nonna Lisetta, durante la guerra, ospitava una famiglia di poveretti: erano due fratelli e una sorella e i due uomini lavoravano nello stabilimento. Un giorno, subito dopo la liberazione, la sorella avvisò la nonna che un suo fratello voleva uccidere il papà. Lui andava in chiesa tutte le mattine alle 5 e mezza e ricordo che quella mattina anch’io, che avevo poco più di vent’anni, uscii ad accompagnare mio papà armato, ma non successe niente. Chi voleva ammazzarlo non era un grande personaggio, un tipo di partigiano che non aveva dato un particolare contributo alla resistenza. 
L’azienda produceva dei sottoprodotti, una parte di questi andavano nell’estratto di carne e una parte mio papà li regalava. Durante la guerra arrivavano anche da Milano a piedi a prendere quel pacchetto. Una consuetudine che è andata avanti per molti anni, anche dopo la fine del conflitto. Generalmente li distribuiva il sabato mattina sul cancello davanti allo stabilimento e dava anche dei soldi. Ricordo che un giorno un comunista gli chiese che cosa distribuiva e lui, ironico, rispose che distribuiva immaginette, invece offriva denaro. 
Casatenovo ha beneficiato del lavoro della Vismara e molta gente era grata di questo, ma molti no. Perché gelosi o invidiosi, e ancora oggi c’è gente che non vede di buon occhio i Vismara, che non hanno mai fatto niente di male. 

D. Si racconta che l’azienda aiutasse la resistenza, mandando anche del cibo alle brigate partigiane cattoliche stanziate in Valsassina. 
R. In quel periodo io ero internato in Svizzera. Era mio fratello Uberto, lui stesso impegnato nella resistenza, che faceva tutto ciò che era possibile per aiutare i partigiani. Non era facile, perché durante la guerra eravamo occupati dai tedeschi. Diversi anni dopo, in occasione di un incontro tra imprese in Germania, Isacchi, che era con me, ha riconosciuto il direttore di un salumificio tedesco come uno degli ufficiali che avevano presidiato la Vismara durante la guerra. 

D. Passando alle vicende industriali. Uno dei vostri prodotti di punta è sempre stata la mortadella. C’è una ragione particolare per questa scelta? 
R. La mortadella era il piatto dei poveri e se ne consumavano grandi quantità. Probabilmente la scelta di puntare sulla mortadella fu dettata anche da una sorta di amore per la prima attività produttiva avviata su vasta scala. Avevamo delle stufe per la mortadella e mio papà tutte le sere andava a verificarle, perché dovevano essere sempre tenute sotto controllo, giorno e notte. A volte, verso le dieci o le undici di sera non era ancora tornato a casa e allora mia mamma mi mandava a cercarlo e spesso, stanco morto per una lunghissima giornata di lavoro, lo trovavo addormentato sui sacchi dove si tenevano le mortadelle per non farle scoppiare. 

D. Ad un certo punto avete portato la stagionatura dei prosciutti crudi a Chiesa in Valmalenco. Cosa vi ha spinti ad andare in Valtellina? 
R. L’idea è nata durante la guerra. Mio papà si era assunto l’impegno di evitare che i suoi operai fossero deportati a lavorare in Germania. Quando uno di questi, Fausto Confalonieri, è stato portato in Germania, mio papà si è fatto dare un permesso dai tedeschi che occupavano la fabbrica ed è andato a riprenderselo, facendolo figurare come persona indispensabile per l’azienda. C’era però bisogno di mostrare che tutti erano sempre occupati e uno dei modi di farlo è stata l’idea di realizzare un piccolo stabilimento in Valmalenco. Questo venne costruito nel 1943 con i sassi della zona, trasportati su un carro trainato da due buoi, e per utilizzarli fu necessario chiedere il permesso ai tedeschi. 
L’aria in quell’area sembrava essere adatta alla stagionatura, ma l’obiettivo primario era quello di creare nuove occasioni di lavoro. 

D. Si dice che i vostri concorrenti siano stati più veloci nell’adattarsi ai nuovi sistemi di distribuzione dei grandi supermercati, mentre voi siete rimasti attardati da un sistema che si basava sui piccolo negozi. E’ stato effettivamente così? 
R. La questione è diversa. Il problema, anche in questo caso, è stata la suddivisione del controllo dell’azienda in due gruppi, per cui si doveva discutere sempre su tutto e non si riusciva mai a decidere. Questo è stato il nostro limite. Ricordo, ad esempio, che nell’ambito della nostra azienda di mangimi io volevo produrre i cibi per cani e altri animali, ma non mi hanno sostenuto e non lo abbiamo fatto. Invece quel settore si è sviluppato moltissimo. 

D. Lei ha ricoperto importanti incarichi nelle associazioni imprenditoriali di categoria. Come è nato questo suo interesse? Quali erano i rapporti con i suoi maggiori concorrenti? 
R. Ho iniziato ad occuparmi di questi aspetti subito dopo la guerra perché mio papà non amava andare in giro, se non per ragioni di lavoro. A volte andava a San Daniele con l’autista, partendo presto al mattino e tornando alla sera, fermandosi lungo il tragitto a sentire la messa. Così ho iniziato ad interessarmi dei problemi della categoria e sono stato uno dei soci fondatori dell’Aica, l’Associazione italiana conserve alimentari, anche se alla prima riunione ha partecipato mio papà. Ho sempre avuto buoni rapporti con i miei concorrenti. Avevo tanti amici e li ho ancora adesso. Mi vanto di una cosa sola, di aver fatto diventare amici gli associati, coinvolgendo anche le mogli. Due volte all’anno ci riunivamo tutti quanti e, mentre gli uomini parlavano di affari, le signore chiacchieravano tra di loro. 

D. Nel rapporto con il sindacato la Vismara si è segnalata per avere mantenuto sempre relazioni industriali positive. Allo stesso tempo, però, Vismara è stata anche un’azienda dove ci sono state lotte molto dure. 
R. Il rapporto con il sindacato era corretto: io li rispettavo e loro rispettavano me. C’è stato un periodo in cui si è fatto qualche errore. Un momento di rottura è stato nel 1963. In occasione del matrimonio della nipote Paola, mio padre fece distribuire ai lavoratori una bomboniera ciascuno, come si era sempre usato, ma qualche operaio, dopo aver mangiato i confetti, la gettò via. Eravamo forse nel periodo di un rinnovo contrattuale. Per cercare di ristabilire buone relazioni intervennero anche dei sacerdoti e io litigai con loro perché avrebbero voluto fare una riunione per rappacificare gli animi, ma io non ero d’accordo. 
Durante gli scioperi c’era gente che veniva da me e diceva: guardi che io sciopero perché mi obbligano. Perché allora c’erano i comunisti che menavano. 

D. Ma voi di comunisti non ne avevate molti in azienda! 
R. Una delle prime volte che sono andato a Roma a battermi con i miei colleghi imprenditori fu a causa della trattenuta sindacale che facevamo sulla busta paga. Noi siamo stati i primi a farla, ma molti non volevano. A noi questa serviva perché in questo modo sapevamo chi era iscritto alla Cgil e chi no. Un giorno, con il presidente di Confindustria, Andrea Costa, che successivamente obbligò le imprese e noi a trasmettere i contributi alle organizzazioni sindacali senza i nominativi, io mi battei perché fosse mantenuto il nostro sistema, ma questo non lo capivano. 
Peraltro lo stesso Costa, che aveva proibito di fare riunioni sindacali in azienda, organizzò un incontro con il sindacato su una sua nave. Era come fosse il suo stabilimento e fu lui a rompere le intese concordate tra di noi. 

D. Quando avete venduto la Vismara, lei come ha vissuto quel momento? 
R. Mi sono tolto una responsabilità, perché era difficile gestire un’azienda in quelle condizioni. Non c’è stato urto, ne contrasto tra di noi. Era la modalità migliore di uscire e sono stati tutti intelligenti ad accettare quella soluzione. Dispiacere si. Ora mio figlio Franco, quando Ferrarini ha acquistato il salumificio, ha ricomprato un pezzo del terreno che era parte della nostra proprietà. 

D. Infine, una curiosità. Perché è stato costruito il tunnel che univa lo stabilimento alla mensa? 
R. E’ stato fatto perché avevamo più di 1.500 operai che andavano tutti i giorni alla mensa invadendo le strade ed era anche pericoloso. Non è mai stato usato molto, perché nessuno voleva passare sotto terra. Quando poi è stato abbandonato è diventato una meravigliosa cantina per i formaggi. Non è mai stato chiuso e credo sia ancora lì.