domenica 31 maggio 2020

BATTISTA GUIZZETTI, GIOVANNI CIOCCARELLI - Lucchini Rs – Lovere (Bg)

Testimonianze raccolte in occasione della pubblicazione del libro “La fabbrica sul lago. Conflitto e partecipazione alla Lucchini di Lovere: impresa e sindacato nel comprensorio Camuno sebino”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007 

Mi ricordo 
La guerra mieteva vittime su tutti i fronti. Per l’Italia si stava mettendo molto male. L’anno che si era aperto da poco sarebbe stato ricordato come uno dei peggiori della storia recente del Bel Paese. Nel gennaio del 1943 gli Alleati avevano preso la decisione di invadere la Sicilia. Alla conferenza di Casablanca, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt, il primo ministro inglese Winston Churchill e lo staff dei comandanti uniti avevano concordato che il passo successivo alla sconfitta delle forze dell’Asse in Nord Africa sarebbe stato la conquista della Sicilia. 

Alle forze armate italiane servivano nuovi martiri da sacrificare sull'altare della follia nazi-fascista. L’ormai traballante regime reclutava ogni uomo valido. Le fabbriche impegnate nella produzione bellica si riempivano di donne e di giovani, chiamati a sostituire coloro che erano destinati al fronte. 

Battista aveva da poco compiuto i quindici anni quando entrò per la prima volta all’Ilva di Lovere. Apprendista in formazione nella scuola aziendale, con momenti di lezione in aula ed esperienze pratiche nei diversi reparti. Era nato a Sovere il 24 dicembre del 1927, dove viveva. In casa erano in cinque e lui era il maggiore dei tre fratelli. 

Il papà era un piccolo artigiano del legno e la mamma una casalinga. Sua madre, per guadagnare pochi soldi indispensabili per mandarlo a scuola dopo le elementari, lavorava come lavandaia a ore. Così aveva frequentato la scuola di avviamento professionale ed ora era pronto per l’avventura nella grande azienda che aveva sempre più fame di braccia. Già suo padre era stato assunto come falegname e lui aveva tentato di farsi prendere l’anno prima, ma era troppo piccolo, anche di statura, ed era stato rimandato all’anno successivo. In quei terribili anni all’Ilva gli occupati erano oltre 3.500, ma le domande dei numerosi figli delle grandi famiglie di quell’epoca erano ugualmente di più rispetto alle esigenze della produzione. Fino a quei giorni i nuovi ingressi erano arrivati quasi tutti da Lovere e Castro ed era diffuso il timore che i ragazzi dei paesi più lontani sottraessero il lavoro agli abitanti dei due comuni dove sorgeva la fabbrica. Ma la domanda cresceva e l’area delle assunzioni si stava allargando. 

Tutti i giorni Battista percorreva i sei chilometri che lo separavano dal posto di lavoro a piedi. Di bicicletta in casa ce n’era una sola e la usava il papà. A volte il freddo era pungente, neve e pioggia gli sferzavano il volto e gelavano le dita, ma lui in fabbrica ci andava volentieri, il suo piccolo salario era un valido aiuto in famiglia. 

Solo alla fine della guerra sarebbe stato istituito un servizio di trasporto con la corriera fino a Lovere. Erano molti, infatti, gli uomini di Sovere e dei dintorni occupati all’Ilva. In quell’area era ancora viva l’antica tradizione del lavoro nelle fucine, dove i pesanti magli mossi dall’acqua per secoli avevano battuto il ferro per produrre armi e utensili. 

I reparti, nello stabilimento, erano suddivisi in due grandi aree: la meccanica pesante e quella generale. Dall’acciaieria uscivano lingotti per la fucinatura e le lavorazioni a caldo, la fonderia produceva grandi getti per la seconda fusione, mentre la meccanica lavorava il prodotto finito. Le produzioni in quel momento erano essenzialmente due: le ruote per i treni e gli involucri per le bombe. Battista venne messo in una squadra di meccanica generale. Come ultimo arrivato, il suo compito era abbastanza leggero, impegnato per la gran parte in lavori di limatura. Agli operai più anziani dava del “lei”, quando era necessario li aiutava e allo stesso tempo sfruttava quelle occasioni per rubare un po’ del mestiere ai più esperti. 

È stato occupato anche nel reparto proiettili. In quei capannoni si lavorava sotto lo sguardo attendo dei soldati tedeschi, ma più volte i lavoratori riuscirono a bloccare le produzioni: danneggiando i filetti, rompendo il maschio della macchina filettatrice. Bisognava stare attenti, e tuttavia, nonostante i rischi, in azienda operavano nuclei organizzati della 53a Brigata Garibaldi che guidava­no le azioni di boicottaggio. 

Molti tra costoro daranno poi vita alle prime esperienze sindacali. Già nel 1944 si parlava di organizzare i lavoratori e in fabbrica sorse un primo gruppo di aderenti alla Cgil unitaria che, dopo il 25 aprile, si sviluppò in tutti i reparti. Come negli altri luoghi di lavoro , l’unità antifascista ebbe vita breve e nel 1948 anche all'Ilva, in seguito ai forti e crescenti contrasti tra i rappresentanti delle componenti cattolica e comunista, si arrivò alla rottura dell’unità con la nascita della Libera Cgil e quindi, nel 1950, della Cisl. Inizialmente la Uil non era presente in azienda e la maggioranza dei lavoratori faceva riferimento alla Cgil, che poteva contare su sei commissari contro i tre cislini. Nelle elezioni successive la Cgil perse un commissario a favore della Uil, fino a che la Cisl non conquistò la maggioranza in commissione interna con cinque eletti. 

Un momento particolarmente difficile i rappresentanti sindacali dovettero affrontarlo nel corso del 1950. Alla conclusione del conflitto mondiale erano rientrati i reduci e molti si presentavano per occupare il vecchio posto di lavoro, gonfiando così gli organici Una situazione economicamente insostenibile per le imprese, che non poteva durare a lungo. Si arrivò così ad una drammatica svolta, con l’espulsione di quasi seicento tra operai e impiegati e una profonda ristrutturazione dei reparti che il sindacato cercò di contrastare, ma inutilmente. 

Il lavoro nelle officine era pericoloso e i rischi di infortuni sempre presenti. Tutti gli anni c’erano dei morti, anche più d’uno. L’attenzione per la sicurezza non era particolarmente diffusa, esisteva però una cassettina delle idee attraverso la quale i lavoratori potevano fare segnalazioni e proporre interventi. Una proposta di Battista, su quale aspetto non lo ricorda precisamente, venne accolta e lui ricevette un premio di 25mila lire con il quale si comprò un vestito nuovo. 

Anche Sovere ha dovuto contare diverse vittime, tra le quali il suo padrino della cresima, travolto da un locomotore in movimento. La gran parte dei trasporti, infatti, avveniva con il treno, ma via lago, con delle grandi chiatte sulle quali venivano caricati i vagoni ferroviari che, una volta giunti a Paratico, venivano scaricati e andavano a formare i convogli per le destinazioni delle merci. 

Una questione che ha occupato per lungo tempo l’attività sindacale in azienda è stata quella delle paghe di classe. Nei primi anni sessanta, la direzione del gruppo Italsider aveva deciso di introdurre il metodo della job evaluation, sul modello di quanto sviluppato in molte aziende negli Stati Uniti. Nell’ambito della commissione interna venne creato un gruppo di lavoro, di cui faceva parte anche Battista, per discutere con la controparte il problema. Ci vollero quasi quattro anni per arrivare alla piena definizione della nuova struttura retributiva. Inizialmente ci furono incontri a livello di gruppo, poi il confronto si spostò in azienda. In un’assemblea dei componenti le commissioni interne di tutti gli stabilimenti Italsider, svoltasi a Genova, Fim, Fiom e Uilm decisero quali dovevano essere i punti fermi validi per tutti, lasciando la parola conclusiva ad ogni singolo impianto. Le paghe furono ordinate in ventiquattro classi, determinate sulla base di dodici fattori: quattro di formazione e istruzione, quattro di responsabilità, e quattro di sforzo fisico e condizioni ambientali. 

In quegli anni ha iniziato a lavorare in azienda anche Giovanni. Nato a Pianico il 23 maggio 1938, a otto anni aveva perso un occhio a causa dello scoppio di una bomba a mano lanciata in paese da un repubblichino. Dopo essersi diplomato come perito all’Istituto don Gnocchi di Torino, grazie all’obbligo delle assunzioni per gli invalidi civili, il 1° marzo 1957 è entrato all’Ilva di Lovere. I primi tempi percorreva i cinque chilometri che lo separavano da casa all’ufficio in Lambretta, poi riuscì a comprarsi la Seicento. 

Appena messo piede in fabbrica, all’ufficio paghe, ancora spaesato per la novità, dovette subito fare i conti con la presenza sindacale. Dopo soli tre giorni, infatti, ci fu uno sciopero per il contratto e alcuni suoi colleghi volevano che partecipasse, ma lui era nel periodo di prova e non poteva, altrimenti avrebbe perso il posto. Solo grazie alla presenza di amici che conoscevano la sua situazione poté evitare di essere licenziato dopo nemmeno una settimana di lavoro. 

Battista, dopo gli anni della guerra, è stato trasferito alla meccanica pesante, dove si producevano le ruote dei treni, a lavorare su una alesatrice. “Non sogno quasi mai - racconta - ma le rare volte che mi capita sto sempre piazzando un pezzo su quella macchina”. Ha svolto quel lavoro fino al 1970 finché, dopo oltre ventisei anni di anzianità, è diventato caposquadra. Il reparto lo ha lasciato alla fine di gennaio del 1983, quando è andato in pensione. 

Giovanni, dopo vari trasferimenti in diversi settori, è uscito in prepensionamento a cinquant’anni nel 1988. La siderurgia era già in piena crisi. 

Insieme ricordano che a Lovere sono stati fusi i timoni della Michelangelo e della Raffaello, i due transatlantici gioielli della flotta di navigazione italiana, varati nel 1962 e nel 1963. “Perché a Lovere - raccontano sorridendo, ma con orgoglio - sarà l’acqua, sarà l'aria buona, sarà la bravura degli operai, ma l’acciaio che si produce è sempre stato dei migliori”.