Sono nato a
Monza il 9 settembre 1947. Ho frequentato le scuole elementari e le due medie,
poi sono andato a lavorare, e ho preso la licenza di terza media con le 150
ore.
Il mio primo
lavoro è stato quello di elettrauto, avevo 13 anni, poi sono stato occupato in
una officina di carpenteria il cui titolare era di origine tedesche, quindi
sono andato a fare il tornitore in una officina fino a quando sono partito per
il servizio militare. Al ritorno mi hanno assunto sempre come tornitore, ma in
un’altra aziendina che faceva stampi per la Pirelli. Qui ho litigato con il
principale, che oltretutto era amico di mio papà, e me ne sono andato. Oggi
facciamo entrambi parte dell’associazione degli ex marinai.
Rimasto senza
lavoro ho letto un’inserzione sul giornale per un posto come guardia giurata a
Milano. Ho risposto e mi hanno preso. Lì ci sono stato per un anno. Mi piaceva
il lavoro di guardia notturna, ma non c’era un giorno di risposo, né feste di
Natale né Capodanno, se capitavi di turno dovevi lavorare, alla sera non eri
mai libero e quando sei giovane non è molto piacevole, così quando si è
presentata l’opportunità ho lasciato anche quel posto e nel 1973 sono entrato
in Autobianchi.
Grazie ad un mio
amico che ci lavorava sapevo che assumevano e così ho fatto la domanda che lui
ha portato in fabbrica e mi hanno preso. Nel frattempo avevo fatto domanda
anche in un’officina, sempre a Desio, e anche lì mi avevano assunto, ma ho
scelto l’Autobianchi. Ci sono rimasto fino al 1992, quando ha chiuso.
Ho preferito la
grande fabbrica perché c’è il mio amico e il lavoro richiedeva meno
responsabilità. Da giovani si fanno questi ragionamenti. La mia idea era che si
lavorasse anche con impegno, ma senza pensieri e alla sera si potesse andare
tranquillamente a ballare. Sono stato assunto come operaio comune, in
lastroferratura. All’ingresso in reparto mi sono un po’ spaventato, all’alto
scendevano tutti i fili elettrici e mi sembrava di essere entrato in una
giungla. Quando qualche tempo dopo è stato assunto nel mio stesso reparto un
altro amico, anche lui mi ha confessato di aver avuto la mia stessa
impressione. La prima busta paga è stata di circa 90mila lire al mese.
Quando sono
entrato in Autobianchi vi lavorano più di tremila persone, che poi sono
cresciute fino ad oltre cinquemila. La proprietà era già tutta Fiat. L’azienda
andava bene e con me ne sono entrati molti altri. Si producevano la 500, la
Primula, la Bianchina. Poi l’A 112, la 127 ed altre ancora. C’erano tre linee
di montaggio. Alcune vetture uscivano con il marchio Fiat, altre con quello
Autobianchi.
Al momento
dell’assunzione avevo 25 anni, non ero più giovanissimo. Il rapporto con i
colleghi più anziani è stato subito positivo. Ho cambiato mansione ma non ho
mai fatto lavori specializzati. Io sono entrato con il terzo livello, quello dell’operaio
generico e sono uscito con il terzo livello. Il riconoscimento della
specializzazione era frutto dei accordi sindacali più che delle mansioni, che
erano tutte di scarsa qualità. Portavamo tutti la tuta blu che ci dava
l’azienda. Nel mio reparto c’erano ritmi precisi, dettati dalla cadenza del
lavoro decisa dai responsabili dei tempi e metodi, ma non era come stare in
catena di montaggio, dove il lavoro di ognuno dipendeva da quello degli altri,
noi dovevamo fare un certo numero di pezzi, ma indipendentemente dagli altri
lavoratori del reparto.
Il mio impegno
non era pesante, lavoravo su due turni, dalle 6 alle 14,30 e dalle 14,30 alle
23, con la pausa mensa di mezzora, e per fare la produzione programmata in una
giornata io non impiegavo mai tutte le
ore previste e quindi avevo del tempo libero, oppure riducevo i ritmi. Prima
che entrassi io si facevano tre turni, ma in quel momento erano stati sospesi.
Dopo un certo periodo di tempo gli orari sono stati cambiati dal contratto
nazionale e si è passati dalle 6 alle 14 e dalle 14 alle 22. La pausa mensa,
sempre di mezzora, è stata assorbita, con 20 minuti retribuiti e 10 a carico
dei lavoratori.
Ad un certo
punto, un anno prima circa della decisione, abbiamo cominciato a sentire delle
voci di una possibile chiusura dello stabilimento di Desio, senza saperne le
fonti. In quel periodo ero delegato e facevo parte dell’esecutivo del consiglio
di fabbrica, non avevo sentito nessuno parlare di chiusura, eppure sapevo che
quelle voci nascevano proprio all’interno del cdf. Qualcuno evidentemente aveva
legami più diretti con la direzione. Giravano voci, domandavamo ai capi, ma
anche loro dicevano di non sapere niente. Forse avevano solo l’ordine di non
dirlo.
In quel momento,
peraltro, le linee lavoravano a pieno regime e non c’erano segnali di crisi.
Addirittura,
poco prima, durante un incontro di studio dell’esecutivo del cdf con la
direzione, i capi reparto e il capo del personale ci avevano informato che
l’azienda aveva acquistato un terreno lì vicino per far parcheggiare i tir che
non trovavano spazio nei cortili interni in attesa di scaricare o di caricare.
Qualcuno in quell’occasione cominciò a pensare che si trattasse di un piano per
ampliare gli impianti.
Autobianchi
aveva i livelli più alti di produttività nella Fiat pur essendo la meno
automatizzata e conquistava sempre il premio qualità.
La chiusura è
stata motivata con la necessità di razionalizzare il gruppo Fiat, dopo
l’acquisto dell’Alfa Romeo. Occorre anche ricordare che da anni gli abitanti delle
villette vicine alla fabbrica si lamentavano per il rumore e l’inquinamento. Da
quando sono iniziate le voci a quando gli impianti si sono fermati sono
trascorsi meno di tre anni.
Al momento della
chiusura dello stabilimento di Desio avevo 45 anni ed ero molto preoccupato,
non avevo alcuna specializzazione e dovevo trovare un nuovo lavoro, a casa
avevo i genitori vecchi. Si diceva che ci avrebbero trasferiti all’Alfa Romeo,
ma per me sarebbe stato un problema. Molti ci sono andati con un accordo sindacale
che prevedeva assunzioni anche in una fabbrica americana di componenti per auto
che si era insediata in alcuni capannoni dell’Autobianchi.
Altri sono stati
assunti da enti pubblici, chi ne aveva la possibilità è andato in
prepensionamento, anche con la mobilità. L’ultimo anno c’erano anche gli
incentivi, che mediamente erano di 30 milioni. Quelli rimasti, il giorno della
chiusura sono stati messi in cassa integrazione a zero ore. Io ero tra costoro.
Quel giorno ho pianto.
Negli ultimi
mesi ho abbandonato anche l’impegno sindacale, pur rimanendo delegato, perché
non me la sentivo di andare in assemblea a spiegare che si doveva chiudere.
Successivamente
ho lavorato (in nero) all’Ipsia, un istituto tecnico di Lissone, dove facevo il
barista. Finita la cassa integrazione sono stato assunto regolarmente e sono
rimato fino all’età della pensione.
La mia
esperienza sindacale è nata subito dopo la mia assunzione. Quindici giorni dopo
il mio ingresso in Autobianchi, mentre stavo lavorando è venuto da me Emilio Mariani
che si è presentato come rappresentante della Fim Cisl e mi ha proposto di fare
il delegato perché c’erano le elezioni per il rinnovo del cdf. La proposta mi
ha sorpreso, anche perché prima di allora non avevo mai incontrato il sindacato
e non ero iscritto. Ci ho pensato un po’ ed ho accettato. Mi ha fatto compilare
il modulo per l’iscrizione e sono stato subito candidato ed eletto.
Non mi ero mai
esposto e non ero conosciuto, non avevo mai avuto occasione di esprimere una
mia idea politica o sindacale. E’ stata una sorpresa, anche se in quel reparto
la Fim era in maggioranza.
Ho fatto il
delegato dal primo giorno che sono entrato in fabbrica fino alla chiusura dello
stabilimento.
Nelle prime
settimane ero un po’ spaesato, mi sentivo un po’ abbandonato a me stesso e di
fronte avevo una Fiom molto forte e la cellula Gramsci del Pci ben organizzata.
Ogni mattina c’erano dei loro incaricati che giravano nei reparti a vendere
l’Unità e l’azienda non diceva niente. Anche con gli altri delegati Fim non
andavo molto d’accordo, perché c’era gente di Lotta Continua, Democrazia
proletaria, Servire il popolo. Il consiglio di fabbrica in quel momento era
composto da 70 delegati, noi saremmo stati al massimo in 15, quelli della Uilm
erano in 5, mentre tutti gli altri erano iscritti alla Fiom. In fabbrica c’era
anche un nucleo della Dc, ma contava poco e con noi non aveva molti contatti.
Io votavo Dc, ma non ero iscritto al partito.
Ho dovuto
imparare quasi da solo, anche perché chi mi aveva proposto, che era uno dei più
anziani, non aveva molto tempo da dedicarmi. Anche dal sindacato esterno non
avevamo molto supporto.
Sulle vicende
aziendali si andava d’accordo con la Fiom se gli davamo ragione, ma quando non
eravamo d’accordo noi soccombevamo sempre perché eravamo una minoranza. Eppure
molti lavoratori avrebbero potuto sostenere la Fim in un territorio come quello
brianzolo, ma spesso votavano per la Fiom perché quella era l’organizzazione
maggioritaria.
Nel mio reparto,
al contrario, la maggioranza è sempre stata della Fim e la cellula del Pci era
praticamente assente. Non so come mai.
Nel montaggio,
quando si votava c’era un solo candidato, quello della Fiom, ma non perché ci
fossero delle azioni di contrasto, ma perché non c’era nessuno della Fim che si
presentava. E allora tutti votavano quello in lista.
In Autobianchi
non abbiamo avuto una presenza di nuclei di terroristi, anche se alcuni
lavoratori sono stati fermati, seppure solo per accertamenti. Uno è stato
arrestato per delle rapine che si diceva servissero come iniziative per
sostenere i brigatisti. Uno lavorava con me, iscritto anche lui alla Fim, e io
gli avevo sentito dire alcune cose a favore dei terroristi. Una volta hanno
trovato una stella a cinque punte disegnata su una scocca mentre passava sulla
linea, ma atti violenti in Autobianchi non ci sono mai stati.
Nel reparto
della lastroferratura, in alcune zone, in inverno si lavorava al gelo perché
c’erano gli aspiratori che aspiravano il fumo delle saldatrici e la caldaia non
riusciva a scaldare tutto il reparto perché il calore se ne andava con il fumo.
Ho promosso uno sciopero per far cambiare la situazione. Ho ottenuto che
fossero messe delle stufette elettriche nelle postazioni più fredde, ma ho
dovuto scioperare da solo perché negli altri reparti, dove c’era la Fiom,
faceva più caldo.
Una delle
vertenze più significative che abbiamo condotto in Autobianchi ha riguardato i
passaggi di categoria. Un’altra vertenza importante, ma questa volta di tutto
il gruppo Fiat, è stata la conquista della mezzora di mensa retribuita.
Per informare i
lavoratori si convocavano le assemblee generali e quelle di reparto. Io
preferivo quelle di reparto, intanto perché nel mio le facevo io e poi perché
consentivano di capire meglio e permettevano a chi lo voleva di intervenire,
mentre non lo avrebbero mai fatto nelle grandi assemblee con migliaia di
persone. Avevamo le bacheche per le affissioni di volantini e manifesti. In
fabbrica avevamo anche un giornalino e io ero l’unico della Fim che ci
scriveva. Sul giornalino di parlava di tutto, non solo di questioni sindacali.
Nella zona di
Desio eravamo l’azienda più grande e punto di riferimento per tutte le altre
fabbriche della Brianza. Se non ci fermavamo noi in occasione degli scioperi,
non lo faceva nessuno.
Ho avuto rapporti
con l’Innocenti, ho partecipato ad un incontro in fabbrica a Milano e una volta
sono andato con loro in Inghilterra ad un incontro con i sindacati inglesi.
Bello, anche se non ho capito molto di quello che ci dicevano. Abbiamo visitato
la Rover, la Lucas che costruiva batterie, un’altra fabbrica di componenti. Ho
assistito ad una trattativa tra azienda e sindacato. Le nostre riunioni durano
giorni, loro in quindici minuti hanno chiuso l’incontro.
Una volta, in
occasione del passaggio dell’Alfa alla Fiat, sono andato anche ad un incontro
con il consiglio di fabbrica in Alfa Romeo.
In quanto membro
dell’esecutivo del cdf Autobianchi, ho fatto parte del coordinamento Fiat auto
che si riuniva a Torino, dove si affrontavano i problemi del gruppo. Mi ricordo
che una volta si è discusso dei sabati lavorativi, e ci siamo riuniti anche
quando è stata annunciata la chiusura del Lingotto.