lunedì 1 giugno 2020

RENZO COMI - Alfa Romeo - Milano

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “I motori di Milano. Tute blu per il secolo veloce”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 201 

Sono nato l'8 marzo del 1949 a Garbagnate. Mio padre era operaio ed io ero il primo di tre fratelli. Ho frequentato le commerciali a Saronno. Alla fine dei tre anni sono entrato alla scuola aziendale dell'Alfa Romeo al Portello, che offriva l'opportunità di essere inserito in azienda. 

Avevo 14 anni. I corsi erano promossi come “scuola per quadri e buoni operai”. Ho frequentato il corso biennale, dal 1963 al ’65. Per essere ammesso ho dovuto passare una preselezione, la visita medica e portare il libretto di lavoro, anche se lo tenevano nel cassetto e non veniva timbrato, questo per evitare che si andasse a lavorare da qualche altra parte. Era una scuola molto buona, teorico pratica, si faceva mezza giornata di aula e mezza di officina. Ho studiato disegno tecnico, algebra e trigonometria, meccanica, meccanica d’officina, tecnologia. Ho imparato a usare il regolo. Gli istruttori erano tecnici e ingegneri dell’Alfa che insegnavano anche nella scuola aziendale. 

Per il disegno tecnico avevamo un docente che chiamavamo “il ginevrino”. Era un ingegnere responsabile degli uffici tecnici, dove c’erano centinaia di tecnigrafi. Lo chiamavamo così perché ogni volta che ci illustrava le norme Uni, faceva riferimento alla “norme di Ginevra”. Era terribile, se nel disegno facevamo qualche piccolo errore, appena lo notava strappava con disprezzo il foglio di carta dicendo: “Lei è un bru bru”. 

Il primo anno si faceva teoria in aula e il pomeriggio si faceva pratica ruotando in tutti i reparti. Ci andavo con il mio block notes dove annotavo tutto quanto mi veniva spiegato dal caporeparto e osservavo direttamente. Alla fine del periodo in ogni sezione preparavo una relazione su quanto avevo visto che veniva valutata dal docente e otteneva un punteggio. 

Un fatto mi ha colpito molto in quel periodo. Muovendomi da un reparto all’altro ho scoperto che negli scantinati della fonderia, tra le migliaia di anime degli stampi accatastate, costruite con materiale refrattario e colle che emanavano una puzza tremenda, lavoravano numerose donne. Un’attività che non aveva nulla di femminile, con indosso grandi camicioni sembrava fossero in un girone dell’inferno. In quei sotterranei maleodoranti ho trovato la mamma di una mia zia. Quando mi ha riconosciuto quella signora mi ha detto, in milanese: “Cosa fai qui?”. Saputo che ero un allievo della scuola interna, ha commentato: “Bel mestiere la scuola”. 

Quando ad Arese, a causa della chiusura dello stabilimento milanese dell’Unidal sono arrivate le operaie, gli uomini si chiedevano scandalizzati dove avrebbero messo a lavorare quelle donne. In verità le donne in fabbrica nel 1963 c’erano già, anche se non si vedevano. 

Al Portello i reparti di fonderia e forgia erano conciati, bruttissimi, neri, con macchinari obsoleti, tutti impregnati di odore di colle e grasso. Di quegli anni mi sono rimasti particolarmente impressi l’oscurità e gli odori. I neon erano come sprazzi di luce nella notte nera. 

Andavo in Alfa con il treno delle Ferrovie Nord, sempre di corsa, scendevo alla Bullona. L’entrata era all’ottava portineria, in piazzale Accursio, di fronte al tirassegno e accanto al “castello”, la struttura in tubi di ferro con sopra la scritta “Alfa Romeo – filiale di Milano” che stava lì ad indicare la concessionaria cittadina. Quando pioveva o c’era brutto tempo entravo dalla prima o seconda portineria, all’inizio di via Marco Ulpio Traiano, dalla parte opposta rispetto alla scuola. I guardiani non volevano e qualche volta mi cacciavano indietro, ma il più delle volte mi lasciavano passare. Per non bagnarmi mi infilavo nei passaggi sotterranei, che una volta servivano anche come rifugi in caso di bombardamento. Lungo i corridoi si trovavano tutte le indicazioni per i vari reparti, era un labirinto. Lì sotto erano sistemati anche gli spogliatoi per gli operai e si aprivano delle porte numerate che davano su grandi locali con file di lavabi, con tre gabinetti con le mezze porte che avevano di fronte tre docce. 

Nella zona sud c’erano fonderia, fucine e verniciatura mentre nella zona nord c’erano le meccaniche (motori, gruppi meccanici, ecc), le manutenzioni e l’officina 10 e 11 DiProA, dove si realizzavano le produzioni ausiliarie come attrezzature, maschere di assemblaggio, stampi della carrozzeria, stampi della forgia. In quel fabbricato c’era un settore con un portellone di ferro scorrevole e lì dentro c’era la scuola che aveva la direzione al piano superiore e al piano terrà l’officina per le prove pratiche degli studenti. 

L’Alfa Romeo in quegli anni era una fabbrica integrata. Entravano le barre che venivano tagliate a misura con le “tronca billette” e poi venivano forgiati i pezzi con i magli. Arrivavano i pani di alluminio che venivano fusi in fonderia, le lamiere in grandi fogli andavano alle presse che stampavano, oppure c’erano le piccole presse, che noi chiamavamo “trancette”, che facevano i piccoli pezzi, poi c’erano assemblaggio, verniciatura. 

Nella scuola c’erano una trentina di banchi con la morsa da attrezzista e la prima cosa che si imparava a fare era realizzare un cubo di ferro perfettamente squadrato usando solo la lima. 

Erano più classi e ognuna era di 30 persone, ma non tutti facevano le stesse cose. Una preparava nella specializzazione per la carrozzeria, l’altra per l’officina e una per i motori. Il secondo anno, dopo aver conosciuto l’intero ciclo produttivo e aver visitato tutti i reparti, si era indirizzati verso una di queste specializzazioni, con ulteriori indirizzi specifici. In officina, ad esempio, si imparava prima a conoscere e a lavorare su tutte le macchine: torni, frese, rettifiche, piana, piallette e poi gli ultimi sei mesi ci si specializzava: chi tornitore, chi rettificatore, chi fresatore lavorando su una sola macchina. 

Io ho fatto la specializzazione come tornitore. Finiti i due anni siamo stati quasi tutti assunti, qualcuno è stato scartato, sia al primo anno che al secondo. La selezione tendeva ad escludere i ragazzi più indisciplinati, gli scavezzacolli e chi non raggiungeva una valutazione sufficiente. 

Ogni mese veniva distribuita una sorta di pagellina. Come allievi avevamo il pranzo gratuito a mezzogiorno e venivamo pagati per le ore fatte e in base al profitto con una sorta di stipendio. Mi ricordo che era di 20 lire all’ora il primo anno, 70 lire il secondo e chi faceva il triennale 100 lire. Per avere quei pochi soldi, che servivano a mala pena per comperarsi un panino allo spaccio aziendale e che chiamavano “concorso spese”, dovevi avere almeno “buono” sulla pagellina-busta paga. Se avevi solo sufficiente non ricevevi niente, se avevi insufficiente per due mesi consecutivi venivi espulso. Timbravamo il cartellino entrate e uscite al mattino, mezzogiorno e sera. Se si arrivava in ritardo si doveva portare la giustificazione dei genitori. Quando il treno era in ritardo – e questo succedeva frequentemente – la direzione della scuola si informava se era vero oppure era una scusa inventata. 

Oltre le materie tecniche studiavamo cultura generale affidata a due sacerdoti, il primo un po’ conservatore, tradizionalista, il secondo don Cesare Sommaria, “don Cece” come lo chiamavamo noi, è stato uno dei primi preti operai ed è stato licenziato dall’azienda per le sue posizioni. Il primo libro che ci ha proposto all’inizio del corso era “El nino che no estudia non es un buen revolucionario” del Che Guevara. Evidentemente questo fatto non fu apprezzato dalla direzione dell’Alfa Romeo. 

Entrambi questi sacerdoti hanno contribuito alla nostra maturazione, ci hanno spinto a cercare di capire i problemi, a vedere le cose con attenzione e non con superficialità. Per me che arrivano con la cultura del bravo ragazzo dell’oratorio questo è stato un insegnamento sconvolgente. 

Oltre alla cultura generale, c’erano le lezioni di cultura aziendale. Queste erano tenute da dirigenti della direzione del personale, che allora si chiamava direzione centrale del personale e delle relazioni sociali. 

Il responsabile della scuola aziendale dell’Alfa Romeo quando frequentavo io era l’ing. Trabucchi, faceva parte della direzione centrale ed era un innovatore. E’ stato il presidente di transizione della società di mutuo soccorso nata in azienda, la “Fondazione 25 aprile”, che faceva assistenza per i lavoratori e le loro famiglie: dalle colonie agli scarponi, al pacco viveri. In precedenza il presidente era di nomina aziendale e il consiglio di amministrazione era misto. Nel ‘69 ci sono state delle proteste di parte sindacale per cui venne decisa la nomina di un vicepresidente di nomina operaia e come punto di mediazione è stato scelto proprio l’ing. Trabucchi. 

Entrare alla scuola dell’Alfa Romeo è stato un fatto importante per me e l’ho vissuto con orgoglio. In azienda ti facevano sentire il vanto di essere uno dell’Anonima Lombarda Fabbrica Automobili. 

La portineria più importante era la quinta, la più centrale della fabbrica, con la facciata più prestigiosa, dove c’erano la direzione centrale e le relazioni sociali. 

Vicino alla quinta portineria c’erano tutte le strutture delle relazioni sociali: il cral con il bar e la vendita delle tute e altri prodotti scontati come vestiti ed elettrodomestici, salendo attraverso una scalinata si arrivava la biblioteca interna con migliaia di volumi, con le assistenti sociali che ti aiutavano nella scelta dei libri (oggi quei libri sono nella cantina dell’ex Centro direzionale di Arese, per metà allagati, quelli più belli sono scomparsi), c’era il cinema aziendale dove facevano i film alla sera, ma anche nell’intervallo mensa. C’era gente che si prendeva un panino e andava a vedere il film. Proiettavano la Settimana Incom, i provini dei film in programmazione alla sera con spezzoni del film stesso. L’intervallo era di un’ora. I guardiani controllavano che nessuno entrasse con il primo turno mensa e si fermasse anche con il secondo. L’ingresso era gratuito anche la sera. 

Le relazioni sociali prenotavano anche i biglietti per gli spettacoli teatrali di Milano. Per quasi vent’anni ho fatto l’abbonamento alla stagione del Piccolo Teatro a costi estremamente favorevoli e ho continuato ad andare a teatro anche quando mi sono trasferito ad Arese, perché il servizio è continuato anche dopo. 

La gigantesca mensa del Portello era situata accanto alla quinta portineria. Il grande capannone aveva due piani, si saliva al secondo con due grandi scaloni. Il soffitto era a volta. Al piano terra servivano il pasto in bianco e mangiavano anche tutti coloro che avevano problemi fisici, al piano superiore il pasto era in rosso. Io mangiavo al secondo piano. Si pranzava in più turni di mezzora, a partire dalle 11 e 30. Nelle grandi sale c’erano delle file di lunghi tavoli stretti con sotto gli sgabelli. Ci si sedeva sugli sgabelli con davanti il piatto e si appoggiava sul tavolo il buono mensa, nel corridoio tra un tavolo e l’altro passava l’inserviente con il carrello che distribuiva la minestra o la pasta con un mestolo, alternativamente su un lato e sull’altro. Poco dopo passava un nuovo carrello con il secondo. Il primo era uguale per tutti, invece se qualcuno non voleva il secondo poteva alzarsi e andare ad un bancone dove era possibile avere un piatto di salumi o formaggio. Al bancone si ritirava anche il pane con l’apposito buono. I buoni mensa erano distribuiti mensilmente dai capi nei reparti. 

Sui tavoli c’erano solo i piatti, mentre le posate e il tovagliolo dovevamo portarceli da casa. Nella stessa sala dove si mangiava, ad ogni colonna c’erano dei lavandini dopo si potevano lavare le posate. Io le portavo in tasca della tuta e poi le lasciavo nel mio armadietto. 

Sul tavolo c’era anche un bicchiere di metallo, bianco all’interno e rossiccio all’esterno. Per l’acqua c’erano i rubinetti e ognuno si doveva servire. C’era anche il vino, ma a pagamento. Dietro il bancone c’era un mastello pieno e una donna riempiva quella sorta di gavetta con un mestolo. 

Il fatto impressionante era l’ingresso in mensa, io una volta uscendo dalla scuola ho rischiato di essere travolto. Si doveva lasciare il reparto solo dopo il suono della sirena e all’angolo del capannone mensa c’era una garitta con un custode che controllava che nessuno anticipasse i tempi e se vedeva qualcuno lo multava. Gli operai, che in gran parte lasciavano il reparto prima del suono della sirena, si nascondevano dietro gli angoli dei capannoni, fuori dalla vista del guardiano, e appena la sirena iniziava a urlare, questi scattavano in avanti sbucando da tutti gli angoli. 

I primi giorni di scuola non sapevo di questo fatto così, terminata la lezione, mentre mi stavo incamminando con i miei compagni verso la la mensa ho rischiato di essere travolto. 

Concluso il corso sono stato assunto come operaio qualificato e ho fatto il periodo di prova di 15 giorni nel reparto della produzione ausiliaria dove realizzavano gli stampi della carrozzeria. Lì però ho lavorato solo per due giorni , poi io e un altro siamo stati chiamati dal capo che ci ha detto che dovevamo andare a lavorare ad Arese. 

Io mi trovavo bene a Milano perché spesso, magari raccontando una bugia a mia madre, mi fermavo in città e ho cercato di oppormi. Ma inutilmente. Il 25 ottobre del 1965, dopo aver mangiato in mensa, sono stato spedito ad Arese con la macchina di servizio. Ricordo che c'era un nebbione fitto e non si vedeva niente. Alla sera sono andato a casa a piedi e dal giorno dopo per quarant'anni sono sempre andato al lavoro in bicicletta. Quel primo giorno, mentre mi avviavo verso casa nella nebbia, ho imprecato contro il mio dirigente per tutto il cammino. 

In quel momento Arese era in costruzione e c'era solo il capannone uno, dove c’erano stampaggio e assemblaggio, con all'interno l'officina. L'area era tutto un cantiere con le ruspe in azione che scavavano grandi buche mentre si stavano costruendo nuovi capannoni. Il mio era in fondo allo stabilimento, quasi addossato al canale Villoresi. Arrivati in portineria è venuto il nuovo capo reparto a prenderci. Il suo ufficio era un box di vetro e lamiera all’ingresso del reparto. Davanti c’erano tutti i banchi degli aggiustatori, in fondo c’erano le macchine utensili: tre torni, tre frese, due rettifiche, una rettifica piana, un’alesatrice, un lapidello e altre piccoli macchinari. 

Eravamo due tornitori e il capo reparto ci disse che c'era posto per uno solo. Noi ci siamo guardati negli occhi sorpresi e incerti. Il capo ci ha osservati un po' e poi al mio amico, che era più piccolo di me, ha detto che lui andava bene a fare il tornitore mentre io, più grande e robusto, avrei lavorato sulla fresatrice. Aggiungendo che, avendo frequentato la scuola, dovevo essere in grado di fare il fresatore e che se fosse stato necessario avrei dovuto essere disponibile a fare anche altre cose. 

Oltre ad essere sorpreso, mi sentivo in difficoltà. Salvo qualche esperienza durante il corso non avevo mai lavorato sulla fresatrice e il mio timore era di fare cattiva figura. 

I capi allora indossavano una giubba nera con una “medaglia” colorata con la scritta Alfa Romeo e in base al colore si capiva il grado di responsabilità. In occasione della presentazione e quando dovevano fare dei richiami mi davano del lei, per il resto invece mi davano del tu. 

Dopo la veloce illustrazione dei miei nuovi compiti, il capo reparto ha chiamato il capo linea, signor Fucs, e mi affidato a lui. Fucs mi ha portato da un operaio anziano che lavorava su una fresatrice accanto a quella sulla quale avrei dovuto lavorare io, dicendomi che per ogni problema avrei dovuto rivolgermi a lui. 

Davanti alla mia macchina mi sono bloccato: una Cincinnati dono degli Stati Uniti con il Piano Marshall, ormai logora e con dei pezzi delle guide mancanti. In quell’area si costruivano stampi e attrezzature per le carrozzerie a freddo. Non era come le fresatrici giganti che c’erano al Portello, questa macchina americana era vecchia, lo stampo da lavorare stava sul bancale solo per metà, mentre l’altra metà poggiava su un carrello a rulli. Si lavorava praticamente con la testa dentro la macchina, mentre la fresatrice aveva delle vibrazioni tremende e c’era continuamente il rischio di rompere le grandi frese a candela sulla ghisa degli stampi. 

Per sostituire le frese spezzate serviva un buono di ricambio che veniva fatto dal signor Fucs, che gli operai anziani chiamavano “l’assassino”, il quale prima di fare il buono mi faceva delle lavate di testa che ricordo ancora oggi. La prima battuta era sempre: “Bravo, bravo, vedo che a scuola ha avuto modo di imparare bene come si lavora”. 

Girava nei reparti tra le macchine utensili con le mani dietro la schiena, controllando il nostro lavoro. Sempre pronto a richiamare la necessità di fare in fretta e non perdere tempo. Io mi sono dato da fare per imparare e smentire il signor Fucs. 

La prima busta paga è stata di 65mila lire al mese per 48 ore la settimana. Gli straordinari al sabato erano praticamente un obbligo e sono stato chiamato in direzione perché non volevo farli e inventavo sempre una scusa per cercare di evitarli. 

Ho sempre lavorato in officina, nella produzione ausiliaria DiProAus. Sempre nel capannone 1, insieme al mio primo compagno e a un altro allievo della scuola che ci ha raggiunti un paio di mesi dopo e che è stato messo su una rettifica. Con vari capi che si sono succeduti e con un conflitto sempre aperto con il dirigente che mi aveva trasferito dal Portello ad Arese. Sono passato a lavorare anche su altre macchine, in particolare un’altra fresatrice americana, una “Keller”, trasferita dal Portello, della quale conservo la targhetta con la bandiera degli Usa che ho svitato dalla fiancata quando sono andato in pensione. Su quella macchina sono rimasto per circa due, tre anni, lavorando su due turni. Era un lavoro tremendo, si usavano soprattutto olio e petrolio, con una puzza che ti rimaneva addosso. Ogni volta che finivo il mio turno stavo un’ora sotto la doccia in fabbrica per togliermi quell’odore che entrava nella pelle. A casa era impossibile lavare le tute e dovevo buttarle via. Per questo abbiamo rivendicato il lavaggio da parte dell’azienda. 

In Alfa Romeo i lavoratori avevano tute di colore diverso. Le tute blu le indossavano gli operai normalmente addetti alla produzione, mentre gli addetti alle manutenzioni e a lavoretti vari indossavano la vestaglia blu, gli addetti ai controlli portavano giubbetti o tute verdi, gli addetti alla manutenzione, che si chiamavano quelli della 15 perché il loro reparto aveva il numero 15, erano contraddistinti da una tuta color cachi, gli impiegati dei tecnigrafi avevano i camici bianchi. Io portavo la salopette con la maglietta a maniche corte e il giubbino da indossare sopra. 

Nel 1967 ho fatto il servizio militare. Dopo due anni di lavoro in azienda avrei dovuto avere il passaggio a operaio specializzato, ma siccome dovevo fare il soldato non me lo hanno dato e l’ho avuto solo al rientro in fabbrica. Però mi hanno detto che il mio posto non c’era più e che dovevo andare in un altro reparto. Così sono stato trasferito alla forgia stamperia, nel reparto stampi a caldo. Quando hanno completato la costruzione della fonderia e fucina, infatti, ad Arese hanno realizzato un’altra officina per gli stampi a caldo, per i magli e le pressocolatrici. 

A me non piaceva, anche perché il nuovo capo reparto mi ha messo su una tornitrice, un lavoro che non avevo più fatto dai tempi della scuola, per una produzione a cottimo, quasi di serie, dove si riprendevano tutti i pezzi che avevano dei problemi. Ho attivato da subito una sorta di boicottaggio, rallentando al massimo i tempi di produzione e di cambio degli attrezzi, finché un giorno ho incontrato il responsabile del reparto dove lavoravo prima che mi ha chiesto come mi trovavo con la nuova mansione. Sentito il mio disagio si è dato da fare e dopo una settimana sono ritornato al mio posto. Nel frattempo il reparto era stato ampliato e rinnovato con nuove macchine più moderne per stampi più grandi e ho lavorato per circa quindici anni su una bella “Huron” francese. 

Intanto il Portello a Milano era stato chiuso definitivamente e i reparti si erano tutti trasferiti ad Arese. Dopo la lastroferratura hanno costruito la verniciatura, mentre prima le vetture andavano ancora al Portello, e quindi è stato terminato il capannone 6, che era quello della “finizione”: montaggio, abbigliamento e collaudo finale. Successivamente è sorto il silos, dove stoccavano le vetture pronte, poi la forgia e la fonderia e per ultime sono arrivate le meccaniche, al capannone 28, dove stavano la gruppi e i motori. Verso la Valera sono sorte le strutture che ospitavano il Centro Stile, la Costruzioni sperimentali e la sale prove. La prima produzione di Arese è stata la Giulia, poi sono arrivate la Giulietta e il Duetto, che andavano quasi tutti negli Usa, mercato che poi è stato abbandonato per la richiesta di particolari dispositivi a salvaguardia dell’ambiente. 

Arese è andata a regime nel 1970. A Milano era rimasta qualche piccola attività, che è stata via via abbandonata. 

Anche la scuola è stata trasferita ad Arese. Il mio corso è stato il penultimo fatto al Portello, poi ha continuato l’attività in una nuova struttura situata dopo il Centro direzionale, verso le autostrade. Da quel momento si chiamò Ancifap e non era più gestita direttamente dall’azienda. Tra gli istruttori molti erano miei compagni che lavoravano in officina con me. La regola che non basta fare un lavoro ma si deve farlo bene ha continuato ad essere la base dell’insegnamento e gli allievi continuavano a trasferirla anche dentro i reparti. 

L’Alfa è passata dall’Iri alla Fiat nel 1986. L’azienda in quel momento andava bene. Pesava invece la realizzazione dello stabilimento dell’Alfa Sud che era una palla al piede. Quella scelta era stata fatta anche con l’accordo delle organizzazioni sindacali nazionali. La Fim e la Fiom in fabbrica, invece, erano schierate per la Ford, ma poi i dirigenti nazionali “ci hanno convinto” che la ragion di stato imponeva l’arrivo della Fiat, che era un’azienda italiana. 

La politica era tutta schierata a favore della Fiat. Noi ad Arese abbiamo fatto diverse manifestazioni contro, ma il sindacato alla fine ha dovuto subire la scelta del governo che ha spiegato che non c’erano alternative. 

Ho vissuto la vendita come una sciagura dal punto di vista industriale, un imbarbarimento dell’azienda, uno sfregio alla personalità che avevamo. Ai nuovi manager venuti da Torino non interessava lavorare bene, avevano in mente solo le quantità. In fabbrica era diffusa e condivisa una sensazione di disagio, l’idea di essere arretrati invece di andare avanti. 

Appena avvenuto il passaggio, la direzione ha organizzato riunioni dei quadri e incontri nei reparti più strategici, tra i quali anche il mio. Mi ricordo che il disco faceva più o meno così “L’Alfa Romeo è una bella donna e sta bene anche senza la pelliccia. Togliamo la pelliccia”. 

Uno dei primi interventi fu quello di smantellare i magazzini delle attrezzature perché erano considerati dei costi. Così quando si rompeva un attrezzo per averne uno nuovo ci volevano un mese e una sfilza di passaggi burocratici. Poco a poco, per superare questa situazione, ogni attrezzista si organizzò tenendo una scorta personale di punte e attrezzi che gli avrebbero potuto servire. Io ad un cero punto mi sono ritrovato con ben tre armadietti chiusi con un lucchetto dove accumulavo le mie scorte e se qualcuno mi chiedeva un pezzo giuravo di non averlo. Una cosa fuori del mondo. 

Con Fiat sono peggiorate anche le condizioni di lavoro. Quando sono rientrato nel mio reparto dopo l’esperienza di distaccato per la Fim mi hanno proposto lavorare su due turni. In quel momento mi faceva comodo perché stavo sistemando la mia casa e poi avrei potuto continuare a svolgere la mia attività sindacale garantendo anche la produzione. Li ho fatti per un anno e mezzo e mi sono trovato intrappolato perché arrivavo al mattino alle otto per fare attività sindacale e poi, dovendo iniziare il turno alle tre, mi fermavo in fabbrica, ma in questo modo di fatto non andavo mai a casa. Lavorando su due turni avevo una pausa di 40 minuti di mensa, quando è arrivata Fiat ci ha subito tolto 10 minuti. Cambiata la regola, trovato l’inganno, perché in realtà tutti staccavano un po’ prima e rientravano un attimo dopo e così formalmente ci si fermava per trenta minuti, ma in realtà la pausa era ancora di 40. 

Anche nel lavoro di tutti i giorni la situazione è peggiorata decisamente. Mentre a noi avevano insegnato a lavorare bene, gli uomini Fiat avevano solo in mente di economizzare. Ricordo che da Torino ad un certo punto è arrivato un dirigente che ha imposto l’eliminazione dei piccoli interventi di manutenzione, che erano molti ma erano anche quelli che consentivano che la produzione non si fermasse. Costui ha tolto tutti polmoni all’assemblaggio, così quando si rompeva qualcosa non si poteva intervenire, con la conseguenza che la vettura doveva essere ripresa a fine linea con un costo enorme, inoltre diventava la scusa per tutti gli operai per fermarsi perché la vettura era incompleta. 

Contro questo dirigente abbiamo scritto ben 17 tazebao denunciando la sue scelte sbagliate e lo abbiamo soprannominato “l’ingegnere del tubo”. Cose assurde, che noi in officina vedevamo tutti i giorni. Rapidamente, questo dirigente è scomparso. 

Fiat al suo arrivo ha liquidato tutto il sistema di relazioni sociali che erano in vigore in Alfa, gestite da organismi bilaterali nei quali la maggioranza era dei lavoratori. Tutto venne concentrato sotto le politiche per il personale. 

Il sindacato l’ho conosciuto appena entrato in reparto. In quei giorni ad Arese c'erano già degli scioperi, ma siccome ero ancora in prova sono stati gli stessi operai miei nuovi compagni di lavoro a dirmi che non dovevo scioperare. Un mesetto dopo il mio arrivo, terminato il periodo di prova, sono stato avvicinato da due attivisti della Fim (Ersilio Mizzi, che faceva parte della commissione interna, e Ernesto Guarnieri) che mi hanno proposto di iscrivermi al sindacato. 

I vecchi militanti sindacali sapevano immediatamente individuare qual era la collocazione dei nuovi arrivati e così da me, ragazzo dell'oratorio, sono arrivati immediatamente i rappresentanti della Cisl. Nel mio reparto come in tutti i reparti professionali la Fim era molto più presente della Fiom che lì non aveva delegati 

La commissione interna ad Arese aveva sede sotto la mensa centrale, tra l'infermeria e i pompieri. Nell'ultima fase della commissione interna sono nate le sas, le sezioni aziendali sindacali e poi sono stati creati i consigli di fabbrica. Io sono stato eletto delegato nel primo consiglio di fabbrica nel 1971. Si votava su scheda bianca. In reparto mi hanno votato tutti. Nel frattempo sono stato inserito nelle iniziative sindacali e andavo alle riunioni della Fim che si facevano in via Plana. Sono stato anche mandato a frequentare un corso di formazione della Fim a San Pellegrino. Non avevo nessuna conoscenza delle vicende sindacali, anche se in paese avevo frequentato un poco le Acli e poi, essendo entrato in rotta di collisione con l'assistente dell'oratorio, avevo fondato insieme ad altri ragazzi il circolo Kennedy, organizzando dibattiti e incontri su temi culturali ma non su quelli del lavoro di cui conoscevo poco o niente. 

Ho frequentato più volte corsi di formazione sindacali e ho conosciuto in quelle occasioni numerosi dirigenti tra cui Pierre Carniti e Bruno Manghi. 

Come delegato ho fatto il distaccato per la Fim in produzione per quattro anni, negli anni di maggiore sviluppo dell’Alfa, all’incirca tra il ‘74 e il ‘77. C’erano alcuni che facevano gli intellettuali, io ero quello che quando c’erano da preparare le assemblee mi preoccupavo degli aspetti organizzativi: dai microfoni ai manifesti. 

Poi ho fatto un altro paio d’anni part time, anche se era più il tempo che passavo al consiglio di fabbrica che non quello che stavo in officina. Ho fatto parte anche dell’esecutivo del consiglio di fabbrica che era composto da 23 persone. 

Ho avuto diversi incarichi sindacali, per un certo periodo ho sostituito anche un operatore fuori dalla fabbrica. Ho fatto parte del direttivo provinciale della Fim per vario tempo. Sono stato nel coordinamento auto e alcune volte ho seguito per conto della Fim le trattative nazionali per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. 

Quando c'erano gli scioperi i primi anni si partiva tutti insieme per ritrovarsi al Portello e poi da lì andare in corteo in centro a Milano. In quegli anni tutto era unitario e infatti è nata la Flm. 

Ad Arese con una vertenza ci siamo fatti assegnare uno spazio per l'organizzazione sindacale. Ci è stata data una sala mensa che abbiamo sistemato. Da una parte abbiamo creato il salone per le riunioni del consiglio di fabbrica e dall'altro abbiamo creato degli uffici, uno per il patronato unitario, una sala riunioni per l'esecutivo del consiglio di fabbrica, e alcune salette per riunioni e attività varie. È stata una vertenza dura ma una volta conquistato gli spazi l'azienda li ha sistemati come volevamo noi. Abbiamo deciso di affrescare il salone del consiglio di fabbrica e per questo abbiamo lanciato l'idea di un concorso fra il mondo creativo alternativo assai diffuso a Milano. Alcuni hanno dipinto il soffitto, altri hanno affrescato le pareti, qualcuno ha fatto dei pannelli. Qualcuno ci ha creato anche dei problemi, un pannello ad esempio era dedicato ai tromboni del sindacato. 

Avevamo anche una macchina eliografica per produrre in proprio i nostri manifesti. Facevamo sempre 17 cartelli. Ne mettevamo dieci nelle portinerie, due per ogni portineria: la est, la ricambi, la centrale, la pesa, e il centro, mentre gli altri li affiggevamo all'ingresso dei reparti dove la gente timbrava il cartellino. Negli anni ‘70 gli operai erano interessati e si fermavano a leggere i nostri manifesti. Raramente abbiamo fatto dei volantinaggi perché le persone erano tante e sarebbe stato un costo assai elevato. Fare i manifesti era una faticaccia, con gli odori di ammoniaca che ti ferivano nel naso. Abbiamo fatto anche un corso per disegnarli nel migliore dei modi aiutati da un nostro simpatizzante, che era un creativo e lavorava al centro direzionale a preparare la cartellonistica per l'azienda. Eravamo ben organizzati e qualunque cosa avessimo bisogno riuscivamo a costruirla in azienda. 

Per fare il palco delle assemblee avevamo attrezzato quattro cestoni con degli incastri che abbiamo realizzato in officina per non farli muovere sui quali si saliva con una apposita scaletta. Attrezzavamo il palco con le bandiere di Fim, Fiom, Uilm e un microfono mentre le casse le trasportavamo su un carrello. Nella sala delle assemblee generali, il capannone 28, avevamo fatto un impianto fisso con delle trombe collegate con cavi che avevamo preso nel reparto che preparava gli impianti elettrici delle automobili. Eravamo in grado di collegare fino a sei colonne, che si utilizzavano quando c'era tanta gente, altrimenti ne utilizzavamo quattro o due. Questi lavori li ha fatti per noi la manutenzione. Durante le assemblee c'era un addetto della manutenzione sempre pronto ad intervenire per sostituire un fusibile o riparare eventuali guasti. Arrivava con la bicicletta e si metteva sotto il palco. Avevamo un tecnico che si preoccupava dei telefoni. Per il salone del consiglio di fabbrica abbiamo chiesto gli arredi all'azienda e la direzione ci ha detto di sì. Noi allora siamo andati a vederli alla Castelli, che stava in Piazza Castello a Milano, le sedie erano molto belle ma anche molto costose. Dalla direzione ci hanno detto che eravamo pazzi, infatti ce ne servivano ben 400. Così siamo andati in mensa e ci siamo fatti dare le sedie da loro. Le abbiamo saldate con dei tubi a file di cinque per far sì e non si muovessero. Con l'aiuto della manutenzione abbiamo anche allestito una pedana e il tavolo della presidenza. Lungo la parete abbiamo messo tutti gli attaccapanni. 

La prima importante vertenza che ho seguito è stata l'abolizione del turno di notte allo stampaggio. Era un settore dove si lavorava su tre turni perché le presse dovevano garantire la produzione sulle catene di montaggio che invece lavoravano su due turni. Nel 1972 abbiamo fatto 170 ore di sciopero per abolire il turno di notte e abbiamo vinto. I livelli produttivi sono stati mantenuti con l'introduzione di innovazioni tecnologiche e attraverso la concessione di un pacchetto di ore di straordinario per creare un po' di polmone, nel frattempo è stata costituita una commissione che doveva verificare tutti i possibili interventi per migliorare la produttività. Tutto questo ha consentito l'eliminazione del terzo turno, ma ha creato altri problemi per i ritmi di lavoro e anche su questo abbiamo dovuto condurre delle trattative. 

La fabbrica di Arese era nuova e tecnologicamente avanzata, gli spazi erano molto più salubri che al Portello. Appena nato il consiglio di fabbrica, peraltro, ci siamo costituiti in commissioni di lavoro e una era dedicata ad ambiente, sicurezza e salute. Nella commissione c'era anche la parte aziendale, ma si lavorava bene, con persone che ci mettevano la testa, così in fonderia e alla forgia venne installato un sistema che soffiava aria pulita all'interno del reparto creando una pressione interna che espelleva i fumi. Per migliorare le condizioni di lavoro in fonderia, abbiamo concordato pause aggiuntive e altri interventi perché il nostro motto era: la salute non si vende. Alcuni lavoratori erano contrari, perché preferivano avere dei soldi in più in busta piuttosto che un ambiente più sano. 

Fortunatamente in fabbrica non ci sono stati mai molti incidenti gravi e quando si verificava qualche infortunio si interveniva subito. Con l'arrivo della Fiat il problema dell'ambiente, invece, è diventato esclusivamente una questione di costi. 

La politica in Alfa è sempre stata presente, c'era la sezione del Pci molto attiva, c'era quella del Psi, c'erano i socialdemocratici e c'era anche la sezione dei democristiani. Le persone impegnate in politica si ritrovavano quasi tutte nel consiglio di fabbrica. La Fiom eleggeva i propri delegati tenendo conto delle appartenenze politiche. I partiti intervenivano sempre sui temi in discussione, spesso portavano in consiglio di fabbrica e in assemblea le loro linee. Si sentiva la loro presenza, ma non era un peso oppressivo, perché contribuivano seriamente al dibattito e spesso erano rappresentati da persone molto preparate e autorevoli. Normalmente prima delle riunioni del consiglio di fabbrica si riunivano le cellule di partito. 

Quando sono state introdotte le 150 ore con il contratto nazionale di lavoro ad Arese siamo partiti immediatamente. Siamo riusciti a trovare una preside a Rho che veniva da noi e con lei abbiamo organizzato i primi corsi per la quinta elementare per gli operai in una scuola di Santa Maria Rossa, una frazione di Garbagnate, vicina allo stabilimento. Erano corsi ben fatti e l'obiettivo non era solo imparare a leggere e scrivere e far di conto, ma anche aprire un po' la mente. La matematica si faceva avendo come libro di testo la busta paga. La scuola, però, ha attirato anche personaggi pericolosi e alcuni brigatisti. In fabbrica, ben celati, c'erano sia brigatisti che poliziotti della Digos, ma con la scuola sono arrivati in massa. Abbiamo avuto Oreste Scalzone, la moglie di Toni Negri e molti altri di cui non ricordo il nome. Costoro non sono venuti perché dovevano insegnare, ma perché volevano fare politica e indottrinare gli operai. Questo ha provocato notevoli problemi all'interno del consiglio di fabbrica. Un giorno abbiamo convocato l'assemblea per discutere della situazione delle 150 ore e Scalzone voleva entrare in fabbrica e partecipare alla riunione per spiegare - così diceva lui – “ai compagni comunisti che sbagliano” la loro attività. Io gli ho evitato di prendere un sacco di botte, sono andato in portineria a parlare con lui e gli ho detto che se entrava avrebbe rischiato grosso. Lui insisteva, sono arrivati altri membri del consiglio di fabbrica e finalmente ha capito che gli conveniva andarsene. Se n'è andato, ma ha fatto un volantino contro i revisionisti del consiglio di fabbrica che impedivano l'emancipazione della classe operaia. Per noi il vaso era colmo e abbiamo cambiato quasi tutto il corpo docente, così l'esperienza ha potuto continuare. Non è stato facile anche perché in fabbrica c'erano gruppi che li sostenevano, oltre ai brigatisti veri e propri che in quel momento gambizzavano i capi. In fabbrica si respirava un'aria pesante, ma non sapevamo chi fossero i brigatisti, solo dopo che venivano arrestati ci rendevamo conto della realtà. A volte alcuni avevano addirittura posizioni filo padronali per evitare di essere individuati. Alcuni arresti sono avvenuti anche in fabbrica. 

Avevamo un buon rapporto con la sorveglianza interna e qualche volta ci sono arrivati dei suggerimenti per stare attenti ai comportamenti di alcune persone. Quando c'erano scioperi o manifestazioni interne con cortei si evitava di passare in aree che potevano essere pericolose o dove qualche esagitato avrebbe potuto causare guai. 

In consiglio di fabbrica a volte ci sono stati dei tafferugli con scontri abbastanza aspri su posizioni diverse, ma i contrasti tra delegati non sono mai stati violenti. I conflitti si sono acuiti quando ci sono state le scissioni dalla Fiom, con la nascita dei Cobas, e dalla Fim, con la nascita della Flmu. A quel punto gli scontri sono diventati di tipo ideologico e non si riusciva più a discutere. Il risultato di queste divisioni è stato un indebolimento complessivo del sindacato. 

Attualmente ad Arese sono attivi ancora la Società di mutuo soccorso e il museo che apre solo a richiesta. L’ultimo reparto spostato a Torino è stato il Centro stile. 

La Società di mutuo soccorso, dove io vado a dare una mano un paio di giorni alla settimana come volontario, è nata nell’agosto del 1947, dopo la guerra, con il nome di “Fondazione 25 Aprile” per gestire le colonie dei dipendenti, distribuire pacchi viveri e altre assistenze che Fiat ora gestisce in proprio attraverso Fasifiat. Noi però siamo andati avanti e nel 2009 abbiamo distribuito 40mila euro di assistenze. 

Aiutiamo chi è in difficoltà, ad esempio non riesce a pagare l’affitto. Diamo dei prestiti ma anche contributi a fondo perso, interveniamo per le spese specialistiche, spese sanitarie integrative. 

Contrariamente al modello aziendale, che è basato sull’individualità, la nostra caratteristica è la solidarietà. Reggiamo grazie al nostro patrimonio. Per lungo tempo abbiamo posseduto due alberghi, poi quello che si trovava a Pino, sulla sponda magra del Lago Maggiore, in provincia di Varese, nel 1987 lo abbiamo ceduto. Prima lo davamo in gestione poi l'abbiamo venduto tramite la comunità montana che ne ha fatto un residence. 

L'altro albergo è ad Alberga, in Liguria. La Fondazione ai tempi dell'Alfa Romeo era sostenuta dall'azienda che pagava le colonie al mare e in montagna ai figli dei lavoratori. Ad Alberga, nello stesso anno di fondazione, aveva acquistato una vecchia villa sul mare con 15 posti letto dove mandava persone ammalate o deboli e anche figli di lavoratori particolarmente bisognosi di un clima più favorevole. Nel 1970 è stata fatta una convenzione con il Comune e la villa, che aveva anche un frutteto, è stata data al Comune in cambio della possibilità di costruire sul terreno del frutteto e così abbiamo costruito un albergo di tre piani con 42 camere. Inizialmente lo gestivamo direttamente, con nostri dipendenti, ma questo ci creava parecchi problemi, così dal ‘94 la gestione è nelle mani delle Acli di Cinisello e noi ricaviamo l'affitto. 

La Fiat al suo ingresso in Alfa ha cercato di cancellare la società di mutuo soccorso. A nostro sostegno è intervenuto anche il ministro degli interni Cossiga, perché le società di mutuo soccorso dipendevano dal suo ministero e noi oggi manteniamo i diritti acquisiti grazie a quell'intervento e a un incontro che si è svolto allora a Roma. Questo accordo varrà fino a quando esisterà almeno ancora un dipendente Fiat ex Alfa Romeo. 

I soci sono di due tipi: i pochi lavoratori rimasti ancora in forza, seppure in cassa integrazione, e gli ex dipendenti. Questi oggi sono circa sei, settemila, gli altri si sono persi. Attivi sono circa 3.500. Quando non ci saranno più dipendenti dello stabilimento di Arese pensiamo di mantenere viva l'esperienza modificando lo statuto e trovando una sede diversa, ma fino a quando potremo resteremo ad Arese. 

La sede della Fondazione 25 aprile è ancora nei locali dell'azienda, al 1º piano del Centro Tecnico. La presidente è una dipendente Fiat, che paga anche un’impiegata oltre a telefono, Internet e tutte le spese vive. 

Sono andato in pensione nel 2003, ma ho lasciato la fabbrica nel luglio 2002 con la mobilità. Ero ancora occupato come fresatore nel Reparto sperimentale, sempre sulla Huron.