Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del
libro “Dall'oratorio alla fabbrica. Il sindacato bianco nella Stalingrado d’Italia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007
Sono nato a Gandosso, in provincia di Bergamo, il
29.3.1929. Ho frequentato la quarta elementare, la quinta l’ho completata dopo
il 1948 e con le 150 ore ho preso la
licenza media a Sesto San Giovanni.
Ho iniziato a lavorare
come dipendente stagionale a 18 anni, nel 1947, in una fornace in provincia di
Milano, a Solaro. Prima avevo lavorato in campagna, in estate, facendo mestieri
vari. Sono stato in fornace tre stagioni, spostandomi in altre zone, fino a quando,
prima del servizio militare, sono stato assunto alla Snam, a fare scavi per le
tubature del metano. Siamo partiti da Cremona e siamo arrivati a Vicenza. Dopo
il servizio di leva ho lavorato alla Snam ancora per un anno, quindi sono
tornato in fornace fino a quando, nel 1955, sono entrato in Falck, in
acciaieria. I primi nove mesi ero dipendente di una cooperativa, poi mi hanno
assunto. Ero addetto alle siviere. Ho fatto quel lavoro per 13 anni, su tre
turni, fino al 1968. Come conseguenza dell’impegno sindacale, sono passato al
turno giornaliero e sono stato distaccato nel consiglio di fabbrica per 12
anni. Sono rimasto in Falck fino a fine
1979. Nel 1980 sono uscito come sindacalista a tempo pieno occupandomi dei
salariati agricoli.
Ho iniziato a impegnarmi nel sindacato nel 1947, nella
Cgil unitaria. E’ stato mentre lavoravo nelle fornaci. Ogni tanto arrivava un
operatore sindacale e parlavamo dei nostri problemi. Così abbiamo scoperto che
non ci erano state pagate delle festività e lui ha scritto all'azienda per
chiederne il pagamento. Ricevuta la lettera, è venuto in fornace il
proprietario chiedendo cosa ci fosse che non andava. I lavoratori avevano paura
del padrone e sono spariti tutti, così mi sono ritrovato da solo. Parlando tra
di noi, sembrava lo volessero uccidere, ma di fronte a lui avevano perso ogni
coraggio. Io ho parlato con il titolare, mi ha fatto andare in ufficio e
abbiamo risolto il problema. Così sono diventato il loro delegato. Ogni tanto,
la domenica, partecipavo alle riunioni sindacali alla sede di Porta
Vittoria.
Passando alla Snam non ho più rinnovato la tessera,
anche perché si cambiava sempre posto di lavoro, da una provincia all'altra.
Quando ho ripreso a lavorare in fornace mi sono iscritto
alla Cgil nel momento in cui, a fine stagione, abbiamo fatto una vertenza.
Esisteva già la Cisl, ma non da noi e piuttosto che essere senza tessera del
sindacato ho preso quella della Cgil. Anche in quell'occasione mi sono trovato
ad essere il punto di riferimento. Io dicevo la mia e gli altri mi lasciavano
andare avanti. All'apertura della vertenza eravamo in 26, il giorno dopo siamo
rimasti in quattro, ma abbiamo vinto. Quella è stata la prima volta che sono
andato in Assolombarda, ma in quell'occasione il proprietario della fornace aveva
segnalato il mio nome come agitatore sindacale. L’anno successivo, avevo
trovato un posto di lavoro a Bovisio, ma quasi subito in fornace è arrivato un
impiegato e mi ha detto che non potevo restarci perché non ero gradito e ho
dovuto andarmene.
Anche in Falck conoscevano il mio nome come attivista
sindacale, ma il capo del personale sapeva che ero segretario della Dc del mio
paese e venivo da una famiglia cattolica. Li probabilmente mi hanno tenuto per
quello.
Appena entrato ho cercato il rappresentante della Cisl
per iscrivermi e da allora ho cominciato a pagare i bollini mensili per la
tessera.
Ogni anno si tenevano le elezioni della commissione
interna e in vista delle votazioni si facevano delle riunioni. Io avevo una
posizione critica e sostenevo che si dovesse lottare per ridurre l’orario di
lavoro e non lavorare la domenica per ottenere degli aumenti. Il lunedì ci
riunivamo con il segretario della Fim di Milano, Pietro Seveso, e io
intervenivo e portavo avanti le mie richieste, così mi hanno proposto di
entrare in commissione interna. Mi hanno messo in lista e nel 1959 sono stato
eletto.
Un giorno, come Fim del mio reparto, abbiamo dichiarato
lo sciopero per chiedere che non si lavorasse la domenica, perché sostenevamo
che si potessero tenere i forni accesi senza fare produzione. Ne avevo parlato
con l’operatore della Cisl di Sesto, avevamo preparato un volantino e l’avevamo
distribuito nei giorni precedenti. A quei tempi quando la Cgil dichiarava gli
scioperi faceva i picchetti per non fare entrare i lavoratori. Così il sabato
venni chiamato dal direttore del reparto che mi chiese se l’indomani avremmo
organizzato i picchetti e io risposi che sarei andato a messa. “Io lotto anche
perché la domenica voglio andare a messa”. Non è entrato nessuno, è stato uno
sciopero generalizzato cui hanno partecipato tutti.
Visto il successo, siamo stati chiamati in direzione,
abbiamo iniziato a trattare e abbiamo ottenuto dodici domeniche di riposo oltre
a un corrispettivo per il lavoro festivo. L’anno successivo, al rinnovo della
commissione, ho preso più voti di tutti.
Ho avuto parecchie discussioni con i capi e la direzione
e una volta mi hanno anche minacciato di licenziamento, ma tutto si è risolto
per il meglio e da allora ho sempre avuto un rapporto corretto con la direzione
della Falck. Quando andavo in ufficio a porre dei problemi venivo ascoltato.
Io mi sono sentito un protagonista alla Falck. Per ogni
problema venivano da me, anche se non erano questioni del mio reparto.
Partecipavo a tutte le trattative, anche in Assolombarda. Sapevo come
negoziare. In una trattativa per l’acciaieria ho chiesto che fossero presenti
anche gli operai. Sono venuti in duecento e il confronto si è svolta davanti a
loro. A mezzogiorno abbiamo fatto l’accordo.
La Falck è stata un’azienda magari inflessibile, ma
sempre corretta. Lo dicevano anche quelli della Cgil. Se si faceva un accordo,
veniva rispettato. Un comportamento mantenuto a lungo: fino a quando noi siamo
stati corretti l’azienda ha fatto altrettanto. Poi, nel ’69, sono subentrati
comportamenti diversi da parte nostra. Si firmavano accordi e il giorno dopo si
buttavano all'aria. Allora anche l’azienda è cambiata.
Da commissario sono stato eletto delegato. Ero un
carnitiano e tutto ciò che andava nell'interesse dei lavoratori lo condividevo.
L’unità la sentivo. L’idea era che mettendosi insieme avremmo ottenuto di più.
La mia scelta è sempre stata una: non andrò mai dalla parte dei padroni.
Abbiamo fatto scioperi molto duri, tra fine anni ’60 e
inizio ’70, fermandoci un giorno si e l’altro no. La busta paga era leggera, ma
sopportavamo perché ci credevamo, anche se qualche volta i padri di famiglia,
come ero anch'io, non riuscivano a portare a casa i soldi per mantenere la
famiglia. L’unità sull'aspetto rivendicativo funzionava. Da questo punto di
vista non c’è mai stato problema, era quando subentrava la politica che
sorgevano i problemi.
C’è stato un periodo in cui si facevano gli scioperi
articolati, l’azienda decise di pagare solo le ore di lavoro che facevamo effettivamente,
così abbiamo preso il 20 per cento della paga. C’era gente che non ce la faceva
più ad andare avanti in quel modo e anch'io ero in quelle condizioni. A un
certo punto ho chiamato il segretario della Fim, che mi disse che erano tre
mesi che cercava di aprire una trattativa con la Falck, ma la direzione non
rispondeva. Gli ho proposto di dare a me il compito di contattare l’azienda e
lui mi autorizzò a fare quel che ritenevo meglio. Ho telefonato a un dirigente
per verificare la possibilità di un incontro, questi ne ha parlato con il
direttore generale della Fack e poco dopo, erano le sei di sera, mi hanno
chiamato dal reparto. Al direttore ho detto: “La sua situazione è diversa dalla
nostra, di persone che hanno famiglia. Noi siamo preoccupati perché non
sappiamo come andare avanti, lei invece sta godendo della nostra situazione e
non ci permette nemmeno di avere un incontro”. “Lo chieda ai suoi sindacalisti
il perché”, rispose. E io, di rimando: “Lo chiederò anche a loro, ma prima lo
chiedo a lei”. Il giorno dopo ci siamo trovati in un bar a Milano, in piazza
Castello. Ho preso un cappuccino. “Cosa mi da, per avere l’incontro?”. “Niente
le do, solo una cosa le devo dire. Se partirà la trattativa, l’incontro andrà
avanti fino a quando non avremo trovato un’intesa, perché io prenderò le chiavi
e chiuderò tutti dentro la sala delle riunioni”. La trattativa è partita il
giorno dopo, è durata 36 ore continuative, ma abbiamo fatto l’accordo. Nessuno
ha mai saputo del nostro appuntamento.
Durante il periodo delle lotte degli anni ’70, quando si
faceva sciopero d’inverno, si accendevano i fuochi davanti ai cancelli, si
bruciavano i copertoni dei camion che facevano un gran fumo. L’ufficio del
direttore dello stabilimento era proprio li sopra e qualcuno ha lanciato dei
sassi rompendo il vetro della finestra e le stanze si sono riempite di fumo. In
seguito a questo fatto ci hanno comunicato che avrebbero denunciato alla
Procura di Monza tutti i delegati presenti. Prima ci hanno convocato in
direzione e ci hanno mostrato la lettera che stavano per spedire al magistrato.
Qualcuno ha iniziato a dire che i delegati non c’entravano niente con il lancio
delle pietre. E’ stato un momento di grande tensione, poi finalmente siamo
riusciti a tranquillizzare gli animi. A quel punto, rivolto al direttore, ho
detto: “Mi dia quella lettera”. “E cosa ne fa?”, chiese. “La straccio”. Altre
persone della direzione si sono scatenate contro di me: “Ma cosa pretende? Chi
crede di essere?”. Il direttore, però, mi ha dato la lettera e io l’ho
stracciata. L’avevo detto ai miei compagni che avrei fatto quel gesto, ma ho
anche detto che noi avremmo dovuto cambiare comportamento.
Dopo due mesi, ero in mensa in acciaieria, è venuto da
me il direttore e mi ha detto: “La devo ringraziare”. C’era una gran confusione
in quel periodo e poteva capitare di tutto. Fortunatamente le cose si sono
risolte nel migliore dei modi e non si sono più verificati episodi di
vandalismo.
Per me è stato facile fare il sindacalista alla Falck.
Perché la Fiom era più propensa a fare quello che diceva il Partito comunista.
Quando facevamo delle proposte per raggiungere delle intese loro non erano mai
d’accordo. Noi firmavamo gli accordi, loro li firmavano dopo un anno, però li
firmavano. In questo modo noi abbiamo conquistato più consenso.
Quando sono entrato in Falck si diceva che ci fosse un
certo connubio tra Cisl e azienda, che l’azienda parteggiasse per i
sindacalisti della Cisl e le intese sindacali venissero decise tra l’azienda e
la Fim, ma io ho dato un taglio a questa impostazione, perché il sindacato è il
sindacato e i padroni sono i padroni. Quando nelle prime trattativa mi sono
accorto che qualche dirigente dell’azienda tentava in qualche modo di mostrarsi
vicino alla Cisl, sono intervenuto dicendo che avremmo messo uno sbarramento
tra le parti, che non dovevano confondersi. Noi facciamo il nostro mestiere e voi fate il vostro.
In Falck pian piano abbiamo raggiunto lo stesso numero
di iscritti della Fiom e se non ci fosse stato il tesseramento unitario della
Flm probabilmente li avremmo superati. Quando sono entrato in fabbrica la Fiom
aveva forse più dell’80% degli iscritti, nel ‘65, ‘66 siamo riusciti ad avere
lo stesso numero di tesserati e gli stessi voti. Noi ci siamo spesi fino in
fondo, non mi sono mai arreso e non mi sono mai preoccupato perché di fronte a
me c’erano persone più preparate che potevano accusarmi di non capire niente.
Io mi sono sempre sentito un protagonista.
A quei tempi sembrava che fosse solo la sinistra a difendere i lavoratori
e io dicevo, perché noi non possiamo fare come loro e meglio di loro? Me lo
sono chiesto già quando avevo 18, 19 anni, e mi sono sempre impegnato per
questo.
Il rapporto tra Fim e Fiom è sempre stato teso. La
calunnia della Cgil era tremenda, addirittura dicevano delle cose che non avevo
fatto o si attribuivano dei meriti per cose che facevo io. Io gli dicevo: “Se
voi riuscite a mettere in croce un cislino, vi danno una medaglia. Se noi
raccontiamo bugie dobbiamo andare a confessarci”. Nel mio reparto, però, i
rapporti tra Fim e Fiom erano corretti. Sulle questioni generali, invece, il
confronto era aspro. Fuori dalla fabbrica, quando ci si trovava a discutere, le
discussioni erano sempre tese, ognuno sosteneva le sue posizioni, ma non ci
sono mai stati scontri fisici.
Intorno al 1962, ‘63, c’era una trattativa a livello di
gruppo e in quell'occasione la Fiom che trattava era favorevole alla firma
dell’accordo, ma la Cgil non voleva, così alla fine abbiamo firmato solo noi. A
quel punto la Fiom ha dichiarato uno sciopero
in acciaieria contro l’intesa che noi avevamo sostenuto. E’ stata
brutta. Quando entravo in fabbrica mi minacciavano pesantemente: “Ti bruciamo,
ti buttiamo nel forno”. Ho avuto anche un esaurimento per quella vicenda. Un
giorno, dopo avere fermato il reparto, numerosi iscritti alla Fiom ci hanno
circondato minacciosamente. Eravamo io e un impiegato iscritto alla Cisl. C’era
un operaio della Fiom, membro della commissione interna, che inveiva contro di
noi e poco distante le guardie dell’azienda che temevano potesse succedere
qualcosa di grave. Ci ha salvati il capo del reparto dove lavorava il
commissario, che è intervenuto con decisione a bloccarlo. Lo ha preso per lo
stomaco e gli ha detto che era un delinquente per quello che stava facendo
contro di noi. Quella volta abbiamo davvero rischiato. Io ho resisto alle
pressioni e minacce che sono andate avanti per parecchio tempo, ma dopo alcuni
giorni sono crollato e mi hanno portato all'ospedale. Questo è stato l’unico
episodio violento. Io, però, non ho mai mollato.
Non avevo paura, perché in cuor mio pensavo che non
avrebbero mai attuato le minacce verbali nei miei confronti. Un lavoratore,
padre di 4 figli, non lo avrebbero mai buttato nel forno. Per questo a volte li
sfidavo. Una volta, durante un comizio fuori dallo stabilimento, è nata una
discussione con un operaio Fiom, attivista di Lotta continua, per le canzoni
che si facevano suonare prima dell’inizio. Io ho detto che dovevano mettere
l’inno dei lavoratori e loro hanno fatto suonare “Bandiera rossa”. Allora ho
tolto il disco dal giradischi e l’ho buttato via. Sul momento non è successo
nulla, ma al rientro in reparto sono stato avvicinato da uno che mi ha
minacciato: “Ma cosa credi di fare? Io ti distruggo”. Io l’ho contrastato con durezza,
dicendo che non avevo paura di lui, e la vicenda è finita così.
Nel periodo delle Brigate rosse non ho mai conosciuto
nessuno che ne facesse parte e non ho mai avuto sospetti. C’erano dei gruppi di
lavoratori che erano d’accordo con loro. In assemblea si scagliavano contro le
iniziative sindacali, non volevano che si facessero accordi con l’azienda,
parlavano di anticapitalismo, ma non hanno mai usato modi violenti.
In fabbrica le cellule del Pci non intervenivano sulle
questioni interne allo stabilimento. Anche perché avevano dei commissari che
erano capaci di fare i sindacalisti. C’erano molti che erano consiglieri
comunali e uno è stato anche candidato al Parlamento.
Sul finire degli anni ‘60 c’erano più contrasti
all'interno della Fiom che tra noi e loro. Qualcuno nella Fiom voleva assumere
posizioni diverse ma il partito non lo ha mai concesso.
Problemi ne ho avuti anche in casa Cisl e nel mio
ambiente cattolico. Mentre ero vice sindaco al mio paese e delegato, ci fu chi
in Cisl mi diceva che per l’incompatibilità avrei dovuto dimettermi da una
parte o dall'altra. Allora ho telefonato a Carniti per spiegargli che facevo il
vice sindaco perché avevano bisogno di me e che siccome a Sesto c’erano già
molti attivisti della Cisl, avrei lasciato il sindacato per impegnarmi al mio
paese. Lui mi ha detto di non preoccuparmi e di continuare così. Il mio partito
non guardava di buon grado i sindacalisti, li rispettava, ma il clima non era
particolarmente favorevole. Sono stato anche messo un po’ da parte nella Dc, ma
non mi è mai piaciuto confondere il mio impegno sindacale con la politica.
Non ho avuto rapporti con il mondo cattolico sestese. A
Sesto, prevosto era mons. Tarcisio Ferraroni. Non ho mai incontrato nessun
sacerdote in tanti anni, anche se la mia è sempre stata una famiglia di
credenti. Noi ci riunivamo al circolo San Clemente, anche gli amici con cui ci
si trovava erano credenti, ma le riunioni erano della Cisl. Agli incontri in
Via Fiorani, presso la sede della Cisl, partecipavano lavoratori di altre
fabbriche: Lorenzo Cantù, Paolino Riva. Erano persone con una grande fede, si
vedeva, ma non ci siamo mai confrontati su questo, anche se parlavamo di tante
questioni, non solo di sindacato.