venerdì 27 marzo 2020

EMILIO ZENI - Cisl - Varese, Lombardia

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Autonomia e contratti. Storie di sindacalisti della Cisl in Lombardia”, a cura di Guido Baglioni e Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma, 2006

Il nonno era nato in provincia di Varese, il papà in America, la mamma era di origine veneta. I miei genitori si sono conosciuti e sposati in Brasile, a più di quarant'anni. Io sono nato nello Stato di San Paolo, il 10.3.1923. Ho un fratello più giovane di un paio d’anni. Di mio padre avevo soggezione e gli davo del lei, della mamma no. In Brasile avevamo una piccola azienda alimentare che produceva pasta che poi ha lasciato. In America Latina ho vissuto alcuni anni, poi il papà ha portato la famiglia in Italia e mi ha messo in collegio, perché parlavo solo portoghese e avevo bisogno di entrare nella nuova realtà. Ho iniziato a studiare, ho frequentato il ginnasio e il liceo scientifico, però non ho potuto dare gli esami perché nel frattempo è scoppiata la guerra e sono stato chiamato per il servizio di leva.

Papà era molto religioso, andava in chiesa tutte le mattine, mamma invece non molto, anzi non frequentava quasi mai. La mia comunque è stata una formazione cristiana. Ho fatto il chierichetto. Frequentavo l’oratorio, ero un aspirante nell'Azione cattolica, ho recitato, fatto l’animatore e giocavo anche a pallone. Quello era il mio ambiente.
Per il servizio militare mi hanno mandato a Cuneo, nell'artiglieria alpina. Ho fatto la scuola di roccia ma, data la mia preparazione culturale, mi hanno affidato il goniometro, che portavo come dotazione e che serviva per la misurazione degli angoli di tiro e a stabilire la gittata dei pezzi. In quegli anni c’era la guerra, ma io l’ho vissuta da lontano e non ho mai partecipato ai combattimenti. Quando è caduto il fascismo, nel luglio del ’43, il mio reggimento è stato spostato in Alto Adige, dove sono rimasto fino all'8 settembre, quando mi hanno fatto prigioniero e trasportato in un lager tedesco.
Ho passato quattro giorni chiuso in un carro bestiame, senza mangiare e senza bere, per il resto ci si arrangiava. Quando sono arrivato mi hanno rapato con un tosapecore, mi hanno targato con un triangolo rosso sui vestiti e assegnato un numero di matricola. In quel lager, vicino a Danzica, in Polonia, sono stato quasi due anni, poi mi hanno trasferito in altri campi intorno a Berlino e, dopo un paio di mesi, mi hanno mandato in un’azienda a lavorare. Era una fabbrica che montava aerei leggeri. Dovevo fare un lavoro di assemblaggio. Fino a quando, con l’avanzata degli americani da una parte e dei russi dall’altra, siamo stati bombardati. Allora ci hanno spostati, facendoci camminare per sei notti di fila. Durante l’ultima marcia di trasferimento, siamo riusciti a scappare in un piccolo gruppo. Avevamo visto che nella colonna che ci precedeva, man mano che qualcuno rallentava il passo veniva ammazzato sul bordo della strada. Ho tentato e sono riuscito. Ho vissuto come sbandato per circa un  mese nella terra di nessuno, tra i tedeschi e i russi, e di volta in volta incontravo gli uni o gli altri con grandi spaventi. Poi, finalmente, sono stato liberato dai russi e sono stato con loro per sei mesi. Nel frattempo mi sono ammalato di tifo addominale e mi sono fatto quaranta giorni di febbre, senza alcuna cura perché i russi non avevano medicine. C’era un ufficiale medico che parlava bene il francese, sono diventato un po’ il suo aiutante e mi portava in giro con lui a visitare quelli più disgraziati di me.
Sono rientrato a casa nel mese di ottobre del ’45. Posso dirmi fortunato ad essere tornato, anche se camminavo con un bastone perché non riuscivo a stare in piedi.

L’arrivo al sindacato
Appena possibile mi sono occupato dei reduci, diventando anche il presidente dell’associazione che li riuniva. Allora c’era una legge che obbligava le aziende a dare un lavoro a chi tornava dalla guerra o dai campi di concentramento. Non ero in grado di riprendere la scuola, perché ero conciatissimo. Quando qualcuno parlava con me, mi rintronava la testa, almeno tre o quattro ore al giorno dovevo bendarmela perché mi scoppiava.
Sistemati tutti gli altri reduci, mi sono sistemato anch'io. Sono entrato in una fabbrica metalmeccanica, la ditta Reina di Ierago, in provincia di Varese, dove sono stato assunto come impiegato e sono stato immediatamente eletto membro di commissione interna. Era un’azienda dove esisteva il Comitato di gestione, per cui partecipavo ad alcune significative scelte aziendali. Mi ricordo, ad esempio, che sono stato coinvolto nella decisione di acquistare un tornio verticale, che allora era un fatto particolarmente importante per il nostro stabilimento. Seguivo anche la mensa. Il sindacato allora era rappresentato dalla Cgil unitaria e io, dopo qualche tempo, sono entrato nell'esecutivo della Fiom di Varese e della Camera del lavoro di Gallarate come rappresentante della corrente cristiana. Ho partecipato al congresso nazionale della Cgil del 1947, che si è svolto a Firenze. In quell'occasione ho conosciuto i leader della corrente sindacale cristiana: Giulio Pastore, Luigi Morelli, Roberto Cuzzaniti, Bruno Storti, Giovanni Gronchi. Ho stretto un legame con Carlo Donat-Cattin, che nella Libera Cgil avrebbe assunto una posizione contro Pastore. Il suo gruppo propendeva per la costruzione di un sindacato cristiano secondo quanto sosteneva Giuseppe Rapelli. Io ero un po’ rapelliano e sono sempre stato vicino a Donat-Cattin.
In quel periodo un padre gesuita dell'Aloisianum di Gallarate, padre Galbiati, di cui sono diventato un po’ un beniamino, mi ha fatto entrare nel suo giro, che raccoglieva reduci e partigiani, e che costituivano l’“avanguardia cattolica”, un insieme di organizzazioni segrete che si erano costituite in quegli anni nel mondo cattolico per contrastare l’avanzata dei comunisti. Avevo legami con i Clerici di Milano e il marchese Cornaggia. Padre Galbiati era un prete che aveva vissuto alcuni anni nella chiesa del silenzio in Russia e io assorbivo le sue idee.
Nel 1948, dopo l’attentato a Togliatti, ho lasciato la fabbrica. L’onorevole Morelli e Pierino Azimonti, che sarà il primo segretario generale della Cisl di Varese, mi hanno proposto di passare al sindacato e ho accettato. Mi sono licenziato e sono andato a lavorare alla Libera Cgil. Sono entrato come segretario responsabile dell’Unione di Gallarate. Era una zona con una sua autonomia, avevamo i nostri bilanci, ci lavoravamo in tre con un impiegato. Inizialmente mi sono occupato della gestione delle vertenze. L’avvio non fu facile. A quel tempo ero giovane e il sindacato assorbiva ogni mia energia: lo stipendio c'era e non c'era. Si doveva lottare per ottenere ciò che ci occorreva per la nostra attività. Ricordo i sacrifici per trovare una sede al nuovo sindacato, le visite a tutti gli associati per riscuotere il contributo mensile. E poi gli scontri fuori dalle fabbriche, con la Cgil che non sopportava la nostra indipendenza ideologica. Sono rimasto lì fino a quando sono diventato segretario generale aggiunto dell’Unione sindacale Cisl di Varese. Nel frattempo ero stato eletto anche segretario provinciale dei metalmeccanici, che era la categoria più rappresentativa subito dopo i tessili.
A Varese, negli anni cinquanta, la questione più importante di cui mi sono occupato è stata la difesa dell’occupazione e dei posti di lavoro. C’erano numerose industrie che hanno dovuto modificare la loro produzione da bellica a civile, per cui ci sono stati parecchi licenziamenti. Basti pensare che alla Siai-Marchetti, che produceva aeroplani, alla fine della guerra c’erano 14mila dipendenti e in quegli anni sono stati ridotti a circa 1500.
Abbiamo promosso anche uno sciopero contro un accordo fatto dalla confederazione nazionale sulle gabbie salariali. Varese, infatti, che prima era assimilata a Milano, con la nuova intesa veniva declassata. E questo voleva dire salari più bassi. Come Cisl abbiamo protestato contro quella scelta. L’azione è stata promossa da noi, ma ci ha seguito anche la Cgil.
Nel 1962 sono diventato segretario generale della Cisl di Varese, anche se di fatto già guidavo l’Unione, e lo sono stato fino al 1974, quando sono passato a tempo pieno al regionale Cisl della Lombardia, dove sono rimasto per circa vent'anni.
Abbiamo vissuto profondi processi di trasformazione nell'elettromeccanica, nel cotoniero, con l’introduzione di nuovi materiali e tecniche di produzione. Per cui la nostra attività era in gran parte assorbita da quei problemi. Ci sono state diverse occupazioni di fabbriche ma, soprattutto, in quel periodo io ho cercato di assicurare una tutela individuale al lavoratore, oltre quella collettiva. Come Cisl ci siamo specializzati in quella direzione, a partire dall'ufficio vertenze.
Per questa nostra capacità e per l’attenzione ai problemi individuali, cosa che la Cgil faceva poco, eravamo apprezzati e alcune commissioni interne iniziarono a chiedere che andassi io a trattare in azienda e non i loro rappresentanti.
Sono diventato un esperto di tribunali, dove andavo in occasione dei fallimenti. Ero addirittura divenuto amico di alcuni giudici che incontravo frequentemente. In un caso, un magistrato, che doveva stabilire l’esatto compenso per il lavoro che la Bassani - una grossa azienda che produceva componenti elettrici - dava a domicilio e in carcere,  mi ha nominato suo esperto.
Non sono mai andato molto d’accordo con la Cgil, ero un anticomunista, anche perché nei sei mesi vissuti con i russi mi sono reso conto che cosa era quel regime. Inoltre, ho passato un periodo non certo felice e ho avuto dei momenti di difficoltà non indifferente nell'azione sindacale con i nostri amici della Cgil. Diversi dei nostri sono stati picchiati. Io stesso sono stato nascosto in una fabbrica, rinchiuso in uno sgabuzzino per diverse ore, per evitare di essere aggredito. Però ci sono stati anche momenti di solidarietà reciproca, come ad esempio in occasione delle occupazioni, quando più volte sono stato fermato insieme a dirigenti Cgil e portato in questura.
Ho sempre considerato le battaglie interne all'organizzazione come un fatto fisiologico, come il sale della vita in casa Cisl, parte di una normale dialettica. Non ho mai assunto posizioni di forte contrasto, pur parteggiando in modo chiaro con le posizioni che sentivo in maggiore sintonia con le mie idee. Nonostante fossi amico e sostenitore di Bruno Storti, non ho mancato di criticarlo quando lo ritenevo giusto.
Con Storti ero doppiamente amico. Era il vice di Morelli, che era segretario generale aggiunto della Cisl, e quando Morelli veniva a Varese lo accompagnava, così è nato un rapporto abbastanza stretto.
Non sempre, però, i contrasti si limitavano alla semplice dialettica politica. Nei primi anni settanta ho vissuto un periodo piuttosto turbolento. Alcuni nostri iscritti della Ignis e dell’Ospedale, che erano in Autonomia operaia, sono venuti a protestare davanti alla sede provinciale e hanno spaccato tutti i vetri.



La formazione
Ho partecipato a diversi corsi di formazione, alle settimane confederali. Ho preso parte ad un corso di alta dirigenza che si teneva al Centro studi che è durato circa quattro mesi, anche se non si rimaneva sempre a Firenze. Tra i miei docenti ricordo Giuseppe Glisenti, fondatore della Dc e a lungo direttore centrale dell’Iri, e Ettore Massacesi, che è stato tra l’altro presidente dell’Alfa Romeo. Mi applicavo con impegno, ma la mia formazione è avvenuta essenzialmente sul campo. Studiavo i contratti di lavoro e ho avuto la fortuna di avere con me persone preparate, anche due avvocati che provenivano dalle fila del sindacato fascista, che conoscevano molto bene la materia giuridica e legale. Io ho cercato, sia sulle questioni economiche, che su quelle legali e giuridiche dei rapporti di lavoro, di acquisire una buona competenza. Ho seguito tutte le categorie e conoscevo tutte le intese nazionali.
A mia volta ho fatto più volte il formatore nei corsi che organizzava la Cisl, in particolare, per quattro anni, sono stato impegnato al campeggio di Ortisei.
Avevo rapporti con alcuni sacerdoti del seminario di Venegono e andavo a tenere i corsi di formazione sulle questioni sindacali per i preti anche al seminario di Saronno.

L’unità sindacale
Ho creduto fermamente nell'unità sindacale: <<non alla metalmeccanica>>, dicevo allora. Perché secondo me avevano rinunciato ai nostri principi, ai nostri ideali, che per la mia visione fondamentalmente erano gli ideali cristiani.
Sono sempre stato un moderato, però ho vissuto con passione, pienamente e con convinzione il processo di unità, ritenendo che avremmo dovuto essere noi i portatori dei valori di democrazia e di autonomia all'interno della nuova organizzazione affinché diventassero patrimonio di tutti. Credevo di dover costruire un sindacato in cui la Cisl poteva essere protagonista, se non egemone. Quantomeno sul piano ideale, se non numerico. Ho sempre creduto che i nostri valori e le nostre scelte fossero più forti di quelle della Cgil e potessero divenire bene comune. Come peraltro si è verificato in molti casi, e quindi non avevo paura del confronto. A Varese ho celebrato il congresso di scioglimento della Cisl. Oltre a Varese, in Lombardia lo hanno fatto solo: Como, Bergamo e Lecco.

La scelta regionale
A metà degli anni cinquanta si è costituito un coordinamento regionale composto da tutti i segretari generali delle Unioni sindacali provinciali e il primo coordinatore è stato l’onorevole Ettore Calvi, leader di Milano. Quando Calvi ha abbandonato è stato sostituito da Paolo Sala, che era segretario generale di Como, e c’è stato uno scontro con Milano, perché Piervirgilio Ortolani, responsabile della maggiore struttura lombarda, riteneva che toccasse a lui quel ruolo. Io mi sono schierato con Sala. Ho sempre visto positivamente il processo di costruzione e rafforzamento della struttura regionale e mi sono impegnato in questo, mentre Milano viveva quel processo come fosse la creazione di una sovrastruttura. In effetti, attraverso il rafforzamento del regionale si toglieva potere proprio alla Cisl di Milano.
Sono entrato subito nel coordinamento e sono rimasto poi nel regionale come segretario fino a quando ho lasciato l’impegno attivo. A metà degli anni ’60 è stata costituita una prima segreteria a tre di cui ho fatto parte insieme a Sala e Mirko Rizzini di Cremona, rimanendo però a Varese.
Con Sala e Rizzini, mentre eravamo coordinatori regionali, nell'agosto del 1961 siamo andati in Germania nei giorni in cui hanno cominciato a costruire il muro di Berlino. In quel frangente ci siamo trovati al di là e siamo rimasti bloccati a Est per sei giorni, perché avevano tolto il passaggio di collegamento tra Berlino Est e Berlino Ovest. Siamo andati in macchina perché volevamo renderci conto di persona, volevamo capire che cosa stava accadendo. Noi tre, nell'ambito regionale, avevamo formato un gruppo e in fondo Milano non gradiva molto, anche perché, data la sua importanza, pretendeva di averne il controllo, mentre io sostenevo che dovesse essere una componente come un’altra.
Il coordinamento era un’occasione per scambiarsi quattro idee, per avere il conforto delle proprie convinzioni. Si finiva sempre a mangiare insieme. Nelle riunioni discutevamo di temi generali, ci si confrontava. A volte invitavamo Bruno Storti o Vito Scalia o altri dirigenti nazionali. Una delle questioni che ci visto discutere molto è stata quella della “verticalizzazione” promossa da Luigi Macario, quando era segretario confederale, prima di passare alla Fim. Io ero nettamente contrario, perché a Varese il cuore dell’iniziativa sindacale era la Cisl e non le categorie. In quel periodo ero anche nell’esecutivo nazionale della Fim e cercavo di condizionare le scelte che si andavano facendo. Allora sentivo la necessità di dare una maggiore rappresentatività alle strutture territoriali, che erano fortemente condizionate dal peso crescente delle categorie. Io sostenevo la tesi che i lavoratori dovessero iscriversi alla Cisl e non alle categorie, così come si usa in Cgil, e molti dei dirigenti di territorio la pensavano come me.
Noi potevamo contrastare la Cgil perché eravamo un tutt’uno, con una amministrazione centralizzata che consentiva di fare cose che altrimenti sarebbe stato impossibile realizzare. In una situazione di pluralismo sindacale pensavo che il cuore dell’organizzazione dovesse restare la Cisl, mentre le categorie dovevano essere espressione della normale dialettica interna.

La nascita della Regione
A torto o a ragione consideravo la Regione come espressione di autonomia e libertà, e come prodotto della nostre battaglie sulle riforme, per l’autonomia e il decentramento. Vivevo con passione il problema della programmazione nella realtà locale, pensavo che le Province fossero destinate ad esaurirsi. Tutt’al più si doveva parlare di comprensori, non come espressione di natura politica ma come compagine organizzativa territoriale per gestire la politica dei trasporti, della casa e altri servizi. Scelte che non si sono realizzate, ma io la pensavo così. Anche per questo abbiamo pensato alla costruzione dei comprensori sindacali. Ancora una volta siamo partiti noi della Cisl e solo dopo è arrivata la Cgil.
Mi sono impegnato molto nel processo di costituzione della Regione e, prima ancora, del Crpe, il Comitato regionale per la programmazione economica. Ho fatto parte della commissione sanità, dando un forte contributo alla costruzione del piano sanitario e alle nuove norme legislative, grazie alla collaborazione degli uomini che avevo intorno a me e che lavoravano come esperti per la Cisl. Partecipavo ai lavori delle commissioni ristrette, eravamo quattro o cinque persone in tutto. I nostri pareri erano parecchio considerati e io mi sentivo di contare. Molti assessori non si muovevano se non c’era il nostro assenso, perché in fondo noi legittimavano anche loro.
I politici con cui ho avuto rapporto più stretti sono stati Vittorio Rivolta, per la sanità, ancora prima ancora che nascesse la Regione, più tardi Filippo Hazon, che si occupava di formazione, e il presidente Cesare Golfari, che per me è stato il migliore di tutti.
I collaboratori con cui ho lavorato più strettamente sono stati Emanuele Ranci Ortigosa, per la sanità, Cristina Treu, per la casa, Massimo Almagioni, Antonio Brenna, Valerio Onida. Erano collaboratori di un certo rilievo e per questo eravamo apprezzati. Io prendevo ciò che ritenevo giusto delle loro proposte e lo portavo al confronto in Regione.
Ho fatto parte anche della commissione formazione, dove più volte mi sono scontrato con Hazon. Io sostenevo la necessità di una formazione continua che purtroppo non è mai stata realizzata.

L’Unione sindacale regionale
Inizialmente facevo tre giorni a Varese e tre a Milano. A pieno tempo al regionale ho iniziato solo dopo il congresso del 1973, il primo dell’Unione sindacale regionale Cisl della Lombardia. La segreteria era composta da alcuni che rimanevano ancora segretari di Unione: Melino Pillitteri, Paolo Nardini e Mario Colombo, mentre io e Sala siamo passati a pieno tempo lasciando gli incarichi provinciali. Siamo andati avanti per un po’ di anni in questo modo. La sede regionale era a Milano, inizialmente in via San Gregorio, poi ci siamo trasferiti in via Torino, con un’operazione che ho seguito io mentre ero nel consiglio di amministrazione dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Grazie a quell'incarico, infatti, ho saputo che l’Inail aveva dei locali liberi che ci andavano bene.
Al regionale mi sono occupato soprattutto di sanità. Per un certo periodo ho seguito anche la formazione, che poi è passata a Pillitteri, e i problemi della casa.
Nel rapporto con la Regione abbiamo avuto la fortuna di avere molti dei dirigenti della nuova struttura iscritti alla Cisl. Provenivano da enti differenti ed erano stati aggregati nella istituzione lombarda. Spesso, quando c’erano dei problemi, ci riunivamo con loro e ci mettevamo d’accordo prima che venissero portati in giunta e ne discutessero gli assessori.
Sono stato anche presidente dell'Inas Lombardia e ho avuto incarichi negli organismi nazionali del patronato della Cisl.
In rappresentanza della Cisl sono stato membro del consiglio di amministrazione della Camera di commercio di Varese e partecipato anche alle attività di Unioncamere Lombardia.
Ho lasciato gli incarichi politici nel 1983 per passare ad occuparmi dell’amministrazione della Cisl lombarda. Negli ultimi anni seguivo già un po’ meno l’attività perché stavo tre giorni a Roma nel consiglio d’amministrazione dell'Inail e tre giorni a Milano. Ho fatto l’amministratore della Cisl regionale fino al 1998, quando Savino Pezzotta, che era il segretario generale, mi ha chiesto di andare a seguire le vicende amministrative ed economiche del comprensorio di Busto Arsizio e, siccome abito da quelle parti, ho accettato. Per un po’ ha mantenuto i due impegni, poi ho lasciato definitivamente il regionale. Oggi sono ancora il responsabile della società della Cisl nata dalla fusione dei comprensori di Magenta e Ticino-Olona.
Sono certamente la persona che ha avuto la carriera sindacale più lunga nell'ambito della struttura regionale.

La passione per i rapporti internazionali
Mi sono sempre occupato di rapporti internazionali. Subito dopo la guerra, con una borsa di studio dell'Unesco di tre mesi, ho girato tutta l’Europa. Eravamo un gruppo di dieci o dodici giovani, quasi tutti romani, io ero l’unico lombardo. Abbiamo incontrato i sindacati dei diversi Paesi, visitato fabbriche e istituzioni L’iniziativa era partita dall'Università di Roma, io ero amico di qualcuno che ora nemmeno ricordo e sono entrato in quel giro. Conoscevo un po’ di francese, qualche parole di tedesco, oltre al portoghese e forse anche questo ha giocato a mio favore. Ho sempre avuto una certa passione per questi scambi e più tardi li ho promossi anch'io in Cisl.
L’impegno diretto sui temi internazionali è iniziato quando in provincia di Varese è stata creata l'Euratom, l’iniziativa per l’energia atomica della Comunità europea con sede a Ispra. In quell'occasione ho stabilito i primi contatti con Bruxelles. Inizialmente dentro Ispra il sindacato non c’era, ma io sono riuscito a costruite il nucleo della Cisl. C’era il comitato del personale, con lavoratori che provenivano da nazioni diverse. Sono nati così dei rapporti con i sindacati degli altri paesi, in particolare francesi e belgi.
A Varese ho anche sostenuto alcuni progetti di formazione per il settore tessile in Africa, realizzati insieme a mons. Sergio Pignedoli, della diocesi di Milano, di cui anche la mia città fa parte.
L’avvio della politica regionalistica, che prevedeva un’organizzazione non più statale ma regionale, ha portato alla creazione dei Consigli sindacati interregionali (Csi), di cui sono stato l’iniziatore e di cui sono diventato il responsabile. Ho costruito quello del Ticino e ho partecipato alla loro costituzione a livello nazionale. In un primo tempo in Europa eravamo solo in cinque o sei, e noi tra loro.
Personalmente, per conto della Cisl Lombardia, ho anche promosso le azioni sindacali per la costituzione di organismi regionali sovranazionali come l’Alpe Adria, l'Arge Alp, i Quattro Motori, poi gli altri ci hanno seguito. Nelle nostre riunioni ci misuravamo sul piano della conoscenza e dell’eventuale azione sindacale comune nella sfera internazionale.
Come responsabile dell’azione internazionale della Cisl ho avviato i primi contatti con Solidarnosc, quando il sindacato polacco ha iniziato la propria lotta contro il regime comunista.
Per tutte queste ragioni sono stato in molte città europee: a Bilbao, a Lione, a Bruxelles, in Svizzera, in Germania. Già quando ero segretario di Varese avevo organizzato degli scambi di giovani con il sindacato di Fulda, una città tedesca vicino a Francoforte, in collaborazione con Como. Una iniziativa iniziata da Sala, poi io li ho allargati al Linburgo, in Belgio. Abbiamo organizzato delegazioni piuttosto folte con pullman di giovani che andavano là per un po’ di giorni e loro venivano qui da noi. Questa iniziativa l’ho poi trasferita a livello regionale, avvalendomi anche della collaborazione della Regione. Ad esempio, ho fatto ospitare nei loro centri di formazione dei giovani che venivano da Monaco, da Lione e da altre città europee. Infine, queste attività sono proseguite a livello unitario. Abbiamo costituito un gruppetto di tre rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil e io ne sono sempre stato l’animatore.