Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Autonomia e contratti. Storie di sindacalisti della Cisl in Lombardia”, a cura di Guido Baglioni e Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma, 2006
Il nonno era
nato in provincia di Varese, il papà in America, la mamma era di origine
veneta. I miei genitori si sono conosciuti e sposati in Brasile, a più di
quarant'anni. Io sono nato nello Stato di San Paolo, il 10.3.1923. Ho un
fratello più giovane di un paio d’anni. Di mio padre avevo soggezione e gli
davo del lei, della mamma no. In Brasile avevamo una piccola azienda alimentare
che produceva pasta che poi ha lasciato. In America Latina ho vissuto alcuni
anni, poi il papà ha portato la famiglia in Italia e mi ha messo in collegio,
perché parlavo solo portoghese e avevo bisogno di entrare nella nuova realtà.
Ho iniziato a studiare, ho frequentato il ginnasio e il liceo scientifico, però
non ho potuto dare gli esami perché nel frattempo è scoppiata la guerra e sono
stato chiamato per il servizio di leva.
Papà era molto
religioso, andava in chiesa tutte le mattine, mamma invece non molto, anzi non
frequentava quasi mai. La mia comunque è stata una formazione cristiana. Ho
fatto il chierichetto. Frequentavo l’oratorio, ero un aspirante nell'Azione
cattolica, ho recitato, fatto l’animatore e giocavo anche a pallone. Quello era
il mio ambiente.
Per il servizio
militare mi hanno mandato a Cuneo, nell'artiglieria alpina. Ho fatto la scuola
di roccia ma, data la mia preparazione culturale, mi hanno affidato il
goniometro, che portavo come dotazione e che serviva per la misurazione degli
angoli di tiro e a stabilire la gittata dei pezzi. In quegli anni c’era la
guerra, ma io l’ho vissuta da lontano e non ho mai partecipato ai
combattimenti. Quando è caduto il fascismo, nel luglio del ’43, il mio
reggimento è stato spostato in Alto Adige, dove sono rimasto fino all'8
settembre, quando mi hanno fatto prigioniero e trasportato in un lager tedesco.
Ho passato
quattro giorni chiuso in un carro bestiame, senza mangiare e senza bere, per il
resto ci si arrangiava. Quando sono arrivato mi hanno rapato con un tosapecore,
mi hanno targato con un triangolo rosso sui vestiti e assegnato un numero di
matricola. In quel lager, vicino a Danzica, in Polonia, sono stato quasi due
anni, poi mi hanno trasferito in altri campi intorno a Berlino e, dopo un paio
di mesi, mi hanno mandato in un’azienda a lavorare. Era una fabbrica che
montava aerei leggeri. Dovevo fare un lavoro di assemblaggio. Fino a quando,
con l’avanzata degli americani da una parte e dei russi dall’altra, siamo stati
bombardati. Allora ci hanno spostati, facendoci camminare per sei notti di
fila. Durante l’ultima marcia di trasferimento, siamo riusciti a scappare in un
piccolo gruppo. Avevamo visto che nella colonna che ci precedeva, man mano che
qualcuno rallentava il passo veniva ammazzato sul bordo della strada. Ho
tentato e sono riuscito. Ho vissuto come sbandato per circa un mese nella terra di nessuno, tra i tedeschi e
i russi, e di volta in volta incontravo gli uni o gli altri con grandi
spaventi. Poi, finalmente, sono stato liberato dai russi e sono stato con loro
per sei mesi. Nel frattempo mi sono ammalato di tifo addominale e mi sono fatto
quaranta giorni di febbre, senza alcuna cura perché i russi non avevano
medicine. C’era un ufficiale medico che parlava bene il francese, sono
diventato un po’ il suo aiutante e mi portava in giro con lui a visitare quelli
più disgraziati di me.
Sono rientrato a
casa nel mese di ottobre del ’45. Posso dirmi fortunato ad essere tornato,
anche se camminavo con un bastone perché non riuscivo a stare in piedi.
L’arrivo al sindacato
Appena possibile mi sono occupato dei
reduci, diventando anche il presidente dell’associazione che li riuniva. Allora c’era una legge che obbligava le aziende a dare un
lavoro a chi tornava dalla guerra o dai campi di concentramento. Non ero in
grado di riprendere la scuola, perché ero conciatissimo. Quando qualcuno
parlava con me, mi rintronava la testa, almeno tre o quattro ore al giorno
dovevo bendarmela perché mi scoppiava.
Sistemati tutti
gli altri reduci, mi sono sistemato anch'io. Sono entrato in una fabbrica
metalmeccanica, la ditta Reina di Ierago, in provincia di Varese, dove sono
stato assunto come impiegato e sono stato immediatamente eletto membro di
commissione interna. Era un’azienda dove esisteva il Comitato di gestione, per
cui partecipavo ad alcune significative scelte aziendali. Mi ricordo, ad
esempio, che sono stato coinvolto nella decisione di acquistare un tornio
verticale, che allora era un fatto particolarmente importante per il nostro
stabilimento. Seguivo anche la mensa. Il sindacato allora era rappresentato
dalla Cgil unitaria e io, dopo qualche tempo, sono entrato nell'esecutivo della
Fiom di Varese e della Camera del lavoro di Gallarate come rappresentante della
corrente cristiana. Ho partecipato al congresso nazionale della Cgil del 1947,
che si è svolto a Firenze. In quell'occasione ho conosciuto i leader della
corrente sindacale cristiana: Giulio Pastore, Luigi Morelli, Roberto Cuzzaniti,
Bruno Storti, Giovanni Gronchi. Ho stretto un legame con Carlo Donat-Cattin,
che nella Libera Cgil avrebbe assunto una posizione contro Pastore. Il suo
gruppo propendeva per la costruzione di un sindacato cristiano secondo quanto
sosteneva Giuseppe Rapelli. Io ero un po’ rapelliano e sono sempre stato vicino
a Donat-Cattin.
In quel periodo
un padre gesuita dell'Aloisianum di Gallarate, padre Galbiati, di cui sono
diventato un po’ un beniamino, mi ha fatto entrare nel suo giro, che
raccoglieva reduci e partigiani, e che costituivano l’“avanguardia cattolica”,
un insieme di organizzazioni segrete che si erano costituite in quegli anni nel
mondo cattolico per contrastare l’avanzata dei comunisti. Avevo legami con i
Clerici di Milano e il marchese Cornaggia. Padre Galbiati era un prete che
aveva vissuto alcuni anni nella chiesa del silenzio in Russia e io assorbivo le
sue idee.
Nel 1948, dopo
l’attentato a Togliatti, ho lasciato la fabbrica. L’onorevole Morelli e Pierino
Azimonti, che sarà il primo segretario generale della Cisl di Varese, mi hanno
proposto di passare al sindacato e ho accettato. Mi sono licenziato e sono
andato a lavorare alla Libera Cgil. Sono entrato come segretario responsabile dell’Unione
di Gallarate. Era una zona con una sua autonomia, avevamo i nostri bilanci, ci
lavoravamo in tre con un impiegato. Inizialmente mi sono occupato della
gestione delle vertenze. L’avvio non fu facile. A quel tempo ero giovane e il
sindacato assorbiva ogni mia energia: lo stipendio c'era e non c'era. Si doveva
lottare per ottenere ciò che ci occorreva per la nostra attività. Ricordo i
sacrifici per trovare una sede al nuovo sindacato, le visite a tutti gli
associati per riscuotere il contributo mensile. E poi gli scontri fuori dalle
fabbriche, con la Cgil che non sopportava la nostra indipendenza ideologica.
Sono rimasto lì fino a quando sono diventato segretario generale aggiunto
dell’Unione sindacale Cisl di Varese. Nel frattempo ero stato eletto anche
segretario provinciale dei metalmeccanici, che era la categoria più
rappresentativa subito dopo i tessili.
A Varese, negli
anni cinquanta, la questione più importante di cui mi sono occupato è stata la
difesa dell’occupazione e dei posti di lavoro. C’erano numerose industrie che
hanno dovuto modificare la loro produzione da bellica a civile, per cui ci sono
stati parecchi licenziamenti. Basti pensare che alla Siai-Marchetti, che
produceva aeroplani, alla fine della guerra c’erano 14mila dipendenti e in quegli
anni sono stati ridotti a circa 1500.
Abbiamo promosso
anche uno sciopero contro un accordo fatto dalla confederazione nazionale sulle
gabbie salariali. Varese, infatti, che prima era assimilata a Milano, con la
nuova intesa veniva declassata. E questo voleva dire salari più bassi. Come
Cisl abbiamo protestato contro quella scelta. L’azione è stata promossa da noi,
ma ci ha seguito anche la Cgil.
Nel 1962 sono
diventato segretario generale della Cisl di Varese, anche se di fatto già
guidavo l’Unione, e lo sono stato fino al 1974, quando sono passato a tempo
pieno al regionale Cisl della Lombardia, dove sono rimasto per circa vent'anni.
Abbiamo vissuto
profondi processi di trasformazione nell'elettromeccanica, nel cotoniero, con
l’introduzione di nuovi materiali e tecniche di produzione. Per cui la nostra
attività era in gran parte assorbita da quei problemi. Ci sono state diverse
occupazioni di fabbriche ma, soprattutto, in quel periodo io ho cercato di
assicurare una tutela individuale al lavoratore, oltre quella collettiva. Come
Cisl ci siamo specializzati in quella direzione, a partire dall'ufficio
vertenze.
Per questa
nostra capacità e per l’attenzione ai problemi individuali, cosa che la Cgil
faceva poco, eravamo apprezzati e alcune commissioni interne iniziarono a
chiedere che andassi io a trattare in azienda e non i loro rappresentanti.
Sono diventato
un esperto di tribunali, dove andavo in occasione dei fallimenti. Ero
addirittura divenuto amico di alcuni giudici che incontravo frequentemente. In
un caso, un magistrato, che doveva stabilire l’esatto compenso per il lavoro
che la Bassani - una grossa azienda che produceva componenti elettrici - dava a
domicilio e in carcere, mi ha nominato
suo esperto.
Non sono mai
andato molto d’accordo con la Cgil, ero un anticomunista, anche perché nei sei
mesi vissuti con i russi mi sono reso conto che cosa era quel regime. Inoltre,
ho passato un periodo non certo felice e ho avuto dei momenti di difficoltà non
indifferente nell'azione sindacale con i nostri amici della Cgil. Diversi dei
nostri sono stati picchiati. Io stesso sono stato nascosto in una fabbrica,
rinchiuso in uno sgabuzzino per diverse ore, per evitare di essere aggredito.
Però ci sono stati anche momenti di solidarietà reciproca, come ad esempio in
occasione delle occupazioni, quando più volte sono stato fermato insieme a
dirigenti Cgil e portato in questura.
Ho sempre
considerato le battaglie interne all'organizzazione come un fatto fisiologico,
come il sale della vita in casa Cisl, parte di una normale dialettica. Non ho
mai assunto posizioni di forte contrasto, pur parteggiando in modo chiaro con
le posizioni che sentivo in maggiore sintonia con le mie idee. Nonostante fossi
amico e sostenitore di Bruno Storti, non ho mancato di criticarlo quando lo
ritenevo giusto.
Con Storti ero
doppiamente amico. Era il vice di Morelli, che era segretario generale aggiunto
della Cisl, e quando Morelli veniva a Varese lo accompagnava, così è nato un
rapporto abbastanza stretto.
Non sempre,
però, i contrasti si limitavano alla semplice dialettica politica. Nei primi
anni settanta ho vissuto un periodo piuttosto turbolento. Alcuni nostri
iscritti della Ignis e dell’Ospedale, che erano in Autonomia operaia, sono
venuti a protestare davanti alla sede provinciale e hanno spaccato tutti i
vetri.
La formazione
Ho partecipato a diversi corsi di
formazione, alle settimane confederali. Ho preso parte ad un corso di alta dirigenza che si teneva al Centro studi che è durato circa
quattro mesi, anche se non si rimaneva sempre a Firenze. Tra i miei docenti
ricordo Giuseppe Glisenti, fondatore della Dc e a lungo direttore centrale
dell’Iri, e Ettore Massacesi, che è stato tra l’altro presidente dell’Alfa
Romeo. Mi applicavo con impegno, ma la mia formazione è avvenuta essenzialmente
sul campo. Studiavo i contratti di lavoro e ho avuto la fortuna di avere con me
persone preparate, anche due avvocati che provenivano dalle fila del sindacato
fascista, che conoscevano molto bene la materia giuridica e legale. Io ho
cercato, sia sulle questioni economiche, che su quelle legali e giuridiche dei
rapporti di lavoro, di acquisire una buona competenza. Ho seguito tutte le
categorie e conoscevo tutte le intese nazionali.
A mia volta ho
fatto più volte il formatore nei corsi che organizzava la Cisl, in particolare,
per quattro anni, sono stato impegnato al campeggio di Ortisei.
Avevo rapporti
con alcuni sacerdoti del seminario di Venegono e andavo a tenere i corsi di
formazione sulle questioni sindacali per i preti anche al seminario di Saronno.
L’unità sindacale
Ho creduto fermamente nell'unità
sindacale: <<non alla metalmeccanica>>, dicevo allora. Perché
secondo me avevano rinunciato ai nostri principi, ai nostri ideali, che per la
mia visione fondamentalmente erano gli ideali cristiani.
Sono sempre
stato un moderato, però ho vissuto con passione, pienamente e con convinzione
il processo di unità, ritenendo che avremmo dovuto essere noi i portatori dei
valori di democrazia e di autonomia all'interno della nuova organizzazione
affinché diventassero patrimonio di tutti. Credevo di dover costruire un
sindacato in cui la Cisl poteva essere protagonista, se non egemone. Quantomeno
sul piano ideale, se non numerico. Ho sempre creduto che i nostri valori e le
nostre scelte fossero più forti di quelle della Cgil e potessero divenire bene
comune. Come peraltro si è verificato in molti casi, e quindi non avevo paura
del confronto. A Varese ho celebrato il congresso di scioglimento della Cisl.
Oltre a Varese, in Lombardia lo hanno fatto solo: Como, Bergamo e Lecco.
La scelta regionale
A metà degli anni cinquanta si è
costituito un coordinamento regionale composto da tutti i segretari generali
delle Unioni sindacali provinciali e il primo coordinatore è stato l’onorevole
Ettore Calvi, leader di Milano. Quando Calvi ha abbandonato è stato sostituito
da Paolo Sala, che era segretario generale di Como, e c’è stato uno scontro con
Milano, perché Piervirgilio Ortolani, responsabile della maggiore struttura
lombarda, riteneva che toccasse a lui quel ruolo. Io mi sono schierato con
Sala. Ho sempre visto positivamente il processo di costruzione e rafforzamento
della struttura regionale e mi sono impegnato in questo, mentre Milano viveva
quel processo come fosse la creazione di una sovrastruttura. In effetti,
attraverso il rafforzamento del regionale si toglieva potere proprio alla Cisl
di Milano.
Sono entrato
subito nel coordinamento e sono rimasto poi nel regionale come segretario fino
a quando ho lasciato l’impegno attivo. A metà degli anni ’60 è stata costituita
una prima segreteria a tre di cui ho fatto parte insieme a Sala e Mirko Rizzini
di Cremona, rimanendo però a Varese.
Con Sala e
Rizzini, mentre eravamo coordinatori regionali, nell'agosto del 1961 siamo
andati in Germania nei giorni in cui hanno cominciato a costruire il muro di
Berlino. In quel frangente ci siamo trovati al di là e siamo rimasti bloccati a
Est per sei giorni, perché avevano tolto il passaggio di collegamento tra
Berlino Est e Berlino Ovest. Siamo andati in macchina perché volevamo renderci
conto di persona, volevamo capire che cosa stava accadendo. Noi tre,
nell'ambito regionale, avevamo formato un gruppo e in fondo Milano non gradiva
molto, anche perché, data la sua importanza, pretendeva di averne il controllo,
mentre io sostenevo che dovesse essere una componente come un’altra.
Il coordinamento
era un’occasione per scambiarsi quattro idee, per avere il conforto delle
proprie convinzioni. Si finiva sempre a mangiare insieme. Nelle riunioni
discutevamo di temi generali, ci si confrontava. A volte invitavamo Bruno
Storti o Vito Scalia o altri dirigenti nazionali. Una delle questioni che ci
visto discutere molto è stata quella della “verticalizzazione” promossa da
Luigi Macario, quando era segretario confederale, prima di passare alla Fim. Io
ero nettamente contrario, perché a Varese il cuore dell’iniziativa sindacale
era la Cisl e non le categorie. In quel periodo ero anche nell’esecutivo
nazionale della Fim e cercavo di condizionare le scelte che si andavano
facendo. Allora sentivo la necessità di dare una maggiore rappresentatività
alle strutture territoriali, che erano fortemente condizionate dal peso
crescente delle categorie. Io sostenevo la tesi che i lavoratori dovessero
iscriversi alla Cisl e non alle categorie, così come si usa in Cgil, e molti
dei dirigenti di territorio la pensavano come me.
Noi potevamo
contrastare la Cgil perché eravamo un tutt’uno, con una amministrazione
centralizzata che consentiva di fare cose che altrimenti sarebbe stato
impossibile realizzare. In una situazione di pluralismo sindacale pensavo che
il cuore dell’organizzazione dovesse restare la Cisl, mentre le categorie
dovevano essere espressione della normale dialettica interna.
La nascita della
Regione
A torto o a ragione consideravo la Regione
come espressione di autonomia e libertà, e come prodotto della nostre battaglie
sulle riforme, per l’autonomia e il decentramento. Vivevo con passione il
problema della programmazione nella realtà locale, pensavo che le Province
fossero destinate ad esaurirsi. Tutt’al più si doveva parlare di comprensori,
non come espressione di natura politica ma come compagine organizzativa
territoriale per gestire la politica dei trasporti, della casa e altri servizi.
Scelte che non si sono realizzate, ma io la pensavo così. Anche per questo
abbiamo pensato alla costruzione dei comprensori sindacali. Ancora una volta
siamo partiti noi della Cisl e solo dopo è arrivata la Cgil.
Mi sono
impegnato molto nel processo di costituzione della Regione e, prima ancora, del
Crpe, il Comitato regionale per la programmazione economica. Ho fatto parte
della commissione sanità, dando un forte contributo alla costruzione del piano
sanitario e alle nuove norme legislative, grazie alla collaborazione degli
uomini che avevo intorno a me e che lavoravano come esperti per la Cisl.
Partecipavo ai lavori delle commissioni ristrette, eravamo quattro o cinque
persone in tutto. I nostri pareri erano parecchio considerati e io mi sentivo
di contare. Molti assessori non si muovevano se non c’era il nostro assenso,
perché in fondo noi legittimavano anche loro.
I politici con
cui ho avuto rapporto più stretti sono stati Vittorio Rivolta, per la sanità,
ancora prima ancora che nascesse la Regione, più tardi Filippo Hazon, che si
occupava di formazione, e il presidente Cesare Golfari, che per me è stato il
migliore di tutti.
I collaboratori
con cui ho lavorato più strettamente sono stati Emanuele Ranci Ortigosa, per la
sanità, Cristina Treu, per la casa, Massimo Almagioni, Antonio Brenna, Valerio
Onida. Erano collaboratori di un certo rilievo e per questo eravamo apprezzati.
Io prendevo ciò che ritenevo giusto delle loro proposte e lo portavo al
confronto in Regione.
Ho fatto parte
anche della commissione formazione, dove più volte mi sono scontrato con Hazon.
Io sostenevo la necessità di una formazione continua che purtroppo non è mai
stata realizzata.
L’Unione sindacale
regionale
Inizialmente
facevo tre giorni a Varese e tre a Milano. A pieno tempo al regionale ho
iniziato solo dopo il congresso del 1973, il primo dell’Unione sindacale
regionale Cisl della Lombardia. La segreteria era composta da alcuni che
rimanevano ancora segretari di Unione: Melino Pillitteri, Paolo Nardini e Mario
Colombo, mentre io e Sala siamo passati a pieno tempo lasciando gli incarichi
provinciali. Siamo andati avanti per un po’ di anni in questo modo. La sede
regionale era a Milano, inizialmente in via San Gregorio, poi ci siamo
trasferiti in via Torino, con un’operazione che ho seguito io mentre ero nel
consiglio di amministrazione dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro
gli infortuni sul lavoro. Grazie a quell'incarico, infatti, ho saputo che
l’Inail aveva dei locali liberi che ci andavano bene.
Al regionale mi
sono occupato soprattutto di sanità. Per un certo periodo ho seguito anche la
formazione, che poi è passata a Pillitteri, e i problemi della casa.
Nel rapporto con
la Regione abbiamo avuto la fortuna di avere molti dei dirigenti della nuova
struttura iscritti alla Cisl. Provenivano da enti differenti ed erano stati
aggregati nella istituzione lombarda. Spesso, quando c’erano dei problemi, ci
riunivamo con loro e ci mettevamo d’accordo prima che venissero portati in
giunta e ne discutessero gli assessori.
Sono stato anche
presidente dell'Inas Lombardia e ho avuto incarichi negli organismi nazionali
del patronato della Cisl.
In
rappresentanza della Cisl sono stato membro del consiglio di amministrazione
della Camera di commercio di Varese e partecipato anche alle attività di
Unioncamere Lombardia.
Ho lasciato gli
incarichi politici nel 1983 per passare ad occuparmi dell’amministrazione della
Cisl lombarda. Negli ultimi anni seguivo già un po’ meno l’attività perché
stavo tre giorni a Roma nel consiglio d’amministrazione dell'Inail e tre giorni
a Milano. Ho fatto l’amministratore della Cisl regionale fino al 1998, quando
Savino Pezzotta, che era il segretario generale, mi ha chiesto di andare a
seguire le vicende amministrative ed economiche del comprensorio di Busto
Arsizio e, siccome abito da quelle parti, ho accettato. Per un po’ ha mantenuto
i due impegni, poi ho lasciato definitivamente il regionale. Oggi sono ancora
il responsabile della società della Cisl nata dalla fusione dei comprensori di
Magenta e Ticino-Olona.
Sono certamente
la persona che ha avuto la carriera sindacale più lunga nell'ambito della
struttura regionale.
La passione per i rapporti internazionali
Mi sono sempre occupato di rapporti
internazionali. Subito dopo la guerra, con una borsa di studio dell'Unesco di
tre mesi, ho girato tutta l’Europa. Eravamo un gruppo di dieci o dodici
giovani, quasi tutti romani, io ero l’unico lombardo. Abbiamo incontrato i sindacati
dei diversi Paesi, visitato fabbriche e istituzioni L’iniziativa era partita
dall'Università di Roma, io ero amico di qualcuno che ora nemmeno ricordo e
sono entrato in quel giro. Conoscevo un po’ di francese, qualche parole di
tedesco, oltre al portoghese e forse anche questo ha giocato a mio favore. Ho
sempre avuto una certa passione per questi scambi e più tardi li ho promossi
anch'io in Cisl.
L’impegno diretto sui temi internazionali
è iniziato quando in provincia di Varese è stata creata l'Euratom, l’iniziativa
per l’energia atomica della Comunità europea con sede a Ispra. In
quell'occasione ho stabilito i primi contatti con Bruxelles. Inizialmente
dentro Ispra il sindacato non c’era, ma io sono riuscito a costruite il nucleo
della Cisl. C’era il comitato del personale, con lavoratori che provenivano da
nazioni diverse. Sono nati così dei rapporti con i sindacati degli altri paesi,
in particolare francesi e belgi.
A Varese ho anche sostenuto alcuni
progetti di formazione per il settore tessile in Africa, realizzati insieme a
mons. Sergio Pignedoli, della diocesi di Milano, di cui anche la mia città fa
parte.
L’avvio della politica regionalistica, che
prevedeva un’organizzazione non più statale ma regionale, ha portato alla
creazione dei Consigli sindacati interregionali (Csi), di cui sono stato
l’iniziatore e di cui sono diventato il responsabile. Ho costruito quello del
Ticino e ho partecipato alla loro costituzione a livello nazionale. In un primo
tempo in Europa eravamo solo in cinque o sei, e noi tra loro.
Personalmente, per conto della Cisl
Lombardia, ho anche promosso le azioni sindacali per la costituzione di
organismi regionali sovranazionali come l’Alpe Adria, l'Arge Alp, i Quattro
Motori, poi gli altri ci hanno seguito. Nelle nostre riunioni ci misuravamo sul
piano della conoscenza e dell’eventuale azione sindacale comune nella sfera
internazionale.
Come responsabile dell’azione
internazionale della Cisl ho avviato i primi contatti con Solidarnosc, quando
il sindacato polacco ha iniziato la propria lotta contro il regime comunista.
Per tutte queste ragioni sono stato in
molte città europee: a Bilbao, a Lione, a Bruxelles, in Svizzera, in Germania.
Già quando ero segretario di Varese avevo organizzato degli scambi di giovani
con il sindacato di Fulda, una città tedesca vicino a Francoforte, in
collaborazione con Como. Una iniziativa iniziata da Sala, poi io li ho
allargati al Linburgo, in Belgio. Abbiamo organizzato delegazioni piuttosto
folte con pullman di giovani che andavano là per un po’ di giorni e loro
venivano qui da noi. Questa iniziativa l’ho poi trasferita a livello regionale,
avvalendomi anche della collaborazione della Regione. Ad esempio, ho fatto
ospitare nei loro centri di formazione dei giovani che venivano da Monaco, da
Lione e da altre città europee. Infine, queste attività sono proseguite a
livello unitario. Abbiamo costituito un gruppetto di tre rappresentanti di
Cgil, Cisl e Uil e io ne sono sempre stato l’animatore.